sabato 29 marzo 2014

Sformati di patate con... il Segno del Comando!

  
Perché lo studioso di letteratura inglese Lancelot Edward Forster è stato invitato a Roma a tenere una conferenza su Lord Byron proprio il 28 marzo del 1971?
Chi ha scritto la lettera in cui gli si contestano dei particolari su una sua scoperta sul diario romano del poeta visto che il mittente, il pittore Marco Tagliaferri, sembra essere morto cent’anni prima, e  proprio il 28 marzo?
Perché questa data, il 28 marzo, ricorre così insistentemente?
Il 28 marzo del 1735 nasce l’orafo e alchimista Ilario Brandani, che muore lo stesso giorno del 1771; il pittore Tagliaferri è morto anch'esso lo stesso giorno cento anni dopo, nel 1871; ma il 28 marzo1935 è anche la data di nascita di Forster: ha un senso questa sconcertante coincidenza?

E chi è Lucia, l’ammaliante ragazza che sembra venire da un altro tempo e che dice di essere la modella di Tagliaferri, un fantasma o una donna reale?
E, soprattutto, cos’è il "Segno del Comando", quel misterioso oggetto capace di donare al possessore la vita eterna, un oggetto di cui nessuno sa la foggia ma che tutti cercano, anche a costo d’uccidere?
Un po’ giallo e un po’ noir, un po’ spionistico e un po’ fantastico.
E molto, molto soprannaturale.
Una miscela di elementi non sempre facile da trattare in una stessa storia.
Si rischia di perdersi nel tentativo di rendere l'assurdo verosimigliante o di sbiadire il reale nella nebbia dell'inconoscibile.
Eppure Daniele D’Anza, che nel 1971 lo diresse e ne curò la sceneggiatura assieme a Flaminio Bollini ( che avrebbe curato la regia di altro grande capolavoro della Rai, “Ritratto di donna velata”, del ’74), riuscì a inchiodare davanti agli schermi oltre 14 milioni di spettatori.

E anche a rendere la Roma già caotica dei primi anni Settanta un dedalo di vicoli misteriosi in cui ci si può perdere. O ritrovare.
Oggi che siamo abituati a ritmi narrativi più convulsi e frenetici quegli sceneggiati - una volta la parola fiction non s’usava ancora - sembrano andare al rallentatore. Ma è la lentezza della lettura, dei pensieri che s’accavallano e cercano una spiegazione, non quella degli eventi che piombano come grandine sulla testa dei personaggi.
Il vero senso del mistero è questo non capire cosa stia accadendo, e se quello che succede avvenga davvero o sia solo un sogno, il frutto della mente suggestionata dall'immaginazione.
È quello che lascia uno spiraglio in una stanza oscura a dispetto d’ogni chiarimento finale.
Questo il segreto dei grandi sceneggiati degli anni Settanta.

Tant’è che alla fine della storia, quando ogni evento sembra aver trovato il suo giusto posto in un mosaico razionale e concreto, ecco riapparire la misteriosa Lucia, col suo scialle zigano sulle spalle, che riporta Forster nella misteriosa “Taverna dell’angelo”, dove finalmente gli rivela cosa sia davvero il “Segno del Comando”.
Ma, allora...
Altro che Belfagor con quella cazzarola (1) in testa e il grottesco mascherone sul grugno!
Quello era un bobbo, un bau-bau, come il mostro sotto il letto o nell’armadio, archetipo vivo e reale d’ogni mente infantile.
E altro che Fantonas, con quella faccia gommosa e le sue avventure improbabili!


Qui non si mostra nulla di eclatante, ma si suggerisce tutto, come in ogni vero horror che si rispetti, dove il mostro è nell’ombra e non appare mai.
Bastano le facce degli attori a suggerire i diversi toni della storia: quella perplessa di Ugo Pagliai,  sconcertato di fronte al crescendo delle sue scoperte; quella sorniona di Massimo Girotti, che sembra non prendere davvero mai nulla sul serio, e che sotto la patina del viveur nasconde un ruolo decisivo; quella felina e bellissima di Carla Gravina, la modella d’altri tempi (in tutti i sensi) che attira Forster in una dimensione misteriosa e fatale; quella tremebonda di Rossella Falk, che nasconde disperata (e te pareva...) un mistero che non può rivelare; quella schietta e dolce di Paola Tedesco, che accompagna con acume ed affetto il protagonista nelle sue scoperte.
Tutti "artistoni", avrebbe detto pora mamma. Un cast d'eccezione, si direbbe oggi.

Ma allora l'eccezione era la norma, tant'è che negli sceneggiati ritroviamo tutti, o quasi, i più grandi artisti del teatro italiano.
Così, ogni anno - il 28 marzo - mi piace sciropparmi tutte e cinque le puntate del "Segno del Comando", anche a costo di fare le due di notte e di cadere tramortito con la testa sulla tastiera del pc mentre Rossella Falk s'agita urlando appesa per i polsi.
E anche se oramai ne conosco a menadito ogni episodio non posso non essere attirato ogni volta, proprio come il professor Forster, nel labirinto di questa storia.
Solo che per gustarmela appieno, senza rotture di zebedei o interruzioni che non siano fisiologiche mi devo organizzare.
Qui ci vuole qualcosa che si possa mangiare sia calda che fredda.
Qualcosa facile da inforchettare e che non faccia perdere la visione d'una scena importante proprio mentre si lavora di coltello e forchetta. Non sia mai...
Ci vogliono gli "Sformati con Tutto".

Sformati di patate con Tutto
Occorrono:
Patate
Tutto
olio, sale e pepe q.b.
Detta così sembra un'indicazione degna dell'orafo-alchimista Brandani, ma è proprio la sacrosanta verità.
Patate in casa se ne hanno sempre, si sa.
Teglie d'alluminio di media grandezza, da sei porzioni? Pronte.
E cos'è questo Tutto?
Qualcosa più misterioso e sfuggente del Segno del Comando stesso.
Magari non donerà l'immortalità, questo no, ma almeno un senso di appagante sazietà sì. È sicuro.
Tutto si scompone in due elementi:
- elemento carneo/caseario;
- elemento ittico/vegetale.
Occorre scavare nell'insondabile mistero del frigo e carpirne i più reconditi segreti, indi scrutare nelle viscere della dispensa e ricavarne dagli angoli più nascosti, quali minatori casalinghi, saporiti (si spera ancora...) tesori dimenticati.
Salamino piccante, bene; coppa di Parma, figurarsi, non manca mai; pancetta a dadini, vediamo un po' la scadenza; scamorza affumicata, eccola all'appello, la mia fida; scatoletta di filetti d'aringa all'aneto, mh, li avrà portati la Befana perché proprio non me li ricordavo; cipolle rosse di Tropea, ma anche di Latina vanno bene; rosmarino della loggetta (sì del balcone)...
E così ad oltranza, fino ad esaurimento.
Nostro, s'intende.
Lavare, sbucciare e affettare le patate.
Avranno dato il Nobel all'inventore dell'affetta-verdura? No? Allora glielo consegnerò io in persona. E con tanto di frac, giuro!
Lasciare le fettine di patate in una ciotola, immerse in acqua fredda, per non farle annerire.
Nel frattempo tagliare a dadini gli insaccati e affettare i formaggi che abbiamo scelto/trovato.
Schiacchare con la forchetta i filetti di pesce, di qualsiasi specie siano, ben scolati dall'"olio" di conserva.
Affettare anche due-tre di cipolle grandi (grandi come arance, s'intende).
Se abbiamo della panna da cucina non esitiamo a usarla.
Le vie del colesterolo sono più misteriose dei vicoli di Trastevere, e spesso dietro un angolo non vi si trova la "Taverna dell'angelo" ma la "Lecitina di soia". Aggiungiamoci magari un po' di latte per renderla più fluida, o se si vuole si prepari una besciamella, anche light, lasciandola un po' liquidina.
Ungere il fondo delle teglie, scolare le fettine di patate e asciugarle un un canovaccio.
Si parte: strato di patate, sale, pepe, carne, cipolle, e fettine di formaggio; di là: patate, sale e pepe, cipolle e briciole di pesce.
Panna/besciamella a coprire e via: altre patate di qua e altre di là, lavorando in parallelo. In multitasking, se dice.
Quando avremo composto almeno due strati di condimento osserviamo l'opera, fieri di noi.
Spolverata di sale e pepe, panna finale e via, in forno.
Ci vorrà il tempo di una puntata, circa un'ora.


E quando le patate saranno cotte e ben rosolate in superficie far intiepidire e "portare a tavola" (2).
- È prontooo!
- Arrivooo!

- Ma come ti sei combinato, Leppagorre?
- Lucìo. Chiamami Lucìo.

P.S. Per chi, come me ama questo sceneggiato e anche passeggiare per Roma, segnalo un paio di link interessanti, dove sono riportati esattamente tutti gli esterni (3) del film. Qui in versione testuale, e qui in versione filmata (qui la seconda parte).
È un piacere unico vedere affiancati in bianco e nero e a colori gli angoli più suggestivi della storia.
Devo dirlo? Spesso ho fatto "il pellegrinaggio delle scene", da Trastevere ai Chiavari, dai Fori al Cimitero Acattolico.
Ah, potessi fare anche quello pietroburghese di "Delitto e castigo"... 

Graffito romano del giorno


Oggi ascoltiamo, manco a dirlo...
Nico - Cento Campane

https://www.youtube.com/watch?v=xKgSqA7-iZ4
Anche se cantata da un siculo di Girgenti non è un gran che, bisogna dirlo.
Quel "No, nun lo dì, nun barlààà" ecco, nun se pò sentì.
Lando Fiorini ne fece un suo dei suoi brani preferiti, e a ragione, dico io.

NOTE
1) Cazzarola, ovvero pentola.
2) Aveva ragione Aldo Fabrizi: che brutta parola quel "servire" nelle ricette di cucina.
Non solo perché si sia delle regine della casa, il che è fuor di dubbio, ma per quella connotazione negativa che la parola "servire", non c'è niente da fare, evidenzia ("serve", stavo per dire) in una crudezza che non ha alcun corrispettivo con la situazione attuale. Un tempo le camerire erano "le serve".
Oggi, grazie, mi servo da me.
3) Nessuno, nemmeno sotto tortura, mi farà mai usare l'odiosa parola location. Soprattutto parlando di festicciole tra amici o di banchetti matrimoniali. Pussa via!

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