domenica 28 aprile 2013

Orecchiette con sugo e ricotta FORTE

- Certo che non ti posso portare da nessuna parte, Leppagorre mio. Sei proprio un cafone!
- Sì, eh? - Leccandosi le zampe, come fa di solito quando è imbarazzato e non vuole darlo a vedere.
- Eh sì! Dimmi tu se quello era il modo di ringraziare chi ci ha portato un regalo. Che, tra l'altro, ha viaggiato per centinaia di chilometri per arrivare fin qui.
- Per me, guarda - Sempre leccandosi il pelo e senza guardarmi minimamente in faccia - avrebbe potuto anche restare là dov'era, sai...
- Ma come, così buzzurro sei? Era un formaggio da caseificio di paese, quello, mica da bancone di supermercato.
- Ma a me quell'odore... brrr! se ancora ci ripenso mi si rizza il pelo!
- E c'era bisogno di farlo capire così chiaramente? Mettendoti sul muso una mascherina antismog?
- L'avrà capito che non mi garbava tanto?....
- Tu che dici? Bestia, che sei!

Sempre così.
Io cerco di essere conciliante e lui, malcurante, spara a zero; io cerco di tastare il terreno e lui, irruento, si butta a capofitto; io assaggio con cautela e lui, ingordo, trangugia tutto senza ritegno.
E non è mica per un atteggiamento moralistico da borghese piccolo piccolo che dico tutto questo.
Ci mancherebbe...
Il perbenismo, il decoro, il ritegno, sono valori che vanno presi, come il veleno, a piccole dosi, per non rischiare la paralisi vitale.
Ma mi dico: uno ha già il suo Es, la sua parte psichica più irrazionale ed istintiva; uno già deve frenare a stento le proprie pulsioni, che non sentono mai ragioni; e già si devono fare i conti, notte e giorno, con gl'impulsi più arcaici e selvatici della mente, a volte anche violenti, perché no.
Insomma: non basta che la propria vita interiore sia una camminata su un filo sospeso dove, da sopra il tiranno del Super-Io cerca di schiacciare e, da sotto, il gorgo dell'Es cerca di inghiottire.
Non basta che si faccia una continua fatica per tenere a loro posto le imposizioni restrittive e gl'impulsi senza freno: no, ci manca pure il demone felino a metterci del suo...
Ecco, se non fosse una sorta d'archetipo potrei fare come chi crede enl trascendente: telefonare a un esorcista e tanti saluti.
Invece no: visto che fa parte della mia mente, e anzi di tutte le menti, me lo devo tenere così com'è e blandirlo, redarguirlo e costringermi ad avere con lui, come si dice, uno scontro dialettico...
Intanto, per non saper né leggere e né scrivere, la ricotta forte me la pappo tutta io.
Alla facciazza sua!

La ricotta forte (che nella forma dialettale è chiamata ricotta 'scante, ascuante, ashcande o sciquante) è un formaggio fresco di latte di pecora tipico della Puglia centro-meridionale e della Basilicata.
È simile, per lavorazione, alla ricotta fresca e come la ricotta vera e propria si ottiene separando la parte sierosa dal latte cagliato sottoponendolo a una seconda cottura; viene, appunto, ri-cotta.
A questo punto arriva il bello: il formaggio viene schiacciato per ricavarne un composto semi-molle e messo in recipienti chiusi di terracotta dove viene rimescolato quotidianamente fino alla completa acidificazione.
Ed è così che a ricotta assume il suo particolare sapore deciso e intenso.
Appunto: FORTE.

- Troppo forte!
- Zitto tu, che già hai fatto danno. Tanto me la magno tutta io, stai tranquillo.
- Dimmi quando lo fai che me ne vado a trovare i parenti della Tasmania.
- Spiritoso... Basterà che indossi la tua bella mascherina, no? Tanto la figurella l'hai già bell'e fatta!
- No, no: Tasmania o morte.
- Vai, caro, vai. E già che ci sai salutami il tilacino e il sarcofilo arruso...
- Chi???
- Il diavolo orsino, no? Non è un tuo parente?...


La ricotta forte, così stagionata, è in grado di mantenersi commestibile anche per lungo tempo.
In genere si conserva e viene confezionata in barattoli di vetro.
Mi fanno ridere i cultori della cucina giapponese che vantano la delicatezza di sapori, indecisi come un acquarello sfumato, la loro commistione di cui si fa fatica a percepire la differenza tra una pietanza e l'altra.
Mi fanno ridere quelle affermazioni, scritte anche con la massima serietà, in cui il gourmet di turno si dice capace di distinguere un pesce pescato in un certo periodo piuttosto che in un altro...
A me che piacciono i sapori decisi, con cui si debba instaurare un corpo a corpo tra il boccone e la lingua.
Una bella bruschetta con la ricotta forte e le alici è in assoluto il paradiso del palato, un orgasmo papillare che lascia storditi e soddisfatti per lungo tempo.

Oggi però pasta. Anzi, orecchiette. Anzi: recchjetedd'.
Occorrono:
1/2      cipolla
200 g  passata
100 g  olive nere sminuzzate
3 cucchiai di ricotta forte
A un soffritto di cipolla (come al solito a fiamma bassimissimissima) si aggiungono le olive nere, si fa insaporire per un paio di minuti e poi si versa la polpa di pomodoro, o la passata, a piacere.
Si cuoce facendo bollire per una decina di minuti e nel frattempo si mettono a cuocere le orecchiette in abbondante acqua salata.
Quindi, dulcis in fundo, si aggiunge al sugo la ricotta forte, amalgamandola bene.
Scolare la pasta e condirla con il sugo forte.
E siccome così non mi bastava ho aggiunto anche un paio di cucchiai di pecorino e ho fatto riposare due minuti al coperto, per far mantecare il tutto.

Semplice e forte, come tutto quello che arriva dal tacco d'Italia.
Sapori che stupiscono, che sorprendono ogni volta dopo anni e anni; sapori che fanno innamorare.
Schietti, generosi, e senza fronzoli, come l'adorabile gente del Sud.

Detto pugliese del giorno
A cavàdde gastemàte nge lusce u pile.
Al cavallo bestemmiato brilla il pelo. (Cioè, spesso il disprezzo è dettato dall'invidia). 


Oggi ascoltiamo
Franco Battiato - L'Animale

http://www.youtube.com/watch?v=DBHlXwwDnVU

A proposito dell'Es...

Vivere non è difficile potendo poi rinascere
cambierei molte cose
un po' di leggerezza e di stupidità.
Fingere tu riesci a fingere
quando ti trovi accanto a me
mi dai sempre ragione
e avrei voglia di dirti che è meglio se sto solo.
Ma l' animale che mi porto dentro
non mi fa vivere felice mai,
si prende tutto anche il caffè,
mi rende schiavo delle mie passioni,
e non si arrende mai, e non sa attendere,
e l' animale che mi porto dentro vuole te.
Dentro me segni di fuoco e l'acqua che li spegne,
se vuoi farli bruciare tu lasciali nell'aria oppure sulla terra.
Ma l' animale che mi porto dentro
non mi fa vivere felice mai,
si prende tutto anche il caffè,
mi rende schiavo delle mie passioni,

...



giovedì 25 aprile 2013

Kâfir Kebap

Ovvero: Kebab Ateo (o, lett. miscredente)

Sono un tipo che non sopporta i dogmi, e che raramente prende per oro colato le prese di posizioni altrui, a meno che non siano apodittici e ben argomentati; che fa molta fatica a rapportarsi alla figura di un'Autorità, spesso priva di una reale autorevolezza, e che all'onore preferisce la stima, e a una cieca fiducia la ponderatezza.
Questo per dire che guardo con molta diffidenza i dettami delle religioni, specie quelle monoteistiche: per me la Legge non è qualcosa dettata dal un roveto ardente in cima alla montagna o sussurrate da un angelo luminoso; sono piuttosto frutto del buonsenso di una comunità, e quindi suscettibili di mutazioni al mutare della società, e mai congelate in una fissità marmorea che poco ha a che vedere con il flusso naturale (questo, sì) della vita.
Accetto di malavoglia solo gli assiomi, e solo in Matematica o in Geometria, dove hanno una ragion d'essere, e dove anche lì...
Quando capisco che certi usi alimentari non sono dati da ragioni igieniche (il clima del posto o certe particolari condizioni sanitarie, per esempio) ma da quello che è scritto in un certo libro, allora sento un forte senso di commiserazione per quelle persone che, pur di seguire la proprie aspirazioni spirituali fanno a meno di tanto bendiddio (nel vero senso della parola) il cui consumo viene proscritto dalle loro credenze.
E sapere poi che un certo piatto si prepara così perché NON può essere preparato in un altro modo mi dà un disagio che spesso rasenta l'urto di nervi.
L'ansia di purezza che hanno le religioni è qualcosa di pateticamente irrazionale, ma tant'è: pur di non seguire gli usi dell'Altro, il non-eletto, l'impuro, si impongono e si seguono dei tabù che non hanno nulla a che vedere con la Ragione e il buonsenso.

Per gli Ebrei vi sono quindi animali kashèr (ossia puri, adeguati alla legge religiosa) e tarèf (cioè impuri).
Sono considerati puri i quadrupedi ruminanti, con l'unghia spaccata (bovini, ovini, caprini) e molti gallinacei, assieme ad oche e anatre. Quindi addio suini...
Tra i pesci sono proibiti lo squalo, la razza, lo storione, il lompo, il pesce gatto e ogni tipo di invertebrato marino, come i frutti di mare  le meduse, i polpi, seppie e simili.
Proibiti anche i crostacei (quindi granchi, aragoste e gamberi) e pesci particolari come l'anguilla.
Attenzione, perché vi sono due specie di rombo: uno permesso (il rombo liscio) ed uno proibito (il rombo chiodato)...
Proibiti infine tutti gli animali striscianti, quali serpenti, bruchi, lombrichi e, in genere, quasi tutti gli invertebrati, con l'eccezione specifica di alcuni tipi di locuste.
E dato che poi il sangue è il simbolo della vita, non ci si deve nutrire della carne animale che lo contenga. L'animale deve essere quindi ucciso con un sistema speciale (shechità), atto sia a non farlo soffrire che a eliminare più sangue possibile.
È anche vietato cibarsi di carne e latte (o latticini) insieme.  Dopo la carne, infatti, devono passare almeno sei ore prima di mangiare dei latticini; dopo i latticini prima di mangiare la carne bisogna lavarsi bene la bocca. Bisogna avere recipienti e stoviglie separate per cibi di carne e di latte, come pure diversi scompartimenti in frigo. 

Le norme islamiche sul cibo prevedono la certificazione Halāl (ossia lecito) che è garanzia di conformità alla legge islamica in riferimento alla natura e alla preparazione  del cibo, in contrasto con ciò che è invece harām (ossia “proibito, sacro, inviolabile), e mentre vi sono cibi mushbûh (cioè sconsigliati) vi sono anche cibi makrûh (ovvero il cui uso è "abominevole").
Perché il cibo possa essere considerato ḥalāl non deve essere una sostanza proibita e la carne deve essere stata macellata secondo le prescrizioni sciaraitiche (da Sharî`a, la legge religiosa islamica).
Gli animali devono essere coscienti al momento dell'uccisione e ci si deve assicurare il dissanguamento completo dell'animale.
È specificatamente proibito il maiale, come anche la carne di cammello, di cane, di gatto, d'asino o di animale trovato senza vita e non ci si può cibare del sangue di nessun animale, come pure dei rognoni, del midollo, del cervello.
Proibiti anche i collageni e le gelatine animali.
E’ proibito l’uso di bevande fermentate, quindi gli alcolici, ma non ci sono limitazioni al consumo di legumi o cereali, e non esistono proibizioni riguardo l’abbinamento dei cibi.
Bisogna osservare il digiuno completo nel mese del Ramadan, da due ore prima dell’alba a due ore dopo il tramonto.
Durante lo svolgimento dei pasti è consigliabile utilizzare la mano destra. È bene ricordare che è necessario lavarsi le mani cominciando dalla destra.

Nella religione cristiana non esistono regole o tabù alimentari se non quelli legati alla moderazione: occorre quindi evitare gli eccessi e i peccati di gola (uno dei peccati capitali).
Tradizionalmente era presente il divieto di consumare carne nel venerdì santo, insieme all’obbligo del digiuno in alcune circostanze particolari come il mercoledì delle ceneri e il venerdì santo.

Gli Indù adorano le mucche ed i tori come divinità e ritengono sacro tutto ciò che essi producono. Nella  celebrazione di Krishna i fedeli plasmano statue con un impasto di sterco bovino e latte, e le statue dei templi vengono lavate quotidianamente con latte vaccino fresco.

E mentre il buddhismo raccomanda l’astinenza dalle carni per rispetto alla vita degli animali, il confucianesimo consiglia solo di non consumare alimenti che abbiano un brutto colore, dal gusto spiacevole e, soprattutto, che non siano ben cotti.
Il tradizionale, radicato pragmatismo della Terra di Mezzo...

Questo variegato escursus era solo per dare un'idea di quanto siano varie e anche dissonanti tra loro le norme religiose riguardanti il consumo degli alimenti e la preparazione dei cibi.
Il problema, come sempre, non è tanto nel mancato rispetto di queste norme da parte dell'altro, quanto dal fatto la pretesa che quelle norme, visto che si crede siano scese dal cielo, debbano essere valide per tutti, indistintamente, a prescindere dalle proprie convinzioni, o in assenza di una qualunque convinzione.
È questo, in ogni religione, il significato vero di integralismo, a cui si può soltanto opporre non la tolleranza (che è bieca concessione di chi si sente intimamente superiore) ma l'accettazione, vera e sincera, per ogni diversità.
Accettazione che, ovviamente, pretende rispetto biunivoco da entrambe le parti, sennó addio pacifica convivenza.
Ovvio che essendo io un miscredente (1) non potevo che essere incuriosito dal violare un qualsiasi preteso tabù, di qualunque genere esso fosse.
E questo non tanto per mancare di rispetto alle credenze altrui, quanto per curiosità di vedere cosa accadrebbe se le cose si facessero in un altro modo. Diverso.
E, come sempre, arrivo però sempre tardi...

Adoro il kebab, e solo il ricordo del profumo della miscela di spezie sulla carne che sfrigola serena attono al fuoco mi fa venire l'acquolina in bocca. Gospodin Pavlov docet.
È un piatto inventato, pare,  nel medioevo da soldati persiani che usavano le loro spade per grigliare la carne sul fuoco dei loro accampamenti.
Secondo Ibn Battuta, viaggiatore marocchino, in India il kebab non solo veniva servito nei palazzi reali durante il Sultanato di Delhi (1206-1526 d.C.), ma anche la gente comune lo usava per la prima colazione con il naan, il pane indiano lievitato e cotto al forno.
Una variante più antica del kebab (obeliskos, in greco) è attestata in Grecia già dal VIII secolo a.C. negli scritti di Omero e nelle opere classiche di Aristofane, Senofonte e Aristotele.
Sinonimo Occidentale di kebab è lo shawerma (o shawarma), dal turco çevirme, 'che gira'.
In Turchia è però chiamato semplicemente kebap o döner kebap (ovvero ruotante; un po' come i dervisci...).

Ma - mi sono sempre chiesto - perché limitarsi a utilizzare solo carne che non fosse suina, quindi soltanto pollame, ovino o bovino?
D'altronde, già i Greci, per reazione a tutto ciò che è turco, oppongono al döner kebap il gyros (anche qui: ruotante).
Si sa, anche solo per tigna, i Greci qualcosa che non fosse turca se la dovevano pur inventare...
Siccome però non è molto agevole fare un salto in Grecia per farsi un gyros, e visto che inItalia il kebab è unicamente il döner di pollo/ovino/bovino, che fare?
Ma, diamine, facciamocelo in casa, no?
Certo, non avendo lo spiedone ruotante col megafornello da 60GW ci si dovrà accontentare di usare il forno di casa.
Come si fa anche per la pizza, d'altra parte, visto che nessun forno di casa raggiunge le ragguardevoli temperature di uno da pizzeria, a legna o elettrico che sia.
Prepariamoci allora un bel Kâfir Kebap.
Alla faccia dell'integralismo religioso e di qualsiasi ristrettezza mentale. 

Per la carne
300 g        straccetti di maiale (o anche fettine di prosciutto - s'intende il taglio, non l'insaccato... - non troppo magre)
300 g        pollo (petto o cosce, o anche sovraccosce)
2 cucchiaini    cumino
1 cucchiaino   coriandolo
3 bacche         cardamomo
1/2 bicchiere  aceto bianco (ma anche meno, se è un po' deciso)
1 bicchiere      vino bianco
un pizzico di noce moscata
uno spicchio di aglio
1 cipolla piccola
pepe e sale
In un contenitore si mette a marinare la carne, tagliata a pezzetti, con le spezie, aggiungendovi sale e pepe.
Del cardamomo vanno utilizzati i semi all'interno delle bacche.
L'aglio può essere tritato o fatto a fettine sottili.
Si versa sul tutto l'aceto e il vino, si mescola, e si copre con la pellicola trasparente, lasciandolo in frigo per almeno 3 ore, ma la marinatura si può preparare anche con largo anticipo, anche il giorno prima, per far insaporire bene la carne.

Per il pane da kebab
Il pane adatto per il kebab non è la piadina, troppo sottile, e né il classico pane arabo, troppo friabile: ci vuole un pane consistente, elastico ma morbido.
300 g    farina 00
200 ml acqua tiepida
50 g      strutto (anche il pane dev'essere kâfir, no? Se ci sono dubbi usare due cucchiai d'olio...)
12  g     lievito di birra (mezzo cubetto)
1 cucchiaino di sale
Si impastano tutti gli ingredienti e si mette a lievitare in ambiente caldo per un'ora, o almeno fino al raddoppio.
Quindi si reimpasta velocemente e si formano delle palline, che si rimetteranno a lievitare per un'altra mezz'ora.
Stendere le palline in sfoglie sottili e cuocerle su una padella antiaderente, precedentemente arroventata, per un minuto o due per lato.
Si può usare anche il forno, se si vuole. In questo caso cuocere per 2-3 minuti al massimo a 200°.
Man mano che i panini sono pronti devono essere avvolti in un panno per tenerli morbide.
 
Preparazione del kebab
Accendere il forno a 200°.
Se qualcuno può non esiti a usare il barbecue, ovviamente.
In un foglio d'alluminio versare la carne scolata (conservando il liquido), unendo la cipolla a fettine sottili, aggiungendo un filo d'olio (la carne di maiale e di pollo sono di per sé molto asciutte e altrimenti si rinsecchirebbero) e richiudere il tutto arrotolando, in modo che in cottura non fuoriescano i liquidi.
Infornare in teglia coperta da carta forno.
Dopo circa 20-25 minuti aprire il cartoccio di carta d'alluminio, mettendo la carne sulla teglia coperta da carta forno.


Versare la marinata speziata sulla carne e infornare con il grill acceso, posizionando la teglia il più in alto possibile.
Grigliare per altri 10-15 minuti, mescolndo ogni tanto.
Si apre quindi ogni focaccia e si aggiunge, a piacere, dell'insalata, della tahine e dello yogurt.


A quest'ultimo si può mescolare del peperoncino in polvere, per avere una salsa piccante.
Si aggiunge la carne e...


Ovvio che la si può gustare anche al piatto, con dell'insalata, del Patatummuš o... quel che più v'aggrada.
 

Detto turco del giorno
Emek olmadan yemek olmaz.

Chi non risica, non rosica.

e, ovviamente, per reazione, anche un detto greco:
Kάλλιο πέντε καί στο χέρι, παρά δέκα καί καρτέρει.
Meglio un uovo oggi che una gallina domani.


Oggi ascoltiamo
Sezen Aksu - Karşı Pencere

http://www.youtube.com/watch?v=oEf3EAPxo3o

1) Com'è spiacevole che non esistano termini che indichino chi non crede nel trascendente se non dal connotato fortemente negativo (come, appunto, miscredente) o altre che debbano ricorrere a una particella negativa (il prefisso a- di ateo o il non di non credente).
Il lingua inglese è da qualche tempo in voga il termine Bright, ovvero illuminato (dalla ragione, s'intende), ma in italiano Illuminati ricorda non tanto l'Illuminismo quanto l'inesistente setta degli Illuminati di Baviera... Quindi, comunque: Bright.

giovedì 18 aprile 2013

Variazioni sul tema: torta alla ricotta arancia e zafferano

La semplicità è la cosa più difficile da ottenere, si sa.
Questo vale anche in cucina: le ricette più difficili, sulle quali non si può barare e su cui è facile scivolare pericolosamente sono appunto quelle con pochi, semplici, ingredienti; quelle che richiedono una meticolosa, ma anche spensierata, accortezza nel procedimento. Altrimenti va tutto a rotoli.
Avete provato a fare una "semplice" cacio e pepe?
Ecco: se è decente non deve risultare né brodosa né grumosa; e non è così facile come sembra.
Le cose semplici, in cucina come nella vita, sono quelle che richiedono più cura e attenzione.
È facile sbagliare quando si hanno poche cose in ballo e non si possono mascherare le eventuali pecche nappando o glassando il tutto.
Ben venga allora la semplicità, che ci costringe all'attenta esecuzione di quel che vogliamo, o dobbiamo, ottenere: in cucina, nel lavoro, e anche nell'amore.

Ho già tessuto gli elogi della semplicità quando proposi questa deliziosa torta alla ricotta, ricetta tipica della Sardegna, che in quanto a dolci riserva notevoli sorprese.
Uno pensa ai dolci regionali e viene in mente la suntuosità barocca e sensuale della Sicilia, con i suoi profumi (dono, tra i tanti, del gusto arabo), con la dolcezza al limite dello stucchevole della pasta di mandorle e con i colori della martorana e dei canditi.
Ecco, i dolci sardi sono invece discreti, fatti di poche, semplici cose ma permutate in tutte le combinazioni possibili, e con l'aggiunta di una sapiente capacità decorativa.
Viene in mente, a proposito di decorazione, il pane della sposa: un vero capolavoro d'Arte Bianca, una scultura e un merletto di pane che fa restare ogni volta a bocca aperta.
 

Oltre alle usuali farina, uova e olio (o strutto), ecco allora comparire, nei dolci sardi, la ricotta e i formaggi, le mandorle e gli agrumi, il mosto e le spezie.
Tutto qui?...
Eppure, basta sfogliare il volume della casa editrice Ilisso Dolci di Sardegna (un tesoro di appena 600 pagine) per capire che la semplicità non finisce mai di sorprendere: quante cose sono nate nei secoli dalle mani delle donne, dalla loro accortezza e dalla loro fantasia.
Perché, tranne che nelle corti e nei palazzi, sono sempre state le donne a cucinare, a escogitare un piatto che non desse noia e che non sapesse di visto e rivisto; a creare (nel vero senso di trasformare e forgiare) da poche cose un piatto e un sapore che fosse unico.
E solo la pazienza e l'amore per i propri cari di tante donne sconosciute ci ha trasmesso il loro silenzioso insegnamento: la necessità si fa piacere solo grazie alla costanza e all'amore.
Ah, queste donne...

Oggi variazioni sul tema di una ricetta già vista. Semplici, piccole variazioni, ma gustosissime.
Le dosi sono quelle della ricetta originale, quindi:

300 g ricotta
300 g zucchero
300 g farina
3        uova
2        arance
1 bustina di lievito e una di zafferano.
Si lavora a crema la ricotta con lo zucchero.
Quando si sarà ottenuto un composto liscio e omogeneo, si aggiungono i tuorli, facendoli assorbire mescolando con una frusta.
Unire la scorza grattugiata delle arance e lo zafferano.
Aggiungere all'impasto la farina mescolata con il lievito, alternandola con il succo delle arance.
Montate a neve ferma gli albumi e aggiungerli al composto con gli usuali movimenti dal basso verso l'alto per non smontarli.
Imburrate e infarinate una teglia di 24 cm.
Versarvi l'impasto, livellandolo con cura e cuocere a 180° per 40, 45 minuti.


E basta?... Certo: l'avevo detto, no? che era una ricetta semplice semplice.

Detto sardo del giorno
Ischire limbazos est sabidorìa

Sapere (diverse) lingue è segno di sapienza

Oggi ascoltiamo
Tiziano Ferro - L'amore è una cosa semplice

http://www.youtube.com/watch?v=gTIRuGx7uc4

mercoledì 3 aprile 2013

La Marranella

Dicesi marana (o anche marrana) un… canale di scolo…
Oddio, - Diranno i miei pochi, piccoli o grandi lettori - e che torta è?
Il fatto è che Roma è densa di una toponomastica disgraziata che fa accapponar la pelle: via Affogalasino (1), via della Scrofa, via delle Zoccolette (2) , via Coccia di morto (3), via della Bufalotta,  via di Porta Furba, via di Scorticabove, via Capracotta, via Piansacoccia (4), via dei Chiavari (5) e, dulcis in fundo, una finora inedita via Meglio di niente (6)....
Per non parlare poi delle amene località quali Infernaccio, Muratella e Quarticciolo.
Insomma una città meravigliosa ma etichettata in maniera infame, e spesso da noi stessi romani.
Bene, per onorare via della Marranella, dove sono cresciuto e che ho visto poi celebrare anche da Pasolini (come gran parte di Torpignattara) in "Ragazzi di vita", ho pensato di usare i sapori dalla primavera che inizia e dell'inverno che finisce, ossia fragole e arance.

  

Base
Preparare un Pandispagna da 3 uova, adatto a uno stampo da 20 cm, aggiungendo all'impasto la scorza grattugiata di 1 arancia.
Farlo raffreddare e poi tagliarlo in due strati.

Se si vuole si può preparare anche un fondo di croustillant:
100 g    cioccolato bianco fuso
40 g      fiocchi di mais sbriciolati
30 g      mandorle pralinate tritate
Mescolate bene gli ingredienti e ponete il tutto su una base rivestita di carta forno e livellate bene.
Far raffreddare in frigo per almeno 15 minuti.

Intanto in un tegame far sciroppare 3 cucchiai di zucchero e 2 cucchiai d'acqua, aggiungere 2 arance medie (300 g totali, pesate con la buccia) pelate a vivo, il succo ricavato dalla pelatura e la scorza; aggiungere la scorza e il succo di 1 limone e 200 g di fragole a pezzetti.
Far insaporire per 5 minuti e quindi far raffreddare.
Utilizzeremo il liquido del composto per la bagna, e la frutta per la farcia.

Bagna
Far bollire mezzo bicchiere d'acqua con 3 cucchiai di zucchero e 2 cucchiai di rhum e far evaporare l'alcool.
Ci vorranno circa 3, 4 minuti.
A questo liquido aggiungere quello di cottura delle fragole, ben filtrato.

Farcia
500 ml     crema pasticcera soda
250 ml     panna montata
3             fogli colla di pesce
Alla crema, ben fredda, aggiungere la frutta spadellata e la panna montata.
Mescolare con attenzione, dal basso verso l'alto, per non far smontare la panna.

Composizione del dolce
Preparare il solito ambaradam: su un piatto mettere l'anello di sostegno, regolato nella misura del nostro Pandispagna, rivestirlo con la striscia d'acetato (ve la siete fatta dare dal fruttivendolo? No? Allora via, su, in cartoleria…) fermata con delle attaches.
Alla base andrà il disco di croustillant e, su questo, un disco di Pandispagna, che bagneremo con il liquido della frutta spadellata usando un cucchiaio o con un pennellino da dolci.

Bene, adesso, con attenzione (scusate, ma lo devo precisare per me, più che per voi, dato che son pecione (7)) posizionare lungo la striscia d'acetato una fila di fragole tagliate in modo longitudinale (per le dimensioni del nostro dolce ci vorranno 6 o 7 fragole grosse, 250 g circa).
Aggiungere la crema, livellarla, e poi il secondo disco di Pandispagna.
Far riposare in frigo per almeno 2 ore.

Copertura
Versione sbrigativa:
100 ml panna montata, stesa con una spatola, e un paio di fragole a decorazione.


Versione di gala:
150 g     fragole in purea
1 arancia, succo e scorza grattugiata
2 cucchiai di zucchero
4 cucchiai d'acqua
2  fogli colla di pesce
Preparare uno sciroppo con l'acqua e lo zucchero, aggiungere la purea di fragole e, alla fine, la colla di pesce (come al solito ammollata in acqua fredda per qualche minuto e ben strizzata).
Far raffreddare e poi versare sul dolce, che potremo decorare con delle fettine di fragola disposte a piacere.
Rimettere in frigo il tutto per un altro paio d'ore a far rassodare.


Trascorso il tempo dovuto prendete il nostro giubbidomme (8), togliete l'anello e, aiutandovi con un coltello affilato, il foglio d'acetato.
Trasferite tutto con delicatezza sul piatto da portata e… embè?
Che fate ancora con le mano (9) 'n mano?
Aprite le danze no?


Detto romano del giorno
Pe' cconosce 'na bona pezza ce vo' un bravo mercante.

Per conoscere una buona stoffa ci vuole un mercante bravo.


Oggi ascoltiamo
Antonio Carlos Jobim - A Felicidade (da Orfeu Negro)
(10)
http://www.youtube.com/watch?v=oHlKjeHKIYI

NOTE
1) Perché nella piena di un fosso là vicino vi affogò appunto un povero asinello.
2) Dove un tempo si trovava un collegio per trovatelle dedicato ai Santi Clemente e Crescentino.
Le orfanelle andavano a messa ogni domenica  nella chiesa di fronte calzando degli zoccoli di legno, che risuonavano rumorosi sul selciato. Inoltre, dato che venivano congedate dal collegio appena raggiungevano l’adolescenza, la maggior parte di loro era costretta a prostituirsi per miseria, divenendo quelle che a Roma si chiamano, appunto, zoccole.
3) Ovvero: testa di morto.
4) Pijassela 'n saccoccia (ovvero: prendersela in saccoccia) è in romanesco rimanere gabbati, cojonati, fregati dalla sorte o da qualcuno di cattive intenzioni.
5) Si intende coloro che fanno di mestiere i fabbricanti di chiavi. Che avevate capito? Maliziosi...
Nella stessa zona (vicino a Campo de' Fiori) ci sono infatti anche via dei Giubbonari, via dei Baullari, e così via...
6) O, alla romana, via mejo de gnente... Nata in zona Lunghezza ed inaugurata nel febbraio 2011, ha recentemente assunto la denominazione meno ironica (o polemica) di via Saliola.
7) Maldestro, distratto, con le mani di ricotta (da cui il broccione toscano, da broccio, ricotta).
8) Giubba da uomo, quindi una cosa assai ingombrante e pesante.
9) In romanesco, (come anche in sardo, ho scoperto) esiste il singolare collettivo: per indicare una pluralità di oggetti si usa (non sempre però) il singolare. Si dirà quindi: famme vedé le mano; che me prenni du mela, mo che esci?; ner dorce ciò pure messo du pera.
10) Con le parole di Vinicius de Moraes:

A Felicidade
Tristeza não tem fim
Felicidade sim...
A felicidade è como a pluma
Que o vento vai levando pelo ar
Voa tão leve
Mas tem a vida breve
Precisa que haja vento sem parar
A felicidade do pobre parece
A grande ilusão do carnaval
A gente trabalha o ano inteiro
Por um momento de sonho
Pra fazer a fantasia
De rei, ou de pirata, ou jardineira
E tudo se acabar na quarta feira
Tristeza não tem fin
Felicidade, sim...
A felicidade è como a gota
De orvalho numa petala de flor
Brilha tranquila
Depois de leve oscila
E cai como uma lagrima de amor
A minha felicidade està sonhando
Nos olhos da minha namorada
E' como esta noite
Passando, passando
Em busca da madrugada
Falem baixo por favor
Pra que ela acorde alegre como o dia
Oferecendo bijos de amor
Tristeza não tem fim
Felicidade sim...

Felicità
Tristezza non ha fine
Felicità, sì
La felicità è come la piuma
Che il vento porta per l'aria
Vola lieve
Ma ha una vita breve
Bisogna che il vento non cada
La felicità del povero somiglia
Alla grande illusione del Carnevale
Si lavora l'anno intero
Per un momento di sogno
Per fare un costume
Di re, o di pirata o di giardiniera
Poi tutto finisce mercoledi
Tristezza non ha fine
Felicità, sì...
La felicità è come la goccia
Di rugiada sul petalo di un fiore
Brilla tranquilla
Dopo oscilla lievemente
E cade come una lacrima d'amore
La mia felicità sta sognando
Negli occhi della mia innamorata
E'ì come questa notte
Che passa, che passa
In cerca dell'aurora
Parlate piano, per favore...
Perché lei si svegli allegra come il giorno
Offrendo baci d'amore
Tristezza non ha fine
Felicità, si...

1956