domenica 30 marzo 2014

Sformatini di carote


- Miseri!…
- Ma come, “miseri”? Che ti salta in mente, Leppagorre?
- Miserrimi!… E tristi come poche cose al mondo!
- Lo fai apposta, eh? Lo dici per ferire il mio già nazzicante (1) amor proprio, o quel che ne resta?
- No, no, macché! Sono proprio tristi!
- Signorino con tanto pelo, vieni un po’ qui! E secondo te cosa avrei dovuto fare di quel mezzo chilo di carote che rischiava di scomporsi nelle sue particelle elementari: idrogeno, ossigeno, azoto e l’accidente che te spacca?
- Be’, che so… Io le avrei frullate nel mixer…
- Sì?…
- … poi strizzate in un panno e cotte con una confezione di panna…
- Sì?… E poi?
- Poi avrei aggiunto una tavoletta, anzi una e mezza, di cioccolato. Fondente, eh? Grattugiato.
- Ecco… E poi?
- Poi avrei lasciato freddare, unito due, anzi tre, tre uova. E farina quanto ne avrebbe preso l’impasto per rassodarsi un po’.
- E certo, metti che venga mollo…
- E sì, eh. Ah, poi magari dei canditi sminuzzati. Tanti canditi, e di tutti i colori. Anzi, no, aspetta! Solo scorzette d’arancia. Meglio.
- Certo… Molto meglio…
- E poi… mhhh… una bustina di pinoli tostati…
- Con le carote?…
- Ma no, per me! Per sgranocchiarli seduto davanti al forno mentre il dolce avrebbe cucinato sereno e beato.
- Come ho fatto a non pensarci? E delle mandorle caramellate no, eh?
- Uhm… no, no, va bene così. Il troppo storpia.
- Certo, un campione di misura come te. Il gattodemone zen per antonomasia.
- Ma quale Zeno? Mi chiamo Leppagorre, io!
- Ah, vero, né Zeno né coscienza, tu.
- Quella ce l’ho, invece. Non vedi che ti parlo col cuore in mano?
- Meno male… Pensavo mi stessi camminando sulle pudenda con le scarpe chiodate da alpinista come al tuo solito!
- A proposito di mandorle! Nel dolce anche un paio d’etti di mandorle. Tritate.
- Ovvio. Ah, guarda un po' qui, in fondo a questo barattolino c'è un'etichetta ma non riesco a leggere bene cosa vi sia scritto...
- E certo, sei un babbione (2), tu!
- Già, un babbione fatto e rifatto. Su, leggi un po'!
- È scritto davvero piccolo... non vedo bene... Aspetta che mi faccio piccino e vado a controllare da vicino.
- Vedi un po'...
- C'è scritto... Ahó, e che fai, mi chiudi dentro?
- Ah, te ne sei accorto? Strano, eh?
- Dài,  non scherzare, apri il tappo di questo stupido barattolo!
- Fossi matto! Ora ti metto in dispensa, al buio, e ti lascio pensare al tuo sgradevole e irriverente modo d'esprimerti.
- Soffoco, apri!
- Ma non fare lo scemo, potresti soffocare solo se respirassi!
- Ho paura del buio!
- Eh sì, anch'io, sai? E tanta!
- Non voglio stare in dispensa!
- Poco poco, su. Un'oretta o due, se non mi scordo...
- Ma è una sofferenza! Mi metterai vicino al barattolo del miele e non potrò toccarlo!
- Come hai fatto a indovinare? Anzi, guarda, ci aggiungo anche una tavoletta, "anzi una e mezza, di cioccolato. Fondente, eh?" Sei contento?
- Voglio uscireee!
- You make me this/ Bring me up/ Bring me down/ Play it sweet/ Make me move like a freak/ Mr.Saxo beat!
- Sei stonatooo!

Sformatini di carote
Dose per 6-8 stampini da muffin, di 7 cm di diametro

500 g    carote
200 g    besciamella (sì, anche quella light. )
2    uova
Cuocere le carote, lessate (anche nella pentola a pressione, e in tal caso ci vorranno solo 5 minuti) o al vapore, quindi passarle al setaccio.
Aggiungere le uova e la besciamella.
Se le uova fossero troppo grandi e il composto dovesse risultare troppo liquido, aggiungere un paio di cucchiai di farina.
Cuocere in forno per 15 minuti circa, o in pentola a pressione, in tal caso versare sul fondo mezzo bicchiere d'acqua, disporre gli stampini e far andare per 5 minuti dal fischio.


Saranno anche miserrimi, non lo nego, ma sono gustosi e qualche volta fa piacere cucinare le verdure in modo diverso....
- Fammi uscireee!
- Ho le cuffie! Non ti sento!
You make me this/ Bring me up/ Bring me down/ Play it sweet/ Make me move like a freak/ Mr.Saxo beat!

Detto romano del giorno
Mejo ar fornaro che a lo speziale.

Cioè, dal farmacista…

Oggi ascoltiamo
Alexandra Stan - Mr. Saxobeat

https://www.youtube.com/watch?v=sS76eS34Y0c&feature=kp


NOTE
1) Nazzicante, ovvero traballante. Un tavolo nazzica se ha una gamba più corta, mentre l'autostima lo fa quando si ha la vista corta e non ci si accorge delle proprie buone qualità.
2) Babbione, in italiano è "sciocco, stupido, stolto" ma in romanesco indica una persona avanti negli anni. Molto avanti.

sabato 29 marzo 2014

Sformati di patate con... il Segno del Comando!

  
Perché lo studioso di letteratura inglese Lancelot Edward Forster è stato invitato a Roma a tenere una conferenza su Lord Byron proprio il 28 marzo del 1971?
Chi ha scritto la lettera in cui gli si contestano dei particolari su una sua scoperta sul diario romano del poeta visto che il mittente, il pittore Marco Tagliaferri, sembra essere morto cent’anni prima, e  proprio il 28 marzo?
Perché questa data, il 28 marzo, ricorre così insistentemente?
Il 28 marzo del 1735 nasce l’orafo e alchimista Ilario Brandani, che muore lo stesso giorno del 1771; il pittore Tagliaferri è morto anch'esso lo stesso giorno cento anni dopo, nel 1871; ma il 28 marzo1935 è anche la data di nascita di Forster: ha un senso questa sconcertante coincidenza?

E chi è Lucia, l’ammaliante ragazza che sembra venire da un altro tempo e che dice di essere la modella di Tagliaferri, un fantasma o una donna reale?
E, soprattutto, cos’è il "Segno del Comando", quel misterioso oggetto capace di donare al possessore la vita eterna, un oggetto di cui nessuno sa la foggia ma che tutti cercano, anche a costo d’uccidere?
Un po’ giallo e un po’ noir, un po’ spionistico e un po’ fantastico.
E molto, molto soprannaturale.
Una miscela di elementi non sempre facile da trattare in una stessa storia.
Si rischia di perdersi nel tentativo di rendere l'assurdo verosimigliante o di sbiadire il reale nella nebbia dell'inconoscibile.
Eppure Daniele D’Anza, che nel 1971 lo diresse e ne curò la sceneggiatura assieme a Flaminio Bollini ( che avrebbe curato la regia di altro grande capolavoro della Rai, “Ritratto di donna velata”, del ’74), riuscì a inchiodare davanti agli schermi oltre 14 milioni di spettatori.

E anche a rendere la Roma già caotica dei primi anni Settanta un dedalo di vicoli misteriosi in cui ci si può perdere. O ritrovare.
Oggi che siamo abituati a ritmi narrativi più convulsi e frenetici quegli sceneggiati - una volta la parola fiction non s’usava ancora - sembrano andare al rallentatore. Ma è la lentezza della lettura, dei pensieri che s’accavallano e cercano una spiegazione, non quella degli eventi che piombano come grandine sulla testa dei personaggi.
Il vero senso del mistero è questo non capire cosa stia accadendo, e se quello che succede avvenga davvero o sia solo un sogno, il frutto della mente suggestionata dall'immaginazione.
È quello che lascia uno spiraglio in una stanza oscura a dispetto d’ogni chiarimento finale.
Questo il segreto dei grandi sceneggiati degli anni Settanta.

Tant’è che alla fine della storia, quando ogni evento sembra aver trovato il suo giusto posto in un mosaico razionale e concreto, ecco riapparire la misteriosa Lucia, col suo scialle zigano sulle spalle, che riporta Forster nella misteriosa “Taverna dell’angelo”, dove finalmente gli rivela cosa sia davvero il “Segno del Comando”.
Ma, allora...
Altro che Belfagor con quella cazzarola (1) in testa e il grottesco mascherone sul grugno!
Quello era un bobbo, un bau-bau, come il mostro sotto il letto o nell’armadio, archetipo vivo e reale d’ogni mente infantile.
E altro che Fantonas, con quella faccia gommosa e le sue avventure improbabili!


Qui non si mostra nulla di eclatante, ma si suggerisce tutto, come in ogni vero horror che si rispetti, dove il mostro è nell’ombra e non appare mai.
Bastano le facce degli attori a suggerire i diversi toni della storia: quella perplessa di Ugo Pagliai,  sconcertato di fronte al crescendo delle sue scoperte; quella sorniona di Massimo Girotti, che sembra non prendere davvero mai nulla sul serio, e che sotto la patina del viveur nasconde un ruolo decisivo; quella felina e bellissima di Carla Gravina, la modella d’altri tempi (in tutti i sensi) che attira Forster in una dimensione misteriosa e fatale; quella tremebonda di Rossella Falk, che nasconde disperata (e te pareva...) un mistero che non può rivelare; quella schietta e dolce di Paola Tedesco, che accompagna con acume ed affetto il protagonista nelle sue scoperte.
Tutti "artistoni", avrebbe detto pora mamma. Un cast d'eccezione, si direbbe oggi.

Ma allora l'eccezione era la norma, tant'è che negli sceneggiati ritroviamo tutti, o quasi, i più grandi artisti del teatro italiano.
Così, ogni anno - il 28 marzo - mi piace sciropparmi tutte e cinque le puntate del "Segno del Comando", anche a costo di fare le due di notte e di cadere tramortito con la testa sulla tastiera del pc mentre Rossella Falk s'agita urlando appesa per i polsi.
E anche se oramai ne conosco a menadito ogni episodio non posso non essere attirato ogni volta, proprio come il professor Forster, nel labirinto di questa storia.
Solo che per gustarmela appieno, senza rotture di zebedei o interruzioni che non siano fisiologiche mi devo organizzare.
Qui ci vuole qualcosa che si possa mangiare sia calda che fredda.
Qualcosa facile da inforchettare e che non faccia perdere la visione d'una scena importante proprio mentre si lavora di coltello e forchetta. Non sia mai...
Ci vogliono gli "Sformati con Tutto".

Sformati di patate con Tutto
Occorrono:
Patate
Tutto
olio, sale e pepe q.b.
Detta così sembra un'indicazione degna dell'orafo-alchimista Brandani, ma è proprio la sacrosanta verità.
Patate in casa se ne hanno sempre, si sa.
Teglie d'alluminio di media grandezza, da sei porzioni? Pronte.
E cos'è questo Tutto?
Qualcosa più misterioso e sfuggente del Segno del Comando stesso.
Magari non donerà l'immortalità, questo no, ma almeno un senso di appagante sazietà sì. È sicuro.
Tutto si scompone in due elementi:
- elemento carneo/caseario;
- elemento ittico/vegetale.
Occorre scavare nell'insondabile mistero del frigo e carpirne i più reconditi segreti, indi scrutare nelle viscere della dispensa e ricavarne dagli angoli più nascosti, quali minatori casalinghi, saporiti (si spera ancora...) tesori dimenticati.
Salamino piccante, bene; coppa di Parma, figurarsi, non manca mai; pancetta a dadini, vediamo un po' la scadenza; scamorza affumicata, eccola all'appello, la mia fida; scatoletta di filetti d'aringa all'aneto, mh, li avrà portati la Befana perché proprio non me li ricordavo; cipolle rosse di Tropea, ma anche di Latina vanno bene; rosmarino della loggetta (sì del balcone)...
E così ad oltranza, fino ad esaurimento.
Nostro, s'intende.
Lavare, sbucciare e affettare le patate.
Avranno dato il Nobel all'inventore dell'affetta-verdura? No? Allora glielo consegnerò io in persona. E con tanto di frac, giuro!
Lasciare le fettine di patate in una ciotola, immerse in acqua fredda, per non farle annerire.
Nel frattempo tagliare a dadini gli insaccati e affettare i formaggi che abbiamo scelto/trovato.
Schiacchare con la forchetta i filetti di pesce, di qualsiasi specie siano, ben scolati dall'"olio" di conserva.
Affettare anche due-tre di cipolle grandi (grandi come arance, s'intende).
Se abbiamo della panna da cucina non esitiamo a usarla.
Le vie del colesterolo sono più misteriose dei vicoli di Trastevere, e spesso dietro un angolo non vi si trova la "Taverna dell'angelo" ma la "Lecitina di soia". Aggiungiamoci magari un po' di latte per renderla più fluida, o se si vuole si prepari una besciamella, anche light, lasciandola un po' liquidina.
Ungere il fondo delle teglie, scolare le fettine di patate e asciugarle un un canovaccio.
Si parte: strato di patate, sale, pepe, carne, cipolle, e fettine di formaggio; di là: patate, sale e pepe, cipolle e briciole di pesce.
Panna/besciamella a coprire e via: altre patate di qua e altre di là, lavorando in parallelo. In multitasking, se dice.
Quando avremo composto almeno due strati di condimento osserviamo l'opera, fieri di noi.
Spolverata di sale e pepe, panna finale e via, in forno.
Ci vorrà il tempo di una puntata, circa un'ora.


E quando le patate saranno cotte e ben rosolate in superficie far intiepidire e "portare a tavola" (2).
- È prontooo!
- Arrivooo!

- Ma come ti sei combinato, Leppagorre?
- Lucìo. Chiamami Lucìo.

P.S. Per chi, come me ama questo sceneggiato e anche passeggiare per Roma, segnalo un paio di link interessanti, dove sono riportati esattamente tutti gli esterni (3) del film. Qui in versione testuale, e qui in versione filmata (qui la seconda parte).
È un piacere unico vedere affiancati in bianco e nero e a colori gli angoli più suggestivi della storia.
Devo dirlo? Spesso ho fatto "il pellegrinaggio delle scene", da Trastevere ai Chiavari, dai Fori al Cimitero Acattolico.
Ah, potessi fare anche quello pietroburghese di "Delitto e castigo"... 

Graffito romano del giorno


Oggi ascoltiamo, manco a dirlo...
Nico - Cento Campane

https://www.youtube.com/watch?v=xKgSqA7-iZ4
Anche se cantata da un siculo di Girgenti non è un gran che, bisogna dirlo.
Quel "No, nun lo dì, nun barlààà" ecco, nun se pò sentì.
Lando Fiorini ne fece un suo dei suoi brani preferiti, e a ragione, dico io.

NOTE
1) Cazzarola, ovvero pentola.
2) Aveva ragione Aldo Fabrizi: che brutta parola quel "servire" nelle ricette di cucina.
Non solo perché si sia delle regine della casa, il che è fuor di dubbio, ma per quella connotazione negativa che la parola "servire", non c'è niente da fare, evidenzia ("serve", stavo per dire) in una crudezza che non ha alcun corrispettivo con la situazione attuale. Un tempo le camerire erano "le serve".
Oggi, grazie, mi servo da me.
3) Nessuno, nemmeno sotto tortura, mi farà mai usare l'odiosa parola location. Soprattutto parlando di festicciole tra amici o di banchetti matrimoniali. Pussa via!

lunedì 24 marzo 2014

Un trittico sognato da sempre




                                                    Dice: te sei bevuto le cervella?
                                                    Ma come, fai la cresta sulla spesa
                                                    pure a te stesso e magni mortadella
                                                    e poi te n'esci co sta gran sorpresa?

                                                    Hai speso sordi in 'ste cineserie,
                                                    (non dico quanto!) e pe fa un ber trisse
                                                    de libri de cucina e de poesie
                                                    hai visto er portafoji impoverisse!

                                                    Che ce voi fa - je dico - er vizzio è vizzio,
                                                    librovoro so io, libridinoso:
                                                    che peso annuso e pure me ce sfizio
                                                    de 'n ber tomo... de carta fascinoso.

                                                    Si fosse pure pane starei apposto,
                                                    invece co la carta che s'ammucchia
                                                    solo li tarli ce se fanno l'arosto...

Speziatini

- Stai giù, che ti vede!
- Che c'è, chi o cosa non dovrei vedere?
- Ma niente, e chi mai?
- E allora perché tremi così? Hai le convulsioni?
- No, è che... Ih, ih... Fer... Niente, ma... Uh, uh... Bast... È che mi...
- Dunque, o ti fa male la clorofilla delle verdure, cosa molto probabile o ti stai finalmente scomponendo nel nulla. Oppure?
- Oppure... ecco!...


... Hai finito di farmi il solletico? Ecco, hai visto? Ci ha scoperti!
- Ecco cosa nascondevi tra le pieghe di gras... nel pelo!
- Si chiama Boris, è un mio amico.
- Prjego te no me ucide!
- Uccide? Chi, io?
- Guarda che lui non uccide nessuno. Guardalo bene.
- Grazie, eh? Sempre il solito... E come mai questa visita inaspettata? A cosa dovrei l'onore?
- Boris è stato liberato proprio oggi. Sai, lui è un ex-galeotto.
- Ah, e quale crimine avrebbe mai commesso? A guardarlo così, l'unica cosa grave sembrerebbe il rosicchiamento di una gamba d'un tavolino, a occhio e croce.
- No! nje tav'lino, ma di ljeto. Basi di ljeto, da.
- Leppagorre, ma come parla?
- È un criceto russo, dice lui. Che vuoi che ne sappia, io?
- Certo, non sai mai niente, te. Mi sa che lui è  russo come tu sei un gatto. E di quale letto si tratta?
- Ljeto casa padronemo.
- Ah, hai rosicchiato la base del letto del... tuo padrone? Che fatica Leppa, e aiutami!
- И что случилось потом?
- Потом кровать сломалась, и он упал на землю!
- Dice che poi il letto s'è rotto e il padrone è finito a terra.
- E quindi l'ha...
- Gabbja! Messo me gabbja!
- Chissà che mi credevo! E allora che vuol dire che se è un ex-galeotto, il padrone l'ha perdonato?
- Nje perdono, nje!
- No...
- Cioè?
- Ecco... il fatto è che non m'andava di vederlo in quelle condizioni e...
- Leppa, hai aiutato un criminale a uscire di galera? Sai che potresti essere accusato di favoreggiamento? Leggiti il Codice Penale, invece della Grande Enciclopedia della Cucina! E io sto qui a dare rifugio a un galeotto! Ma si può?
- Dài, è solo per stanotte!
- Da, da, suolo stanuotte!
- E poi?
- Poi domani lo porto dal mio amico Lino...
- Chi, l'ermellino?
- Sì, proprio lui. Speriamo che riesca a imboscarlo in un treno diretto a est.
- Ah, ecco... E nel frattempo vuole gradire un pezzo della libreria? O preferisce il tavolo della cucina?
- Ma io...
- Guarda che è accusato ingiustamente! Non ha mai rosicchiato niente, lui!
- E tu che ne sai?
- Me l'ha giurato lui.
- Ah, ecco. Stiamo a posto, allora. Dio li fa e poi li accoppia...
- Insomma, basta che gli dai una carota o una costa di sedano e fino a domattina lui se ne starà buono e caro. Vero, Boris?
- Puoco carota. E acqua, da.
- Certo, sta a vedere che lo faccio morire di sete. Useremo la ciotola di Babà, sperando che non s'offenda.
- L'ho già avvertito io, ha detto che è contento d'aiutarlo.
- Ah, mi ritrovo proprio in una bella combriccola di malandrini!
- No, i mandarini non ne abbiamo, mi pare.
- Leppa! Mi prendi anche per i fondelli?
- E chi ce la farebbe? Mica ho con me un argano!
- Oh, basta! Diamo da mangiare al mostro di Rostok e continuiamo a fare i nostri biscotti.
- Io nuo di Rostok! Io di Palekh!
- Eh? Ah, Palekh, certo, dove fabbricano quelle belle scatole di legno dipinte e laccate...

- Da, da!
- E magari vivi anche in una casina decorata di lacca, no?
- Io...
- E cosa c'è disegnato sopra Ivan e l'Uccello di fuoco o lo zar Saltan e la Principessa Cigno?
- Nje, nje! Gatti!
- Gatti?...
- Da, gatti!
 - Leppaaa!

Speziatini
Questa ricetta è diversa da quella di qualche tempo fa. 
È quella dei biscotti speziati con cui si fanno gli omini di zenzero e le stelline per le feste natalizie, o semplicemente dei biscottini croccantini e sfiziosi.

350 g   farina
100 g   burro
175 g   zucchero
1         uovo
1 cucchiaino di bicarbonato
4 cucchiai abbondanti di miele
un pizzico di sale
spezie: 1/2 cucchiaino di cannella, 1/2 cucchiaino di zenzero in polvere, una punta di noce moscata, tre chiodi di garofano e una decina di bacche di cardamono.
Aprire le bacche di cardamono, estarre i semini e pestarli finemente assieme ai chiodi di garofano.
In una ciotola mescolare gli elementi secchi, quindi unire l'uovo e il miele riscaldato un poco per farlo fluidificare.
Se il composto dovesse risultare troppo "polveroso" aggiungere un cucchiaio o due d'acqua per renderlo lavorabile.
Stendere l'impasto sulla spianatoia infarinata, a un'altezza pari a tre-quattro millimetri, non di più.
Con delle formine ricavare  i biscotti e disporli sulla placca (imburrata e infarinata oppure ricoperta di carta forno) distanziati tra loro di un paio di centimetri, e infornare a 180° per una decina di minuti circa.
Inizialmente si gonfiano un po', poi iniziano a colorirsi. A quel punto contare un paio di minuti e sfornarli.
Farli raffreddare quache istante sulla placca, poi trasferirli su una gratella o in un cestino di vimini.
Non usare piani di plastica ceramica o metallo: i biscottini si rovinerebbero con l'umidità durante il raffreddamento.
Appena tolti dal forno sembrano mollicci e delicatissimi ma poi, una volta freddi, acquistano la giusta consistenza, diventando belli croccantini. E la casa s'impregnerà d'un profumo indescrivibile.
Con questa dose si ottengono tre-quattro teglie di biscotti.


- Ehm, due teglie di biscotti. Anzi... una sola e unica teglia di biscotti! Leppagorreee!
- Che c'è? Che è successo?
- Chiudi quest'ingordo in una gabbia! Questo ce se magna pure a noi!

Detto romano del giorno
A l'ucello ingordo je crepa er gozzo.

Oggi ascoltiamo
Gianna Nannini - Aria

https://www.youtube.com/watch?v=Ld3ZKU0wUSw

domenica 23 marzo 2014

Arán sóide na hÉireann - Irish soda bread

Un pane semplice, da fare al volo e che si mantiene a lungo.
Che sa adattarsi bene ad ogni companatico, sia dolce che salato, senza mai risultare pesante.
Che accompagna serenamente ogni tipo carne, soprattutto se grondante sugosi intingoli, oppure verdure al forno o trifolate, stufati di patate e mille altre cose ancora.
Un pane che si presenta bene anche a colazione o a merenda, vestito con un semplice strato di burro (magari salato) e uno di marmellata.
La presenza del bicarbonato di sodio lo farà crescere sempre e comunque, senza il patema del tempo, delle correnti d'aria e della temperatura dell'acqua.
Sarà perché non usa il canonico lievito da panificazione e quindi è, a tutti gli effetti, più una torta salata che un vero e proprio pane. È infatti un ciambellone "panoso", dalla friabile consistenza d'un buon cake e la crosta croccantina e appetitosa d'un pane casereccio.
Pare che già durante i primi anni della colonizzazione europea delle Americhe, i coloni e alcuni gruppi di popolazioni indigene utilizzassero pearl ash, o potassa, ovvero il carbonato di potassio ricavato dalla cenere del legno di frassino come agente lievitante.
Negli Stati Uniti il pane di soda è stato pubblicizzato come un metodo veloce ed economico di panificazione da Amelia Simmons nel suo libro "American Cookery", pubblicato nel 1796, mentre nel 1824, in "The Virginia Housewife" di Mary Randolph compare una ricetta per una Soda Cake.
Ma l'uso del bicarbonato di sodio, appunto detto baking soda, risale solo alla metà dell'Ottocento, quando il metodo Solvay ne rese possibile la produzione industriale.
Non è quindi un pane che risalga ai tempi del buon Cú Chulainn, né era il tipico pane dei Tuatha Dé Danann, eppure è stato prontamente adottato dalla popolazione irlandese come simbolo identitario nazionale.
E quando ci si deve costruire un'identità, si sa, tutto fa bread... cioè, tutto fa brodo,
Comunque in Irlanda si usa ancora molto fare questo tipo di pane in casa, vista la sua praticità d'esecuzione.
Il 17 marzo, giorno di San Patrizio, il santo patrono che tra le tante buone cose scacciò le serpi dall'Irlanda, è uso non farselo mai mancare in tavola.
Tra parentesi pare che fosse il pane preferito da Virginia Woolf.
Come non darle torto?


Arán sóide na hÉireann - Irish soda bread
700 g farina integrale
          oppure: 450 g farina integrale e 250 g farina 0
450 g yogurt *
1 cucchiaino di zucchero
1 cucchiaino di sale
1 cucchiaio di bicarbonato di sodio.
La ricetta originale prevede il buttermilk, ossia il latticello, non facilmente reperibile qui da noi ma che si può preparare con buona approssimatizione mescolando in parti uguali latte e yogurt e lasciando il tutto  una ventina di minuti a temperatura ambiente. D'accordo, non sarà mai la stessa cosa, ma meglio di niente.
È proprio la reazione tra l'acido del latticello e la basicità del bicarbonato a scatenare quel baillamme molecolare che permette alla farina di lievitare sempre e comunque.
Quella di grano tenero, poi, prevista dalla ricetta originale, che è la sola varietà concessa dal capriccioso clima irlandese.
Mescolare in una ciotola tutti gli ingredienti quanto basta per ottenere un impasto omogeneo.
Formare una pagnotta rotonda, e più bassa che alta sarebbe meglio, su cui praticare un taglio a croce profondo un paio di centimetri che, in cottura, farà assumere al pane la forma di un quadrifoglio, simbolo dell'Irlanda.
Sì, d'accordo, è il trifoglio ad essere simbolo dell'Isola di Smeraldo, ma non vogliamo metterci neppure un pizzico di scaramanzia?
Se poi si vuol proprio fare i bastian contrari si può anche utilizzare uno stampo da plum-cake, senza colpo ferire.
Nell'impasto possono essere messi anche altri ingredienti come noci, uvette e altro bendiddio, ma non ditelo agli irlandesi, che sono già permalosi di loro, e che al riguardo sono tassativi: "The basic soda bread is made with flour, baking soda, salt, and soured milk (or buttermilk).  That's it!"
Ma a noi che l'integralismo dà l'orticaria, anche solo per tigna possiamo permetterci il lusso di cospargerne la superficie con semi si sesamo o di girasole.
Cuocere a 200° per una decina di minuti, quindi portare a 180° per una mezz'ora circa.

Detto irlandese del giorno
Coimhéad fearg fhear na foighde.

Attenti alla rabbia dell'uomo paziente.


Oggi ascoltiamo
Kate Bush - Mná na hÉireann
http://www.youtube.com/watch?v=VpMGWOAAKs4
Che non è irlandese ma britannica da non poterne più, ma che meriterebbe un disco di platino solo per aver avuto il coraggio di cimentarsi in un brano cantato in gaelico.

mercoledì 19 marzo 2014

"Carbonara" fave e pecorino

- Che fai, non vieni con me a far la spesa?
- No, ho da fare.
- E cosa mai avrai da fare, dimmi tu.
- Sono solo a pagina 234 del primo volume...
- Eh?...

... Ma se fino all'altro giorno sillabavi le parole. Mi prendi in giro?
- Non oserei mai...
- Sì, pare vero!
- Il fatto è che la curiosità era così grande che ho imparato subito! Ti giuro su tutto quel hai di più caro.
- Se, lallero! Giura su tua zia Bastet, piuttosto!
- E pure sulla testa degli Aristogatti!
- Povera Duchessa... Va bene che demone vuol dire "genio sovrumano" ma pensavo che "sovrumano" si riferisse alla tua fame, non alle tue capacità!
- E invece, hai visto? Guarda qui: "Aringhe alla mugnaia". Guardale, che carine che sono! Le facciamo? E queste "Anguille in fricassea", eh? le facciamo?
- Mannaggia a me e a quando m'è venuto in mente di insegnarti a leggere!
- E le "Albicocche alla Bourdaloue"?
- Crepa!

Torno con una magra sporta, viste le provviste quasi semestrali che giacciono ibernate in freezer.
Compro, partiziono e ficco dentro.
Temo la carestia da imminente glaciazione, a dispetto della fola del surriscaldamento globale, o qualche guerra mondiale che, a parte i debiti, unisca finalmente l'Europa?
Comunque non mi posso allargare.
In tutti i sensi: oltre vi sono solo le bretelle, "i straccali" come diciamo qui, e non mi pare il caso.
Bisogna smaltire un po' di cose infilate là dentro chissà quando.
Dunque, vediamo un po': 
Cicadee del Cenozoico... No, sempre 'ste cavolo di verdure tra i piedi, uffa...
Costine di Coritosauro... No, sa troppo di pollo, e dopo un po' stufa...
Questa è recente: controfiletto di mammuth siberiano. Una rara squisitezza... Ma sempre carne no. Anche no.
- Leppa! Che si mangia oggi?
- Fammi vedere un po'... Carbonara! Si può? Abbiamo le uova?
- Casomai potrei farle io al volo! Ma certo che ne abbiamo, cretino!
- Allora vada per la Carbonara... Mhhh, chissà quante cose buone avrò letto quando sarò arrivato alla "v"!
- Il problema è che oltre ad essertele lette te le sarai anche magnate, già lo so.
- Malfidato, proprio adesso che il sacro fuoco della Cultura riscalda il mio esangue encefalo affamato di parole e di nozioni...
- Sì, e di rigatoni, anche.
- Meglio penne, grazie. 

Questa è una ricetta sorella di quella in cui però le fave restavano sgranate e ripassate con la pancetta e la pasta.
Qui invece si fa una crema di fave che avvolgerà la pasta a mo' di carbonara.
Non vegetariana, però, perché il guanciale (o la pancetta) non può mancare.



Le fave (una decina a persona, pressappoco) si sgranano e vengono cotte in acqua bollente per una decina di minuti, quindi passate al setaccio.
Se proprio vogliamo fare i fighi si prenderanno un paio di chili di fave quand'è stagione, e se ne preparerà una bella scorta di purea da tirar fuori all'evenienza, magari già ripartita in comode porzioncine.
Senza troppa fatica: bastano dei semplici bicchieri di carta e della pellicola o dell'alluminio come chiusura.
Le verdure, non contenendo elementi grassi che possano irrancidire, possono durare in freezer anche un anno intero.

"Carbonara" fave e pecorino
per due persone di medio appetito...
200 g pasta (per meno nemmeno ci accendo il fornello, direbbe Leppagorre)
una ventina di fave (o 150 g ca. di purea di fave già preparata in precedenza)
50 g guanciale (o anche pancetta, potrebbe andar bene, ma proprio in extremis...)
pepe, olio evo e pecorino grattugiato a volontà.
Lessare la pasta in abbondante acqua salata.
Nel frattempo in una padella capiente far soffriggere in poco olio il guanciale a striscioline.
Se si va di fretta si può ripiegare anche per della pancetta a dadini, ma sappiamo bene tutti che non è la stessa cosa, vero?
Appena cotta, la pasta si scola e si versa in padella, dove verrà aggiunta la purea di fave e una manciatina di pecorino.
Mescolare bene a fuoco bassissimo aggiungendo, se serve (e servirà!) un paio di cucchiai dell'acqua di cottura della pasta.
La purea di fave formerà una salsa che avvolgerà la pasta mantecandola col formaggio.
Servire con pecorino grattugiato.
Una delizia vera...

Detto romano del giorno
Sempre bbene nun pò annà, ssempre male nemmeno.


Oggi ascoltiamo
Bill Withers - Ain't No Sunshine

http://www.youtube.com/watch?v=tIdIqbv7SPo

domenica 16 marzo 2014

Ravioli pere e gorgonzola... e tre personaggi a pranzo.

- Mi scusi signore se ho l’ardire di importunarla mentre pare così perso nella malinconia di quel suo scrittojo, e altresì affaccendato nelle sue incombenze quotidiane.
- Io... si figuri. Ma lei, anzi voi, chi siete? Non v’ho sentito entrare. Siete amici di Leppagorre, forse?
- Noi, signore, siamo solo qui di passaggio, ma non vorremmo disturbarla...
- La prego, non stia costì all’impiedi, si segga. Ecco, una seggiola.
- La ringrazio... Ahhh! Mi sembra d’aver camminato mille e mille anni. Se avessi delle ossa mi dolerebbero!
- Ah, ne è sprovvisto? Prego, signora, anche lei, s’accomodi. E la ragazza, anche...
- No, grazie. Preferisco star qui, presso la finestra. A guardare fuori. - Guarda ostentatamente fuori come se ci fosse qualcosa che l’attragga. - Ci sono le luci delle case, c’è la vita, là fuori. Ma sono così lontane...
- Come preferisce. E ditemi, signori, a cosa devo l’onore?
- Oh, guardi, fossi per me non saremmo mai venuti nel suo quartierino a darle noia ma è che...
- Per favore, su. Lascia dire a me, come d’accordo!
- Ma una volta che parlo io, dico. Una, eh? Ma su, su, parla, ora che siamo qui. Cos’altro vuoi attendere?
- Ecco, signore, noi s’è venuti da lei per una questione delicata e della massima importanza.
- Vi prego, ditemi.
- Noi, ecco, ci siamo persi. No, anzi, non ci siamo mai trovati. Ché per perdersi bisognerebbe primariamente trovarsi, non crede? Ecco, noi… Cos’è, la sto confondendo?
- Oh, ma non lo vedi? Non capisce, non capisce! E dovremo tornarcene nel limbo, in quello straziante bugigattolo dove veniamo riposti quando non serviamo più? Questo siamo, attrezzi o scope, ecco. Sì, scope, con cui ramazzar la stanza, e nient’altro. Ma se potessimo andarcene... Se solo potessimo!...
- Zitta, sta’ zitta! Adesso siamo arrivati e già vuoi farti riconoscere?
- Ah, ma lo vedrà ben presto cosa siamo. Su, non farlo restare in codesto orgasmo e diglielo, digli di noi!
- La scusi, signore, come vede mia figlia...
- Non sono tua figlia!
- Tina, dicevo... stavo soltanto cercando di fargli capire che... Oh, ma perché è così difficile, perché? - Si tiene la testa tra le mani e rimane in silenzio.
- Non si strugga, ho capito. Capisco benissimo...
- Ah, lo vede, signore? Si dissuga, si dissuga tutto! Come s’avesse compiuto chissà quale impresa! - Torcendosi nervosamente le mani e distogliendo lo sguardo - Ma in che mani siamo, dico...
- Lo vedo, lo vedo che si... “dissuga”, dice?
- Sì, sì, lo vede? Lui sa già come andrà questo nostro colloquio, sa già tutto lui, e quel suo prevedere lo consuma, lo...
- ... lo dissuga. Capisco.
- Ecco, sì, lei di certo capisce il perché della nostra presenza qui...
- Veramente non ho ancora ben capito cosa posso...
- Ma guarda, guarda là, non è un caso. Su quella cartella cilestrina c’è scritto “Personaggi”, e sull’altra, codesta che le sta vicino, c’è scritto, mi pare, “Ricette di Cucina”.
- Sì, certo, ma non so come la cosa...
- Vedi? - Fa all’uomo - Lo vedi? Non capisce, non capisce!
- Fatemi capire, allora. Voialtri siete...
- Personaggi, signore, personaggi. Questa è Etta, mia moglie.
- Lietissimo.
- Il piacere è mio, signore. E tu avresti dovuto dire: “La mia serva”, forse. Sarebbe stato più onesto. Con me almeno.
- Oh non ti ci mettere anche tu, che già con lei, lei, ho il mio bel daffare!
- Certo, il grande ristoratore, lui! L’uomo dai mille impegni e dai mille pensieri! Ah, ah, ah, ma lo guardi. Lo guardi. È un solo un miserevole parvenu che...
- Basta, Tina! Ma come osi tu, che...
- Vuoi picchiarmi? Dài, fallo. Non sarebbe la prima volta. Ah , ma io non sono mica come lei, eh? Non sto punto ferma a subire le tue angherie e i tuoi attacchi da megalomane! Che c’è, hai cangiato idea?
- Vai! Vai, allora, su, vattene! Se non volevi venire già dapprima! Va’!
- No, no! Senza lei no! Senza di lei nemmeno noi potremmo... Perché vede, noi stiamo insieme, signore. Siamo... nati insieme, e lui dice cose di cui non si rende ben conto.
- Lo sa, invece, lo sa benissimo. E tu che stai lì sempre a giustificarlo e dargli infine ragione. Oh, ma che schifo, che schifo tutto questo! Star qui e non poter andare. Star qui a guardare le luci nelle case degli altri come farfalle prigioniere d’un vetro senza poter dire o fare altro. Siamo degli uccelli prigionieri in gabbia, signore, costretti a ripetere in eterno i nostri versi. Ah... - Si siede con una smorfia di tormento sul viso.
- Vi prego, però così mi disorientate. Siate chiari: cosa cercate da me?
- Vita! Cerchiamo vita. E lei, solo lei, può darcela, quella vita che c’è stata negata ogni volta e per la quale siamo stati creati.
- Ma come... di quale vita state...
- Lo vedi? L’hai confuso. Ma di quale vita, quale, potremmo mai godere, se restassimo prigionieri della sua mente? Quand’egli morirà si porterà dietro tutti noi, tutti interi nel buio. Il buio...
- Smettila!
- Tina... vero? Ecco, fai parlare tuo padre.
- Non è mio padre! Insomma! Anche in questo devon’esserci fraintendimenti? Lui, signore, lui, è suo marito, sì, ma non è mio padre!
- E va bene, ma...
- E lo sa qual è il mio nome per intiero? Galantina! Ma si può, dico io? Si può? Con quale fantasia perversa?
- Quindi Etta non sta per Elisabetta, immagino.
- Macché, macché! Sa come ci chiamó quel folle scatenato? Lei Cianfotta... E lui, lui... Turnedó! Ma si può, dico io?
- Su, Tina, i nomi sono solo etichette, non stia ad angustiarsi, Quel che mi sfugge è cosa posso fare io per voi.
- Farci vivere! Per questo siamo nati, per vivere!
- Ma come posso farvi vivere, io, scusi!
- Sì, e vivere cosa, poi? Quel meccanismo che è parvenza e maschera della vita vera? La vita dietro quello schermo? È vita quella, o non piuttosto la stessa giostra sempre, sempre?
- Tina, per favore. Per favore. Il signore qui non manterrà vivo il suo interesse, e la sua pazienza, se gli si confonderanno così le idee.
- In effetti...
- Vedi? Non si faccia meraviglia di noi, signore. Noi siamo vivi, nati dalla fantasia d’un autore che ci ha poi lasciati in disparte negandoci la vita. Mi dica se questi personaggi lasciati così, vivi e senza vita, non abbiano ragione di mettersi a fare quel che stiamo facendo noi, ora, qua davanti a lei, dopo averlo fatto a lungo, a lungo creda, davanti ad altri per persuaderli, per spingerli, comparendogli innanzi.
- Ma… Mi scusi un istante solo, eh?... Leppagorre! Sono tuoi amici questi?
- Amici, poi... conoscenti, semmai. Pensavo ti potesse far piacere conoscere qualche persona nuova...
- Persona? Quale persona? Io qui vedo soltanto dei personaggi, e invero assai inquietanti. Guardali: stanno qui, vestiti della loro presenza timida e di un'insistenza caparbia, solo per cercare la vita. E qui, poi. Dunque voialtri volete vivere?
- Più d’ogni altra cosa, signore.
- Per questo siamo qui, che crede?
- Confidiamo nel suo interessamento.
- Sì ma qui non v’è alcuna opera di fantasia, non v’è teatro, ma solo ricette. Ricette di cucina.
- Mi scusi, sa, ma come fa a dire che qui non c’è vita? Guardi, si guardi attorno, nei suoi libri c’è vita eccome, e più d’una!
- Migliaia e migliaia di vite diverse, sì! Ah, ah, ah, le sente? Quello è Raskolnikov che se vaga per San Pietroburgo. Ha appena ammazzato la vecchia e odiosa usuraia e pensa ancora di poter cambiare il mondo!
- Guardi, guardi... Qui c’è Sheherazade alla presa con l’ennesima novella che le darà un’altra notte di vita!
- E qui, qui, guardi... Vitangelo Moscarda scopre di non essere come s'era sempre creduto finora, uno, ma d'essere invece mille, anzi centomila e, in definitiva, nessuno!
- Ma io non sto scrivendo romanzi, e non m’occorrono di questi personaggi.
- Lo vedi? Te lo dicevo! Tu no, tu insistevi col dargli retta, a questo omuncolo con le manie di grandezza!
- Tina, ti prego, non accanirti così con...
- Si, mi chiamo Turnedó. Sembra una beffa ma è così. Lei, ma già la conosce, è la mia moglie, Etta.
-  Piacere, piacere ma, vi ripeto, forse Leppagorre vi ha messo in capo strane ubbie con questa storia dei “Personaggi”. Io, vedete non sto scrivendo alcun romanzo e...
- Ma la prego ci tenga con lei, anche solo il tempo di una ricetta di cucina, signore! Vaghiamo da così tanto tempo....
- Sì, bravo, stai anche a prostrarti e pregare! Ah, ah, ah, ma cosa ce ne verrà dall’essere qui, senz’arte e né parte, prigionieri di noi stessi! Ah, s’io potessi fuggirmene via, lontano. Me ne andrei, se potessi!
- Non agitarti Tina, e smettila di spiegazzare la tenda del signore, che già vedo abbastanza alterato di per sé senza che dobbiamo aggiungervi ulteriori perturbative di sorta.
- Mi scusi, sa, ma questa storia della vita e non vita... Sono decenni che vaghiamo come ombre, senza venirne a capo. Siamo stanchi, tanto stanchi - Si siede sul divano coprendosi il viso con le mani, respirando forte. - Se lei sapesse, se solo immaginasse che cosa vuol dire essere persi, senza un posto in cui potersi sentir vivi, mai a casa propria. Lei è una persona, e queste cose non le può nemmeno immaginare.
- Invece lo so, Tina, lo so benissimo come ci si sente fuori dal mondo. So bene cosa vuol dire avere solo l’apparenza del vivere, recitarne gli strati più superficiali, e so bene il tormento del non sentirsi mai a proprio posto. Così, io... be’, se volete...
- Possiamo restare con lei?
- Falli restare, su, che ti costa.
- Leppagorre, ti nebulizzo l’anice se aggiungi solo un’altra singola sillaba. Taci, almeno per un minuto, se ne sei capace. Ecco, il fatto è che non so cosa farvi fare. Qui si parla di cucina, di dolci, di pane, di cose che poco hanno a che vedere col vostro mondo.
- Ma io sono stato un ristoratore!
- Eccolo, di nuovo! Il grand'uomo!
- Tina!
- Un ristoratore? Davvero? E dove, se posso?
- Oh, be’... nella fantasia del nostro creatore. Vede, io sarei dovuto essere un ristoratore, la mia signora la mia cuoca...
- E la tua schiava, sì, dillo!
- Tina! Non l’ascolti, la prego, lei è così, nasce da ribelle, sempre controcorrente, sempre di traverso. Vero? È sua cura il servizio ai tavoli, ma come può immaginare non ne è di molto soddisfatta.
- E lo credo! Finire anch’io a far la serva di questo... questo... Oh, meglio tacere!
- Vi prego, signori, calma! E tu, Tina, di che ti preoccupi? Qui non ci sono tavoli. A malapena ho una scrivania dove leggo, scrivo, studio e mangio. Altro non c’è con cui farti sentire schiava di chissà cosa e di chissà chi.
- Lei è molto gentile, e non so se mai potremmo esserle utili, in qualche modo, anche solo per sdebitarci della sua squisita gentilezza.
- Sì, e della sua pazienza, anche.
- Per favore, abbiamo già detto troppo, secondo me. Volete accompagnarmi in una ricetta? Una qualsiasi va bene o avete delle preferenze?
- "Cappone arrosto", magari. Non le viene in mente, guardandolo? Ah, ah, ah!
- Tina, basta!

Allora, è domenica, e anche se non ci sono ospiti ci sono tre persone, anzi tre personaggi che, sì, si sono autoinvitati.
Potevo forse mandarle via? E come si cacciano i personaggi?
Basta fare come si fa con le persone, non credendo più in loro e non curandosene?
Non ne sono certo, e poi non ho cuore.
Qui ci vuole qualcosa di diverso per tenerli occupati.
Vediamo…

Ravioli pere e gorgonzola
(per 25-30 ravioli ca.)
300 g   pasta fresca, quindi:
           200 g   semola di grano duro
           100 g   acqua ca.
           Un cucchiaino d'olio, un pizzico di sale.
Impastare tutti gli ingredienti e lavorare fino ad ottenere un impasto liscio e omogeneo.
- Brava signora Etta, ha una mano da professionista!
- Oh... non mi faccia arrossire! Impasto da che avevo otto anni, si figuri!
- Sapessi io impastare come fa lei, altroché!
- Troppo... buono... ma, uff... che fatica!
- Dia a me, l'aiuto un po' io... Ecco qua, sembra che possa andare.
Facciamo riposare la pasta almeno mezz'ora, coperta da un piatto o avvolta in pellicola per alimenti.
- La pellicola?...
- Ehm, un canovaccio inumidito, sora Etta. Mi sono sbagliato...

Per il condimento:
3         pere piccole (300 g ca)
150 g   gorgonzola piccante
30 g     noci
sale, pepe, coriandolo in polvere (facoltativo) q.b.
Sbucciare le pere e tagliarle a dadini.
- Io, io, faccio io!
- Tina, che c'è, sembravi così polemica e ora...
- O mi faccia muover le mani, che mi divago un poco anch'io. Fosse per lui dovrei star lì col sorriso stampato sul viso a far "buongiorno!", "buonasera!" vestita poi come una povera pazza!
- Dài, è un lavoro dignitoso comunque, no?
- L'attrice. Lei, voleva fare l'attrice! Ah, ah, ah!
- Faccio a dadini anche te, se continui a provocarmi!
- La prego, Turnedó, non ci metta anche del suo... Bene, adesso che le hai tagliate come si deve le faremo cuocere in un tegame con mezzo bicchiere d'acqua, una grattatina di pepe e, se lo si gradisce, un pizzico di coriandolo in polvere. Il suo profumo agrumato secondo me sta molto bene con la pera.
- Non so cosa sia codesto... "coriandolo"!
- Lo immaginavo... Allora proviamolo, magari vi piace. 
Quando la pera sarà di consistenza cedevole, ma senza arrivare a spapparsi, aggiungere 130 g di gorgonzola tagliato a pezzetti e farlo sciogliere a calore basso.
- Ho intanto tritato le noci, vanno bene così?
- Ottimo. Aggiungiamone metà nel condimento. Se occorre salare, ma col gorgonzola bisogna andarci cauti, molto cauti.
- È traditore, anche lui?
- Tina, per favore, che già è difficile combattere con se stessi, se ci si mettono pure tre personaggi bizzosi qui non ne usciamo vivi. E visto che vivere è quel che c'interessa...
- Sto zitta e muta, basta! 
Facciamo freddare la farcia e intanto stenderiamo la pasta.
- Avete un matterello, qui?
- Sì, Etta, ma facciamo così: usiamo la nostra fida Imperia.
- È sicuro? Non è che mi fidi molto di questi attrezzi, io!
- Le faccio vedere, venga. Fissiamo il morsetto al tavolo... mettiamo la manovella nella feritoia... Ecco, ora stendiamo la pasta. Non troppo sottile. La mia esperiemnza dice che lo spessore 4 va bene, oltre rischierebbe di rompersi.
- Malfidato, io gliela farei così sottile e forte come un telo di lino!
- Non lo dubito ma sa, non vorrei abusare.
- E adesso?
Con un coppapasta, o un bicchiere ne ricaviamo dei cerchi del diametro di circa 7 cm.
Versiamo un cucchiaino scarso di ripieno su un disco, copriamo con un altro disco e premiamo intorno all'impasto in modo da far uscire l'aria. Quindi schiacciamo bene i bordi per sigillare, premendo sul bordo con i rebbi d'una forchetta.
- E di questo intingolo delizioso che ne facciamo?
- Teniamolo da parte. È troppo liquido per farne della farcia: la useremo per la salsa di condimento.
- Mhhh... che buona!
- Tina, sarai anche un personaggio, ma assaggi tutto, eh?
- Il nostro scrittore mi fece ghiotta, sa.


L'acqua salata nel frattempo starà bollendo.
Cuociamo i ravioli il tempo di vederli risalire dal fondo in cui erano piombati, poverini.
- Bisogna toccare il fondo per poi risalire, no?
- Eccolo, è arrivato il sapientone!
- Tina, senti a mammà, vai a mettere una tovaglia su quella specie di tavolo che sta di là. Oh, mi scusi!... Ma sa, è la forza dell'abitudine...
- E di che, signora Etta? È proprio così. E comunque sì, signor Turnedó, proprio così: vale per i ravioli e per gli esseri umani. Ma, mi chiedo: e per i personaggi?
- No, noi siamo già scritti e incisi nel piombo. Non ci si può cambiare.
- Lei dice?...
Accogliamo al varco i ravioli scolandoli con attenzione, e disponiamoli su un piatto dove daremo loro il conforto di un intingolo di pere e formaggio al quale aggiungeremo il gorgonzola restante fatto fondere a fiamma bassa.
Cospargiamo i ravioli con il condimento, spolveriamo con poco pepe e il resto delle noci tritate.


- Posso aprire del vino? Lo gradite?
- A suo piacimento, guardi. Noi non beviamo, di solito, ma oggi faremo un'eccezione.
- Bene. Venga qui, sora Etta, accanto a me. Lei qui, e tu Tina qui.
- Ce l'ho sempre di fronte, questo ceffo?
- Dài, non pensarci. E mangiamo, che si freddano. Anzi, si dissugano! (1)
- Una tavola dove si ride è una benedizione, non crede?
- Altroché sora Etta! Venga qui prenda del vino.
- Sai, Tina? Mi dispiace... Non vorrei trattarti come una ragazzina. So bene che sei una donna, ormai, ma è come se non me ne fossi abituato ancora.
- Sono io che faccio la stizzosa, Turnedó, e m'accorgo che lo faccio per partito preso.... Capisco che vuoi solo il meglio per tutti noi. Anche se sei un cialtrone... Ah, ah, ah!
- Ma guarda 'sta lingua di vipera! Eh, eh... chi mai t'ha insegnato quest'insolenza?
- Dillo a quello scrittore fedifrago!
- Mannaggia a lui! Hai già finito, tu?
- Ancora del vino?
E se alla fine, anche i personaggi fossero come noialtre persone?
E se bastasse un po' di tempo, di disponibilità e d'accoglienza per farli uscire da quel binario nero d'inchiostro in cui sembrano esser stati prigionieri finora?
Una cosa sola è certa: il vino aiuta.
Eccome.

Aforisma pirandelliano del giorno
È molto più facile essere un eroe che un galantuomo.
Eroi si può essere ogni tanto, galantuomini sempre.

Oggi ascoltiamo
Ennio Morricone - Solitudine

http://www.youtube.com/watch?v=NQ3xO7GvflA

NOTE
1)  Dal "Dizionario della Lingua Italiana" di Niccolò Tommaseo:

giovedì 13 marzo 2014

Torta limone e mele

Sfogliare le riviste di cucina con Leppagorre è come entrare in un grande magazzino di giocattoli con un bambino uscito un'ora prima da un orfanotrofio di qualche paese “in via di sviluppo” (1); oppure è come sfogliare una rivista di moda con una tredicenne in cerca di un qualsiasi, e comunque lontano, centro di gravità permanente.
- Uh, guarda! Guarda questo, che bello! Una coroncina di fragole! E tutta quella crema, poi!
Quando è preso dalla frenesia alimentare - cioè sempre - sembra pronunciare separatamente con enfasi ogni singolo fonema della parola di cui vuole sottolineare la magnificenza:
- Quanta c-r-e-m-a!
Non è che sia un gran divertimento vivere con un gattodemone nella panza che scalpita ogni volta che sente l’odore del banco formaggi e che, come un monomaniaco, vive immerso in un sistema solare dove i pianeti sono le portate d’un pranzo luculliano e il sole le sue fauci fameliche.
- Ma hai visto qui? Una glassa lucida lucida lucida di cioccolato! Secondo me non è solo cioccolato e basta… Leggi un po’!
Per questo, e anche per dare un senso a questa forzata convivenza, sto cercando di fargli assimilare le basi della lettura.
Hai visto mai che si distragga leggendole, le ricette, invece di spingere me a eseguirle, e quindi a spazzolarmele?
Ma, ragazzi… Quant’è difficile!
- Questa è?…
- Ehm… la “ci” di cioccolato!
- Bravo! E questa?
- Mh… La “effe” di fragola!
- Oh, andiamo alla grande. Tra nemmeno tre mesi sarai tu a leggermi le ricette!
- Spiritoso… Non mi pare d’essere un caso disperato!
- Oh sì, caro, per certi versi lo sei eccome! Qui però, stranamente, vai forte, e mica scherzo.
- E allora mettimi alla prova, dài! Prendi un libro e fammi leggere!
- Leppa, piano!… Devi imparare ancora molte, molte cose.
- Ma io voglio capire subito che c’è scritto qui dentro! - E indica un testo che lui ritiene fondamentale e imprescindibile, dal titolo eloquente: “Chocolate Galore”.
- Leppa, piano piano ci riuscirai. Solo devi darti tempo. Mica puoi…
- Allora la prossima volta che cucinerai qualcosa o che leggerai una ricetta me la ripeterai ad alta voce, così potrò imparare prima! - E gli occhi verdi hanno guizzi di sadico divertimento.
Era meglio lasciarlo nella beata ignoranza e continuare ad averlo aggrappato alle pudenda o infognarmi in un’impresa senz’alcun esito positivo visibile, almeno per me?
Nel dubbio riprendo una vecchia ricetta e gliela leggo.

Torta limone e mele
250 g farina
200 g zucchero
100 g burro
3        uova
3        mele di media grandezza.
Succo di tre limoni grandi, o di quattro piccoli, con scorza grattugiata di un paio di essi.
Una bustina di lievito, una di vaniglina e un pizzico di sale.
A piacere anche un pizzico di cannella, che con le mele ci sta - Leppagorre, in coro! - un amooore!
Sbucciare le mele e dividere ognuna in sei spicchi, o almeno in sei parti non troppo spesse.
Immergere gli spicchi nel succo dei limoni per non farli annerire nel frattempo.
Lavorare le uova con lo zucchero, aggiungere il burro fuso, la scorza grattugiata e il succo dei limoni e la farina.
Se l'impasto dovesse risultare troppo liquido questa si può portare a 300 g.
La consistenza dev'essere quella della pasta per il ciambellone o d'una come una crema pasticcera: né troppo liquida né troppo sostenuta: fatto cadere da un cucchiaio, dovrà scendere a pezzi semifluidi, tanto per capirci.

- Ultimo venne il lievito.
- E chiuse la porta?
- No, la lasciò aperta, e la corrente d'aria che si creò con la finestra della cucina fece volare via il foglio con la ricetta, e il povero aspirante cuoco dovette riscriverla un po' a memoria e un po' reinventandosela.
- Poverino...
- Un corno! Era uno sciattone!
- Un che?...
- Un pecione, caro.
- Ah, ecco...

Nella tortiera imburrata e infarinata versare l'impasto e affondarvi dentro a raggiera gli spicchi di mela.
Cuocere una mezz'ora almeno a 180°, con annessa prova stecchino e relativo slalom tra le mele per scoprire se è cotta o meno.
Divertente vero?


- E qui, cosa c’è scritto?
- B-a-v-a-r-e-s-e.
- Bravo. E qui?
- S-e-m-i-f-r-e-d-o
- Leggi meglio, è poco “dolce”…
- Ah, sì, s-e-m-i-f-r-e-d-d-d-o!
- Ecco, adesso è un po’ troppo “dolce”.
- Uffa…

Detto romano del giorno
Gallina che nun becca (è segno che) ha già bbeccato.

Dicesi di Leppagorre quando sostiene di non avere fame.

Oggi ascoltiamo
Scott Joplin - Solace

https://www.youtube.com/watch?v=f2NQYxpM-b4

NOTE
1) Come diciamo oggi, in tempi di pruderie linguistica, per non dire "arretrato", dandogli anche il beneficio della fiducia di poter raggiungere il nostro tanto auspicabile livello economico. Poveri loro...

martedì 11 marzo 2014

Pan'aglia

Farlo tutti i giorni magari no.
Troppo impegno, e metti che poi da piacere dovesse diventare un dovere?
Quasi come timbrare un cartellino...
No, no, non sia mai!
Però c'è di buono che se così come siamo abituati dovesse venire a noia, c'è sempre il modo per ravvivarne il sapore e provare qualcosa di diverso, di stuzzicante. Magari anche di audace...
Parlo del pane... non s'era capito?
Il pane di tutti i giorni ci vuol davvero poco a farlo, e spesso ci si adagia nella solita ricetta, quella iper-collaudata che non lascia spazio agli imprevisti o a spiacevoli sorprese.
Però qualche volta ci vuole qualche piccolo, piccolissimo cambiamento, che dia l'impressione di fare qualcosa di diverso.
Se dicono che fa bene alla mente anche solo cambiare di poco il solito tragitto giornaliero, figuriamoci quanto possa far bene cambiare i sapori.
Mica dico di stravolgerla, la vita, no, ma di modificarla quel poco che serve per sentirla sempre "al tatto".
Per non abituarsi mai.
Dovessimo imbarbarirci (e imbarbonirci) finendo i nostri giorni a mangiare tonno sott'olio direttamente dalla scatola... e senza nemmeno la forchetta, poi.
No, no, non sia mai!
Serve il pane? Bene, quale si fa?
Pane in cassetta, tipo questo alle erbe, per esempio.
Ma non abbiamo tutte le erbe, il balcone sembra essere stato vittima di una bomba ai neutroni.
Unico segno di vita è dato da qualche cespuglio secco trascinato dal vento.
Nel carrellino delle verdure invece occhieggiano diverse teste d'aglio.
Tristi, sconsolate e sole. È un crimine lasciarle così.
Meglio farci una...

Pan'aglia
500 g     farina
25 g       lievito di birra
200 ml   latte
50 g       burro pomata
2            uova
3 spicchi d'aglio fresco tritato, o due cucchiaini di quello in polvere
Un pizzico di  sale, un cucchiaino di zucchero
Se dovesse comparire per sbaglio anche qualche foglia secca di salvia... non si sa mai.

I fase)    Il lievitino
Sappiamo già cos'è, vero?
Lievito sciolto in poco liquido e farina q.b. per formare un panetto morbido.
Lo si lascia lievitare per 15 minuti, o almeno fino al raddoppio.
Se la temperatura ambiente è un po' bassa si può scaldare a bollore dell’acqua in un bricchetto e poi, a fuoco spento, vi si poggia sopra una tazza col lievitino dentro, coperta da un canovaccio.
Sembra che stia facendo l’aerosol ma, tant’è…

II fase)    Impasto
Al lievitino si aggiungono le uova - e se la ricetta ne prevede più d'una vanno messe una alla volta e fatte assorbire bene prima di unirvi la successiva - il burro reso morbido a temperatura ambiente (cosiddetto sor Pomata), la farina restante e il latte.
E dopo questa bella strapazzata via sulla teglia o, se preferiamo, anche in uno stampo da plum cake.


Far lievitare altri 20 minuti o, anche qui, fino al raddoppio.

III fase)    Cottura
E infine cuocere a 180° per 30 minuti.


Non c'è voluto molto, e per qualche giorno potremo sfoggiare un alito invidiabile che ci darà la misura esatta della solitudine su questo nostro povero mondo.
Ma vuoi mettere il sapore della novità?

Aforisma del giorno
Ogni novità, anche la felicità, spaventa.

Friedrich Schiller, La sposa di Messina, 1803

Oggi ascoltiamo
The Last Days - The Time Will Never Come Back

http://www.youtube.com/watch?v=eZT5xPM3THI

domenica 9 marzo 2014

Carciofi ripieni

Quante volte stiamo male per la discrepanza tra quello che sentiamo e quello che viviamo?
Sempre.
Ma si sa, siamo una razza un po’ pretenziosa, alla quale l’autocoscienza (per chi ha il lusso di esercitarla) dà la stura a tutta una sequela di aspettative e di fiducie mal riposte, soprattutto su noi stessi.
Pretendiamo la coerenza quando noi, in primis ci sconfessiamo senza pudore.
Siamo e non siamo, vogliamo e non vogliamo.
Che so: puntiamo tutto sull’amore assoluto e sul feticcio della fedeltà, e poi facciamo gli occhi dolci a chi ci serve il caffè al bar; vogliamo un lavoro sicuro e gratificante, e poi sbuffando sogniamo di fare i velisti per caso a zonzo per l’equatore.
Dei fregnacciari professionisti, insomma.
Chiediamo correttezza e coerenza quando noi, per primi, siamo strutturalmente incapaci di darne, fosse anche l’ombra. Incostanti, multiformi e liquidi al limite del gassoso già di nostro, cosa mai vorremmo pretendere dal resto dell’umanità?
Già venir a patti con tutte le pulsioni antitetiche, i desideri contrastanti, le azioni che anziché dare una serena sintesi sembrano annullarsi l’una con l’altra, è un'impresa non da poco, ai limiti dell'impossibile. Un’operazione di mediazione continua.
L’anima non è fatta mica di bianchi e neri come i pavimenti a scacchi dei templi massonici ma, anzi, è disegnata con le capricciose curve non euclidee delle stampe di Escher, dove l’impossibile sembra possibile e la nozione di “avanti” e “dietro” si confondono e si sconfessano fino a perdersi in una plausibile incongruenza.


Questo, dovremmo accettare serenamente, e senza star lì a pretendere l’assoluto.
Da se stessi, soprattutto, che dagli altri, poi...
Accettare quel che dentro di noi poco si lega e s’amalgama, amare l’acqua e l’olio di cui siamo fatti come parti del nostro essere.
Vivere non tanto d’emozioni, che è cosa di così poco impegno, in fondo, ma piuttosto d’emulsioni, di quella rara serie di momenti effimeri d’ossimoro in cui ghiaccio e fuoco, piacere e dolore qualche volta coesistono e danno un vorticoso stordimento, come una sottile e piacevole ebbrezza.
Vivere di piccole cose, visto che poi le grandi sono solo il frutto di fortunose concomitanze d’eventi.
Per quanto mi riguarda, tanto per dire, mi contenterei che un uomo mi si presentasse così.


Sarebbe già un gran bel risultato. Altro che fresie, lilium e sterlitzie!
Vuoi mettere la bellezza di un mazzo di carciofi mammola, dalla forma tonda e paffutella, che paiono pangolini atterriti e abbarbicati su uno zeppo ma che nascondono un cuore tenero senza peli e spine superflue? Ad avercene…


Come diceva una mia amica una volta: "Qui se non me li compro da me sto fresca!"
Ed è anche vero che è difficile resistere quando li si vede sul banco del mercato e pare che ti guardino facendo l’occhietto.
Non dovrei ma vorrei, non saprei ma potrei…
Poi scatta il raptus, come un deus ex-machina che scioglie quel microsecondo di tormentosa indecisione, e ce ne torniamo giocondi e sereni con l’amato bene bello imbustato sotto braccio.
E strada facendo scattano i mille relé nel cervello che ticchettano tutti assieme come in un calcolatore d’anteguerra, e davanti agli occhi spuntano le schede delle ricette con cui ne prospettiamo il destino ultimo: in frittata o fritti in pastella , in risotto, nei ravioli o nelle lasagne, alla giudia o in casseruola alla romana, in timballo con carne e/o formaggio o gratinati al forno.
E, ovviamente, ça va sans dire, con la coratella.
Ma so già, avvicinandomi a casa, che non ne farò niente di tutto questo.
Decisone e coerenza, no?
Quando si hanno di questi angosciosi tormenti, già si sa, solo i classici possono darci se non un aiuto almeno il loro luminoso esempio.
E in cucina chi meglio di sor Pellegrino nostro, patrono di ghiottoni e pasticcioni?
Ripieni, suvvia, e senza starci troppo a pensare.
Che, come si dice chi ce ripensa è cornuto.

419. Carciofi ripieni
Tagliate loro il gambo alla base, levate le piccole foglie esterne e lavateli. Poi svettateli come i precedenti ed aprite le loro foglie interne in maniera da poter recidere con un temperino il grumolino di mezzo, e toltogli il pelo se vi fosse nel centro, serbate soltanto le tenere foglioline per unirle al ripieno. Questo, se dovesse, ad esempio, servire per sei carciofi, componetelo delle foglioline anzidette, di 50 grammi di prosciutto più grasso che magro, di un quarto di cipolla novellina, aglio quanto la punta di un'unghia, qualche foglia di sedano e di prezzemolo, un pizzico di funghi secchi fatti rinvenire, un pugnello di midolla di pane d'un giorno, ridotta in bricioli, e una presa di pepe.
Tritate prima il prosciutto con un coltello, poi ogni cosa insieme colla lunetta e con questo composto riempite i carciofi che condirete e cuocerete come i precedenti. Alcuni libri francesi suggeriscono di dare ai carciofi mezza cottura nell'acqua prima di riempirli, il che non approvo, sembrandomi che vadano a perdere allora la sostanza migliore, cioè il loro aroma speciale.

Per la cottura sor Pellegrino propone la stessa dei:

418. Carciofi ritti
Così chiamansi a Firenze i carciofi cucinati semplicemente nella seguente maniera: levate loro soltanto le piccole e inutili foglie vicine al gambo tagliando quest'ultimo. Svettate col coltello la cima e allargate alquanto le foglie interne. Collocateli ritti in un tegame, insieme coi gambi sbucciati e interi; conditeli con sale, pepe e olio, il tutto a buona misura. Fateli soffriggere tenendoli coperti, e, quando saranno ben rosolati, versate nel tegame un po' d'acqua e con la medesima finite di cuocerli.


Vero è che solo quando ci riempiamo la bocca di cibo, e non di parole, tanti contrasti e tanti dubbi scompaiono.

Aforisma del giorno
Per consiglio prediligi 
i capelli bianchi o grigi
Frate Indovino

Oggi ascoltiamo
King Crimson - Epitaph
http://www.youtube.com/watch?v=AKQKUBrxyBc

venerdì 7 marzo 2014

Globuli, arrubiòlus o cutrunzoni? Comunque boni.

Ah, oggi un bel po’ di palline di ricotta fritte.




E qui qualcuno mi dirà:“Ah, quelle che facciamo anche noi a Modena!”,
oppure: “Sì, sì, anche noi a Napoli. E dolci!”,
o anche: “Macché, è un tipico dolce sardo di carnevale!”
Allora, boni, state boni. Avete tutti ragione, ma qualcuno v’ha preceduto.
Soc… e chi?”,
All’anima e chi t’è m…”,
Sucunnuemam..”
Insomma, calma! Sta tutto scritto qui.
Leggiamo un po’: "Globos sic facito. Caseum cum alica ad eundem modum misceto. Inde quantos voles facere facito. In aenum caldum unguen indito. Singulos aut binos coquito versatoque crebro duabus rudibus, coctos eximito, eos melle unguito, papaver infriato, ita ponito."
“Ma è ora del rosario, forse?..”
In secula seculorum. Amèn!”
Sardu, paret
Eh, quasi ci siamo...
Preso nel gorgo della curiosità per le ricette dell’antica Roma mi sono imbattuto in questa che subito m’è parsa una ricetta facile e stuzzicante.
La riporta Catone (il Censore, proprio lui) in “De agricoltura”, libro LXXIX.
I globos, ovvero globuli, palline, si fanno, letteralmente, così:

Fai così i globi: Mescola del formaggio fresco con alica. Tu deciderai quante ne vorrai fare. Metti strutto caldissimo in una padella di bronzo. Friggi i globi uno o due alla volta e, aiutandoti con due bastoncini, falli girare spesso su di loro. Quando sono cotti tirali fuori, bagnali nel miele e poi spolverizzali con semi di papavero e così li servirai.

L’alica è il farro e quindi, per estensione, farina di farro, ma si può usare della semola, o anche della farina 00, senza colpo ferire.
Il testo non specifica quale formaggio utilizzare, ma i Romani amavano (e amano) la ricotta, specialmente quella ovina, ma infine anche quella vaccina può andar bene. C’è anche chi usa un formaggio fresco tipo "primo sale" o il caprino. Anche qui, de gustibus.
Li vogliamo dolci? Appena toti dall’olio si tuffano nello zucchero semolato o nel miele.
Li preferiamo salati? Una spolverata di sale e pepe e via. Ottimi come antipasto.
Anzi, un vero e proprio cibus digitis... sì, insomma, del finger-food.


E le dosi? A occhio, come spesso succede.
"Ahó, so Censore, io. Mica posso stà cor bilancino!"
È vero, è vero, chiedo venia!
Ma la buona Eugenia Salza Prina Ricotti nel suo libro (1) ne elabora così la versione moderna:
200 g ricotta
50 g   semolino di grano duro (o farina di farro)
1        uovo
Un pizzico di  sale, abbondante miele e semi di papavero.
Impastare ricotta e semolino, aggiungere l’uovo e il sale.
Un tempo erano cotti nello strutto, ma anche in olio si ottiene un buon risultato.
Si fa cadere nell’olio bollente un po’ di pasta, togliendoli quando sono dorati ed emergono in superficie. Passali quindi nel miele e spolverizzali con semi di papavero.


Ovvio che col tempo le variazioni sono state innumerevoli.
Aggiungendo del parmigiano grattugiato (in peso un terzo della ricotta), erbe aromatiche (basilico, salvia, rosmarino) ed impanandoli nel pangrattato si ottengono degli stuzzichini deliziosi.

In Sardegna poi è da secoli un dolce tipico del carnevale.
Cutrunzoni, le chiamano in Gallura, e l’unico riferimento in Rete è una copia de “La voce di Erula” dell'aprile 1999 dove, nella rubrica “Ricette della nonna”, così è riportato:

Li cutrunzoni di brocciu o di casgiu (2)
Si grattugia il formaggio o si schiaccia bene la ricotta, si aggiungono: uova, zucchero, sale, prezzemolo tritato, farina, buccia di limone o di arancia e si mescola tutto. Si formano delle palline che si fanno rotolare nella farina e poi si friggono.

Anche qui, di dosi manco a parlarne, ma il fatto è che vengono davvero fatte “a occhio”.
Indicativamente ogni mezzo chilo di ricotta si aggiungono uno o due tuorli, un po’ di liquore a scelta, zucchero a piacere, un po’ di prezzemolo tritato, la buccia di un limone o di un’arancia e farina 00 quanto basta per ottenere un impasto lavorabile ma non troppo sodo.
Ricavare delle palline e il resto come Catone insegna.
Se li si vuol fare più soffici si può aggiungere anche del lievito in polvere (una bustina ogni mezzo chilo di ricotta, per esempio).



Nel resto della Sardegna hanno diversi nomi – visto che, ahimé, il Sardo è una lingua solo dialettizzata – e così abbiamo: nel Campidano, cioè a sud, gli arrubiolus; orrubiolus a salire verso nord e in Ogliastra, e quindi orruviolus (o arruviolos) e rujolus ancora più a nord (a Mamoiada, per esempio); mentre a Macomer si chiamano brognolus de soru (ovvero di arrescottu, cioè di ricotta).
La radice della parola indica il colore rosso: arrùbiu, orrùbiu, orrùviu, rùbiu, rùju, e così via.
Da cui l’orrendo italianismo rossignoli, o rossini...
Rosso forse per via del tuorlo d’uovo e dello zafferano, presente in molte ricette di dolci sardi.
Ma non stiamo mica a far sottigliezze qui.
Qui, signori miei, di sottile non c'è rimasto niente, tantomeno il girovita.

Detto sardo del giorno
In corpus de unu monte si podet intrare, in coro de unu homine no. 
All'interno di un monte si può entrare, nel cuore di un uomo no.

Oggi ascoltiamo
Zbigniew Preisner - Conte d'amour

http://www.youtube.com/watch?v=vwNrKdKckTc

NOTE
1) "Ricette della cucina romana di Pompei e come eseguirle", Ed. L’Erma di Bretschneider, Roma.
2) Brocciu sta per ricotta e casgiu (da pronunciasi /'kaʒu/) è il pecorino fresco, non stagionato.

giovedì 6 marzo 2014

Biscottini mandarini

Quest'anno i mandarini, almeno dalle mie parti, si sono visti poco.
Si sa, ci siamo fatti tutti un po' schizzinosi, e tra due frutti si preferisce quello più pratico, senza semi.
Qualcuno, se potesse, comprerebbe anche quelli senza buccia, "in comode miniporzioni per uno snack sfizioso e leggero".
Ah, già lo fanno? Appunto...
Magari aspettiamo anche gli ulteriori prodigi dell'ingegneria genetica per arrivare a quelli che entrino direttamente in bocca da soli seguendo il calore corporeo.
Certo, tra mandaranci (le famigerate "clementine", come si chiamano oggi) e i mandarini non c'è proprio confronto, sia per il sapore che, soprattutto, per il profumo.
Ma si sa, ci siamo fatti tutti signori, altro che Grande Crisi Economica.
E quindi addio mandarini.
Strana cosa - e crudele, poi - il cosiddetto "mercato".
Dicono che non vale la pena mantenere una abbondanza variegata di prodotti - che già chiamarli "prodotti" li fa sembrare di primo acchitto solo delle merci, mentre primariamente sono alimenti - se poi la gente compra sempre e soltanto le stesse quattro cose.
Ecco quindi le solite tre varietà di mele (golden, stark e renette, alternate alle fuji, quando va bene), tre di pere (william, abate e coscia) e due d'arance (tarocchi e navel).
E di contorno anche fragoloni grossi come pesche che hanno meno sapore di una ciancigomma sintetica.
Il resto, ovviamente, è venduto a caro prezzo come primizie d'elite.
Sì, anche le arance sanguinelle, dal succo scuro, inquietante e dolceamaro.
E le mele limoncine? Quelle piccole e aspre? Chi le ha più viste in giro?
Per non parlare delle visciole, ahimé...
Signora mia, cosa non si farebbe per il profitto!...Soprattutto se a profittarne sono degli altri.
Poi ci si riempie la bocca con la "biodiversità", si parla di salvare il pangolino e l'aborigeno del Top End quando si stenta anche a salvare dalla scomparsa non dico il pomodoro "Feuerwerk" ma persino le arance amare, figuriamoci...
Capisco anche che possa sconcertare il caos babelico di un'enorme varietà di verdure, come pure di un'umanità riccamente variegata, ma peggio è - secondo me - l'omologazione gelida e soverchiante a una e una sola tipologia valida, umana o vegetale che sia.
Ma torniamo a noi, e basta con i rimpianti, che mi si scioglie la ganache sulla faccia (sì, la uso come maschera antietà, che male c'è? ognuno ha i suoi metodi).
Il mandarino, comunque, stenta e nazzica ma ancora resiste. "Ha ancora il suo mercato", come si dice.
E allora ne approfitto per ubriacarmi le papille olfattive del suo profumo.
Chissà che il prossimo anno...


Biscottini mandarini
Per una trentina di biscotti, o giù di lì.
270 g   farina
100 g   burro
100 g   zucchero
1         uovo
1/2 bustina di lievito in polvere
scorza di tre mandarini
un pizzico di sale
Lavorare a crema il burro ammorbidito e metà dello zucchero.
Lavare bene le bucce di mandarino ed eliminare la parte bianca poggiandole su un piano con l'albedo rivolto verso l'alto, raschiandolo il più possibile con un coltello a seghetto.
Sminuzzare quindi le scorze in un tritatutto insieme all'altra metà dello zucchero, che s'imbeverà così degli oli essenziali del mandarino.
Unire al burro le scorze tritte e l'uovo, il sale e a mano a mano aggiungere la farina.
Quando si otterrà un composto sufficientemente lavorabile trasferirlo sulla spianatoia infarinata e stenderlo con delicatezza ad un'altezza che non superi un centimetro.
Ricavare con le formine preferite i biscotti e disporli sulla placca imburrata e infarinata, oppure ricoperta di carta forno, e infornare a 180° per un quarto d'ora circa.
Devono appena colorire, e proseguire la cottura li farebbe indurire troppo.
Sono ottimi qualche ora dopo.
Il giorno dopo, poi...

Detto romano del giorno
Pe' consolasse basta guardasse addietro.


Oggi ascoltiamo
Stromae - Formidable (ceci n'est pas une leçon) 

http://www.youtube.com/watch?v=S_xH7noaqTA&feature=kp

sabato 1 marzo 2014

Lauræ crustrum

- Glaphyra, presto, la signora vuole vederti!
- Vedere me, Zoi? Ma che dici?
- Sì, proprio così! Ti manda a cercare, e sbrigati, su! Chissà cos'avrà da chiederti! Io torno in cucina, ma poi mi racconti, eh?
Zoi era sempre stata un'impicciona e Glaphyra non amava perdere il suo tempo in chiacchiere con lei, e poi aveva così tante cose da fare, in cucina.
Quando entrò nella stanza così riccamente decorata quasi le mancò il respiro. Sapeva che nella sua terra c'erano palazzi con affreschi e dipinti preziosi, dove il colore dell'azzurro del cielo, l'oro del sole e il rosso del sangue creavano figure fantasmagoriche, ma lei non li aveva mai visti.
Era stata presa dal suo villaggio assieme ai fratelli e alle sorelle e venduta come schiava in una terra di cui allora non sapeva nemmeno il nome.
- Prendetela, signori! È giovane, forte, e sa cucinare come nessun'altra qui! - Così ne aveva decantato le doti il mercante quel giorno, mentre veniva esposta al pubblico, ma non avrebbe mai saputo cosa stessero davvero dicendo di lei. Imparò la lingua dei romani molto dopo, vivendo in quella domus.
La signora le stava di fronte, seria, e la guardava con attenzione.
Non era mai stata dura con lei, l'aveva sempre rispettata come facente parte della famiglia e, a suo modo, le voleva bene.
- È perché cucini divinamente - Diceva quella serpe di Zoi. E forse, chissà, può anche darsi che avesse ragione lei.
Era invidiata dalle amiche della sua domina per le sue capacità, e quando in città si diffondeva la notizia che i Papirii celebrassero una qualche ricorrenza con un banchetto le reazioni erano duplici e nette: c'era chi non vedeva l'ora di partecipare a un evento che sarebbe stato di sicuro memorabile, e chi invece bolliva di rabbia per esserne stato escluso.
Marcia Papiria era una bella donna, anche se non più giovane - Aveva già superato i trent'anni - ma la cura che poneva nell’acconciarsi gli abiti e i capelli la facevano sembrare quasi la statua di Afrodite che Glaphyra aveva visto un giorno, da lontano, tanto tempo fa.
- Glaphyra, cara - Le fece la padrona che adesso aveva addolcito lo sguardo. - Vieni, devo parlarti. E da sola. - E si avviò verso la stanza interna.
La paura di Glaphyra crebbe come un guizzo nel cuore. Le sembrò che il sangue le si fermasse per un istante nel cuore e che il sole avesse smesso di percorrere la volta celeste.
- Non aver paura, e seguimi. Non voglio che orecchie indiscrete, ascoltino quello che ho da dirti. Non temere, su, vieni.
- Arrivo, domina. - E la seguì per la stanza attigua, dove erano sole e nessuno poteva ascoltare quello che avesse da dirle la padrona.
- Ascolta, Glaphyra, sai che in famiglia ti stimiamo tutti per i tuoi servizi. Sei un'artista, nel tuo lavoro. Precisa, diligente...
Ma?... - Pensò con timore crescente Glaphyra. Sapeva che discorsi di quel genere erano sempre il preludio di qualcosa di sgradito. L’avvisaglia di una possibile decisione spiacevole della sua padrona la fece quasi tremare. Non sapeva dove guardare e si sentiva persa.
- Per questo - Continuò la domina - voglio darti un incarico speciale. Molto speciale. E che potrà essere speciale anche per te.
- Per me, signora? - Ebbe l'ardire di esclamare Glaphyra, colta così di sorpresa.
- È così. Ricordi il banchetto dove vennero come ospiti i Claudii, e col quale ci hai reso molto onore?
In effetti quel banchetto era ancora ricordato, dopo due anni, come l’emblema della cena perfetta: c'erano pesci di fiume e di mare cotti nel testo o sulle braci roventi, cinghiali e pavoni ripieni di ogni leccornia, frutta e formaggi dei possedimenti vicini, e poi dolci di noci e miele tra i più deliziosi del mondo.
- Ricordo, domina, e sono felice di avervi dato soddisfazione. – Disse Glaphyra abbassando lo sguardo. Era segretamente fiera del suo lavoro ma pur sempre una schiava.
- Non avevo dubbi, sai? Ti conosco da quando eri piccina così, e sei sempre stata una serva seria e diligente. Te ne sono grata, Glaphyra.
Quelle parole impreviste, fuori da ogni protocollo, erano come vino inebriante e le facevano girare la testa. Cosa le avrebbe chiesto la padrona?


- Vedi, la settimana prossima il dominus verrà investito della carica di magistrato, e per noi questa sarà un'occasione molto speciale. Ma potrebbe esserlo anche per te - Le fece Marcia Papiria con un leggero sorriso. Possibile che la sua buona padrona godesse nel vederla sulle spine? Glaphyra quasi tremava dall'emozione.
- Sai che ho due figli grandi, Livius e Cornelius, e che da tempo ho perso la mia unica figlia femmina, che ho amato molto... - La padrona non riusciva mai neppure a pronunciare il nome di Lidia, morta di malattia qualche anno prima, quand'era ancora una bambina.
- E quindi - continuò Marcia Papiria - la sera del banchetto sarà una sera molto particolare. Voglio che tutti i miei ospiti che ancora non ti conoscono assaggino le tue specialità, soprattutto quelle carni squisite che tu sola sai cucinare in quella maniera. Bene, vengo subito al dunque. La cena sarà l'occasione per te di darmi un'ulteriore prova della tua bravura. Ne ho parlato col dominus, ieri, e con lui ho stretto un accordo.
Un accordo tra i suoi padroni? Qualcosa circa la svolgimento della cena, di sicuro. Che potesse riguardare proprio lei, Glaphyra non sapeva proprio immaginarselo.
- Devi creare un dolce che sia la magnificenza della cena, qualcosa che nessuno ha ancora mai assaggiato. Qualcosa che ci darà ulteriore gloria e rispetto tra le famiglie romane.
Ecco cos'era, sospirò Glaphyra. La richiesta di qualcosa di speciale. Meno male che non era nulla di cui preoccuparsi.
- Ma col dominus abbiamo anche parlato di te. E molto. Mi ha detto che finalmente è disposto a esaudire la richiesta che ho tenuto in serbo finora... Quella di farti diventare libera, Glaphyra. Una cittadina romana a tutti gli effetti. E ricca anche, come nemmeno puoi immaginare.
A quelle parole la ragazza quasi svenne dall'emozione. Cosa le stava dicendo mai la sua padrona? Lei, proprio lei, una donna libera? Non era possibile!
- Vedi, se avessi potuto t’avrei reso libera già da tempo, ed è da tanto che ci sto pensando, ma tu sai che il dominus è un tipo molto rigido. Non è cattivo, lo sai, ma il suo difetto è che molto… formale. Ma questa è l'occasione che ho sempre aspettato per proporgli la tua liberazione come se fosse una speciale gratifica. Voglio che tu diventi una donna libera, Glaphyra. Una cittadina degna e rispettata. E so che puoi farcela.
- Io... libera... - Glaphyra nemmeno aveva mai avuto l'ardire di unire tra loro quelle due parole, le sembrava una blasfemia troppo grave anche solo pensarla.
- È così, cara Glaphyra, e il padrone ha accondisceso la mia richiesta. Se sarai all'altezza del tuo compito, come lo sei stata già tutte le altre volte, del resto, avrai la possibilità di avere la tua libertà.
E qui la padrona, nel segreto della sua stanza, le sorrise e le toccò le braccia come in un leggero abbraccio.
- Vai, figlia mia, e mettiti all'opera. Io ho fiducia in te, e so che ce la farai. Sii fiduciosa anche tu. Cos'è, piccola... Non sei felice?
- Felice... - In realtà Glaphyra era inchiodata dalla sorpresa e non riusciva neppure a respirare.
- Devo andare ora. Che Fortuna ti sia benevola, e tutti gli dèi ti guidino.
Le carezzò una guancia e, voltandosi in fretta come per nascondere un'emozione troppo forte, s’allontanò verso le sue stanze.


Glaphyra restò basita ancora non riuscendo a realizzare cosa le stesse accadendo ma poi, pian piano, come se emergesse dalle acque, veniva investita da mille nuovi pensieri, mille paure, mille speranze e mille propositi con cui rendere indimenticabile la cena del suo signore.
I giorni seguenti furono un tormento. Le sue aiutanti eseguivano le sue indicazioni a puntino ma pareva sempre che mancasse qualcosa e il fatto che non potesse confidarsi con nessuna di loro, tantomeno con Zoi, la faceva sentire sulle spine per ogni minima questione.
E cosa poteva mai inventare di nuovo, lei? Qualcosa che nessuno a Roma avesse mai mangiato... Sì, ma cosa?
Fece diverse prove ma nessuna la soddisfaceva. Erano le solite cose, in forma diversa ma con  la stessa sostanza. Iniziava a sudar freddo, col timore di non potercela fare.
Quel giorno, il pastore che le portò il formaggio fresco appena preparato la vide rossa in viso, come se avesse pianto tutta la notte o non avesse dormito in preda a chissà quale incubo.
Il vecchio, con cui era solita scambiare qualche parola la guardò con tenerezza e le disse: - Stai serena, Glaphyra, qualunque cosa ti affligge, tutto si risolverà. E se hai dei dubbi su qualcosa che ti tormenta chiedi aiuto ai tuoi avi.
Con un sorriso stentato Glaphyra prese il formaggio e lo ringraziò.
Quella sera, stanca della lunga giornata, accese una candela e bruciò qualche foglia di un'erba che conosceva solo lei, e di cui nessuno lì sapeva l'utilizzo.
L'aria si fece profumata di fieno e fiori, e chiudendo gli occhi Glaphyra spense la candela e s'assopì.
Sognò la dea Artemide, vestita d'argento lunare, con la faretra a tracolla e l’arco impugnato saldamente dalla mano destra.
La dea le sorrideva, aveva gli occhi profondi come la notte e sembrava volerle dire qualcosa ma lei non riusciva a sentire il suono della sua voce.
Poi vide degli schiavi che portavano offerte e libagioni alla dea.
C'erano fiori, candele e cibi profumati. Uno di questi la sorprese. Era una sorta di placenta (1), ma era sormontata da candele accese, tante piccole luminosissime candele che parevano stelle del firmamento.
L'aveva quasi dimenticato, ma nella sua terra di un tempo si usava omaggiare Artemide con un dolce su cui erano state accese delle candele. (2)
Che bizzarria, diceva nel sogno a se stessa, ma che bellezza, anche! Il mattino dopo, ristorata da quel sogno magnificente, si mise al lavoro pensando a come potesse rendere reale la torta che aveva visto in sogno.


Cos'aveva lì? La farina, le uova, l'olio, e il miele, naturalmente.
Mescolò, lavorò. Mise l’impasto nel testo sotto le braci roventi e scottandosi disse anche qualche parola poco riguardosa verso gli dèi, che Artemide fece evidentemente finta di non sentire, perché dopo qualche ora quello che sembrava un miracolo avvenne.
L'idea era semplice in sé: impastare tutto quel che aveva a disposizione e mettere sul dolce del formaggio fresco addolcito con il miele e, quale atto propiziatorio, profumato con delle foglie di lauro, simbolo di gloria e della vittoria.
Il formaggio, col miele era delizioso, ma formava una crema troppo morbida.
E la pasta invece era troppo dura. Non poteva presentare una focaccia immangiabile. E poi non sapeva di nulla, mentre ricordava che da piccola assaggiò una focaccia al miele che…
Si mise al lavoro provando e riprovando. E sbagliando, anche. Lei, la migliore cuoca di Roma.
- Ma dove ho la testa? ma, certo, che scema! Le uova!... - Pensava tra sé, come, muovendosi come se stesse sulle braci roventi.
 
La sera del banchetto fu memorabile.
Fu una cena grandiosa, e le aspettative degli ospiti non vennero affatto deluse.
Gli ospiti rimasero a bocca aperta, meravigliati da tutte le cose buone che Glaphyra aveva saputo preparare.
C’erano cibi, cucinati e insaporiti nei modi più insoliti, e vini speziati provenienti da tutte le parti dell’impero.
La fama della cuoca era ormai diffusa ovunque, e non c'era famiglia a Roma che non la indicasse ad esempio di persona capace, retta e diligente. Eppure era sempre capace di stupire i commensali con le sue preparazioni.
Verso la fine del pasto, difatti, quando gli animi erano già accesi dal vino e i tutti s’erano saziati già a dovere, fece il suo ingresso la sua torta, e il mormorio di sorpresa sembrò il mugghiare d'un mare in tempesta.
Era un disco di pasta, tonda e dorata come una luna all’orizzonte, e ricoperta di crema di formaggio.
Ma la cosa che sorprese tutti fu la sua entrata in scena.
Era sormontata da tante piccole candeline che illuminavano la penombra della sala e che parevano un astro catturato dal cielo e portato in gloria lì, tra i mortali.
Ma questo era niente. La vera sorpresa fu quando il padrone di casa spense le candele con un soffio solo e vennero dati agli ospiti le fette dei dolce. Nulla che fosse mai stato confezionato a Roma poteva stargli alla pari: la placenta cui tutti erano abituati al confronto era un piatto rozzo, qualcosa di cui vergognarsi d'aver mangiato ed apprezzato finora.
Questo era qualcosa di diverso, lo vedevano tutti, e ognuno lanciava esclamazioni di meraviglia, consapevole di assistere a qualcosa finora mai accaduta.
Non solo il dolce ebbe il successo che meritava, ma la cuoca, che aveva seguito le reazioni entusiaste riportate dai camerieri, venne convocata dal padrone, che voleva ringraziarla pubblicamente davanti a tutti i suoi ospiti di riguardo.
Quando il dominus l’ebbe davanti a sé le consegnò una pergamena e fece portare da un servitore una cassa che sua moglie aveva già da tempo riempito di gioielli e monete d’oro.
Ma quello che il padrone le stava per dare era il tesoro più grande, al quale pochi, tra gli schiavi, potevano ambire.
- Da questo giorno – Le disse il dominus - non sei più Glaphyra, la nostra schiava, e non sei più di nostra proprietà. Sei una donna libera. E me ne sono tesrimoni i presenti. Ma non solo. Se vorrai sarai nostra figlia, e ti chiamerai Laura, l’onore della nostra casa.
Glaphyra divenne così libera e ricca, e accettò con gioia di diventare figlia adottiva dei Papirii.
Ma non dimenticò mai d'essere stata per anni una semplice schiava come tante, e cercò di comportarsi sempre in modo saggio e avveduto. Diversi schiavi, quelli che i suoi mezzi le permisero di comprare, ottennero da lei la libertà, e molti scelsero di viverle accanto per gratitudine e per l’alta stima che serbavano di lei.
Quando voleva continuò a preparare dei piatti deliziosi, ma stavolta solo per diletto, e solo per rendere felice la sua nuova famiglia. Le piaceva stupire con la sua cucina e amava far sbocciare un sorriso inatteso sulle labbra delle persone a cui voleva bene.
Quel dolce perse il suo nome, è vero, come molte altre cose d’allora che si sono perse nel passato, ma la gloria del suo artefice resterà comunque scritto per sempre nel libro del tempo.


Lauræ crustrum
Come ricreare qualcosa che fosse plausibile ai tempi degli antichi romani?
Già la lista degli ingredienti era più scarna di quella di oggi, e molte preparazioni erano allora sconosciute.
Unico dolcificante era il miele, e preparare un dolce col burro era ancora al di là delle conoscenze d'allora.
C'era però il buon olio d'oliva, o lo strutto. Come inizio non c'è male. D'altra parte ancor oggi si usa questo sistema.
Perché non provare quindi a preparare una pasta frolla ante-litteram?


Pasta frolla all'olio e al miele
300 g farina
50 g   olio d'oliva
50 g   miele
1        uovo
un pizzico di sale
(e  con la macchina del tempo, se si vuole, prelevarne anche uno di lievito)

L'olio dovrà essere quello dal sapore non troppo marcato.
Per renderlo più delicato si può sostituire in parte con dell'olio di semi, o totalmente con dello strutto.
L'olio del nostro Sud, ricavato da olive ben mature e ubriache di sole. è un po' troppo pungente, e va bene da solo sul pane con un pizzico di sale.
Il miele migliore è anche qui quello dal sapore più delicato, un millefiori o d'acacia.
In una ciotola mescolare velocemente tutti gli ingredienti, lavorando inizialmente con una forchetta e poi con le mani.
Aggiungere un cucchiaio di farina all'impasto se fosse ancora troppo morbido e poco lavorabile. Deve risultare morbido e cedevola ma non deve attaccarsi alle dita. Lasciarlo riposare al coperto per una mezz'ora circa. 


Farcitura
500 g ricotta romana di pecora
150 g miele
40 g  pinoli (facoltativi)
2       tuorli
una decina di foglie di lauro, più qualcuna per la decorazione
qualche gheriglio di noce per la decorazione (anche questo facoltativo)
un pizzico di sale
In un pentolino mettere il miele e le foglie di lauro ben lavate e farlo scaldare senza portarlo ad ebollizione.
Se il fuoco dovesse essere comunque troppo forte, farlo riscaldare inizialmente e poi passarlo a bagnomaria per una decina di minuti, girando ogni tanto.
Le foglie dovranno infodere dolcemente e cedere il loro aroma al miele.
Quindi lasciar freddare.
Lavorare a crema la ricotta, aggiungere il miele e i tuorli.
Se si preferisce si possono tostare dei pinoli su un padellino antiaderente e aggiungerli all'impasto dopo averli fatti intiepidire.
Rivestire il fondo e le pareti di uno stampo da 24 cm, oppure uno da 20 cm più uno da 15.
Versare nello stampo la crema di ricotta, livellarne bene la superficie e ripiegare il bordo a cordoncino, appiattendolo con le dita o con l'aiuto di un cucchiaino.
Sulla superficie del dolce disporre delle foglie di lauro e dei gherigli di noce pennellati con poco miele.
Cuocere a 180° per una mezz'ora almeno.


Volendo, i pinoli e le noci si possono anche omettere. Quel che conta è l'aroma del miele al profumo di lauro.

 

Questa invece è la versione integrale.
Parte o tutta la farina dell'impasto può essere sostituita con farina integrale per dare al dolce un sapore ancora più "rustico".


Non so che direbbe Glaphyra, se l'assaggiasse, e in verità sarei davvero curioso di sapere il suo parere.
Certo, sarebbe comunque contenta sapendo che qualcuno la stia ricordando dopo così tanto e tanto tempo.

Detto latino del giorno
Per aspera ad astra. 
Solo con la fatica si ottiene il successo.
Dalle stalle alle stelle, diremmo noi, accentuandone l'aspetto fortunoso.

Oggi ascoltiamo
Giuni Russo - Una rosa e' una rosa
http://www.youtube.com/watch?v=tght-6den6k

NOTE
1) La placenta, dal greco antico plakoys, era una sorta di focaccia. Veniva cotta nel testo, il "forno di campagna" dell'antichità, che si poggiava sulle braci e si corpiva con un coperchio.
2) L’usanza delle candeline accese sulle torte ha davvero origine dai greci.Sugli altari dei templi di Artemide venivano messe delle torte al miele tonde, a rappresentare la luna, sormontate da candeline accese. In base alle credenze popolari le candele, come anche i fuochi sacrificali, hanno il potere di esaudire i desideri e d'essere di buon auspicio.