domenica 30 giugno 2013

Torta Calla della Foresta Nera Ovvero: Kallaschokoladekirschtorte

- Leppagorre, scendi dal tavolo, che mi impicci nei movimenti. E poi perché dondoli così le zampe? Mi fai venire il mal di testa!... Che c'è, insomma?
- Così...
- Così, come? Cosa ti frulla in mente?
- Niente...
- Ormai ti conosco meglio di me stesso, chissà perché. Cosa c'è che ti turba? O hai le turbe?
- Mah... pensavo...
- Sì?... - Come si rende l'accento d'interrogazione e insieme d'attesa senza ricorrere alla traslitterazione del terzo tono della lingua cinese? Un tono di voce che dapprima scende a picco e poi risale come un tuffo di cormorano verso una preda a noi invisibile. Qualcosa come, vediamo un po': "Sǐ?..." Bene! Amo più di ogni cosa al mondo il "Mappa caratteri": c'è dentro la mappa geroglifica di tutti i Paesi, anche quelli immaginati; c'è la Storia, la Cultura...
- No, dico...Visto che abbiamo comprato quelle ciliegie...
- Sǐ?... - Rende, rende, e senza rinunciare al mio amato terzetto di puntini...
- Pensavo... Ma mica ce le mangiamo tutte così, au naturel, no?
- Perché, ti pesano già? Ne mangiamo così di rado, visti i prezzi, e m'è parso di mettere un bocca un sorso di sole, stamani.
- E hai espresso il desiderio? - Sì, perché da una vita uso fare un piccolo gesto scaramantico ogni volta che assaggio un cibo la prima volta dell'anno: le prime pesche, le prime fragole, i primi cachi. In un mondo dove la stagionalità è andata a farsi benedire, questo è il mio modo di riappropiarmi di un ritmo vitale che altrimenti sembra perso tra gli scaffali del supermarket globalizzato.
- Sì, e ho chiesto che tu sparisca.
- Ma ora che me l'hai detto non vale più!
 - Smettila, dài. Allora? Che hanno queste ciliegie così come sono? Una volta tanto che sanno di ciliegia, né troppo aspre né troppo stantie. Cos'altro desiderare?
- Be', magari...
- Sǐ?... - È una droga, non riesco a smettere.
- Magari, visto che sono così tante...
- Più di un chilo me ne hai fatte prendere, brutto rospo...
- Non sono un rospo, io...
- Fa lo stesso! Sentivo la mia mano presa come da spasmi inconsulti, che si muoveva da sola e prendeva, prendeva...
- Ormai è fatta, no?
- Sì, e la prossima volta ti tolgo la pelle e la vendo a qualche pellicciaio, per pagare il conto!
- Dicevo...
- Zitti, zitti, che gli si è sciolta la linguaccia!...
- Dicevo... Magari possiamo anche farci un dolcetto, no? Piccino piccinissimo e picciò!
- Ma io dico: ho finito adesso di scrivere un altro post sul Lardo di Colonnata da pubblicare prossimamente, sono pieno di ricette da repertorio che, messe tutte di fila, mi farebbero ricoverare all'istante, e tu mi chiedi di aggiungere un dolce? Un altro?
- Un dolcetto!
- Cosa penseranno quei quattro gatti...
- Ah, ti leggono anche i gatti? Bene, bene. Devo spargere la voce tra i miei parenti, allora.
-...Quei quattro gatti che si degnano di leggere le fandonie e gli spropositi che scrivo? Che, minimo minimo, sono uno squilibrato.
- Secondo me già lo pensano. E da molto, pure...
- Mrrrh! - Ovvero un "ringhio secco a bocca chiusa". Si capirà?...
- No, che mi metti paura!
- Mrrrh! Vai via, via! Pussa via, sciò!
- Ma una Schwarzwäld?...
- Una che?...
- Una Schwarzwälder Kirschtorte!
- Mh...
- Secondo me con queste ciliegie buonissime viene anche bene.
- Mh...
- Magari puoi anche farla diversa da quelle che leggi in Rete.
- Mh...
- Magari fai una Torta Calla di base...
- Mi hai convinto! Al lavoro!
Perché li chiamerebbero demoni, sennó? Suadenti e subdoli, seducenti e tentatori. Sanno quali leve tirare per ottenere la resa di noi, poveri esseri mortali.
Ovviamente parlo dei demoni interiori e archetipici.
Demoni laici, insomma.


La Torta (della) Foresta Nera, o anche Schwarzwälder Kirschtorte, per sublime capacità sintetica della lingua tedesca, si compone di tre elementi principali: base al cacao o al cioccolato (Pandispagna o altro), ciliegie, panna.
Tre cose sole per dare un risultato sublime.
Le variazioni sono molteplici, come molteplici sono i modi di presentarla, dalla più classica alla più fusion.
E visto che per base userò una Torta Calla (che amo alla follia, e anche corrisposto) perché non chiamarla allora Kallaschokoladekirschtorte?

Occorrono, come per ogni Calla che si rispetti:
150 g    farina
200 g    zucchero 
40 g      cacao amaro
100 g    burro
2           uova
125 ml  latte
1 bustina di vaniglina e 2 cucchiaini di lievito vanigliato
Si lavora a lungo il burro pomata con lo zucchero e la vaniglina fino a renderlo una crema soffice.
Si aggiungono, una alla volta, le uova, amalgamandone bene al composto prima di aggiungere il successivo.
Quindi si uniscono i secchi, cioè la farina, il cacao e il lievito ben setacciati, alternandoli con il latte.
Si versa il tutto in uno stampo da 20 cm e si cuoce a 170° per almeno 40 minuti.
Una volta ben fredda la si taglia in tre strati.
E qui comincia la danza...

Per la farcia
250 g    mascarpone
250 ml  panna da montare
2 cucchiai di zucchero a velo
Montare insieme la panna e il mascarpone. A metà dell'operazione aggiungere lo zucchero, setacciato.

E poi?...
Lavare e snocciolare 500 g di ciliegie, maledicendo il mostro (che poi siamo noi stessi) che ci ha spinto a imbarcarci in questa avventura.
Prendere un tegame, farvi saltare le ciliegie con un paio di cucchiai di zucchero e, se si preferisce, anche un po' di succo di limone.
- Perché non?...
- Mrrrh! -
Avevo del limoncello triste triste in frigo, e ho pensato di irrorarvi le ciliegie per dar loro un qualcosa in più...
- Si dice sprint!
 - Si dice taci!
Si fanno raffreddare le ciliegie, quindi si inizia a farcire la nostra torta.
Si bagna la base con il succo che  rilasciato dalle ciliegie, quindi si passa uno strato di farcitura.
Un terzo abbondante, almeno.

Quindi si immergono le ciliegie nel mare pannoso e si copre con uno strato di base. E fin qui ci siamo
Si ripete l'operazione con l'altro strato (due sono, quanti ne volevate?) e con la farcia rimasta si ricopre la superficie e il bordo della torta, aiutandosi con una bella spatola per dolci.
Tenere da parte qualche ciliegia per la decorazione della superficie.


Si può decorare il bordo della Kallaschokoladekirschtorte con delle codette di cioccolato, o con dei biscottini tipo savoiardi (sì, quelli...) messi tutti intorno a palizzata.
La superficie si decora solitamente con delle ciliegie immerse in nidi di panna distribuita con la sac-a-poche ma avendo un bel po' di ciliegie rimaste ho deciso di sparpagliarle a mo' di campo di pomodori sulla crema pammascarponata.

- Non se n'è accorto nessuno, visto?
- Certo, ma se lo dici tu ci faranno caso!
- È il caso di dire che viene bene, anzi benissimo anche così?
- Con le amarene sciroppate, dici?
- Sì, le amarene sciroccate...
- Come te! Sciroccato!

Sì, si possono usare anche le ciliegie sciroppate, meglio ancora le amarene, che da noi si trovano di due marche antagoniste, una con la confezione bianca e blu, l'altra bianca e rossa.
A mio parere quella bianco-blu è la migliore in assoluto, senza paragoni.
È quella che ho usato per un compleanno, rivestendo però la Calla di glassa al cioccolato e decorandola con delle scritte di cioccolato bianco e fondente.
E anche delle farfalle di cioccolato: prima una parte scura a seguire lo schema sottostante la carta forno, poi le parti in bianco, quindi unire con del cioccolato poggiando le due parti su un sostegno fatto di carta piegata a fisarmonica

- In tal caso però non andrebbe chiamata Kallaschokoladekirschtorte...
- Ah no? E come?
- Conosco poco il tedesco, mi sono incarnato solo una volta in uno di loro ma il poveretto s'è suicidato dopo due mesi e...
- Chissà perché, eh? E come la chiameresti, allora, quella con le amarene?
- Mh... fammi pensare... Ecco, magari: Kallaschokoladesauerkirschetorte!
- Seee, bonasera!

Aforisma del giorno
C'est le commencement de la fin.

È il principio della fine.

Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord

Oggi ascoltiamo
Gary Jules - Mad World

http://www.youtube.com/watch?v=4N3N1MlvVc4

sabato 29 giugno 2013

Arrivedolci!

Una Foresta Nera per dire Arrivederci ai dolci.


Eh sì, dopo la morte della mia fida e (poco) amata bilancia, forse è meglio limitarsi.
Poco. Ma limitarsi.
Andrò avanti col repertorio.
Ce ne sono, eh? Eccome se ce ne sono!...
Prossimamente la ricetta.
Arrivedolci!




venerdì 28 giugno 2013

Carbonara con Lardo di Colonnata

Ci sono dei piatti, o meno spesso dei cibi, degli alimenti, che suscitano in noi una ridda di sensazioni, una sinestesia allargata a tutti i sensi, un'estasi mugolante, una sorta di orgasmo papillare.
C'è chi va in sollucchero per il cioccolato (fondente o anche - ahiloro - al latte) o la cioccolata in tazza.
Chi per un bel piatto di pasta (magari amatriciana, carbonara o gricia) cucinata comeddiocomanna.
Chi invece per alcuni frutti: pesche, meloni, fragole (quelle vere, che non si trovano davvero più...)
C'è poi chi, come il sottoscritto, ne ha più di uno, anzi: una caterva!
Uno di questi cibi, uno dei quali è capace di lasciarmi ad occhi sgranati mentre sulla lingua si dispiega una mappa di sapori paradisiaci è...
E qui, per favore, mettere le palme delle mani ben premute sulle orecchie, chiudere gli occhi ben stretti ed emettere uno quel suono che fanno le donne berbere (1) e che consiste in un trillo della lingua che fa un po' così: L-L-L-L-L-L-L-L-L-L-L-L-L-L-L-L-L-L-L-L-L-L..
Questo spezzone del film Caramel (2) illustra come fare:


Ecco, basta anche gridare un LàLàLàLàLàLàLàLàLàLàLàLàLàLàLàLà!
Va bene lo stesso.
E mentre si esegue questa operazione io, di soppiatto, lo scrivo: LARDO DI COLONNATA
Ecco, l'ho detto!
La settimana scorsa un caro Amico (in questi casi la maiuscola è d'obbligo) è venuto proprio da Frittole (provincia di Firenze) e m'ha portato un trancetto di questa indicibile delizia.
Il lardo, si sa, è lo strato di grasso appena sotto la pelle della schiena del maiale. E fin qui d'ineffabile, in realtà, non avrebbe alcunché.
Se non che a Colonnata si sono inventati di porlo, già poco dopo la macellazione, in delle conche scavate nel marmo strofinate con aglio ed aromi.
Il lardo stesso viene salato e cosparso di spezie (pepe nero, aglio fresco privato della camicia, salvia e rosmarino, ma anche coriandolo, cannella, noce moscata, origano, chiodi di garofano, ecc.)
Dopo 8-10 mesi si traggono dalle buche dei tranci che, se non temessi di offendere chi crede chiamerei divini...

Lo so, verdure e frutta, lunghi digiuni e continui giramenti di testa e di budelle.
Una piccola, piccola tregua che mi fa?
E poi cosa rispondo al mio Amico se mi dovesse chiedere: "Ma hai poi assaggiato il lardo costì?"
Devo essere preparato, nevvero?
E se la mia amata Marina Cvetaeva nell'Elogio ai ricchi diceva:
...
E con ciò- prevenuto in anticipo
che fra me e te ci sono- miglia!
che mi annovero fra gli stracci,
che è onesto il mio posto nel mondo:

sotto le ruote di tutti gli eccessi,
tavola di mostri, di storpi, di gobbi…
E con ciò- dal tetto del campanile
dichiaro: amo i ricchi!

...

Parafrasandola, dico:
Considerato, anche se non vorrei, ma devo,
che il verde di foglie in clorofilla e polpe
di varia natura vegetale sono oramai le sole
compagne delle mie tristi cene
dall'alto del mio tavolo svedese,
con la forchetta in una mano e gli occhi altrove
impenitente e delirante
io dichiaro: amo i grassi!


Solo che lei i ricchi li criticava con spietata e sottile ferocia dicendo di amarli, anche se scriveva questi versi in un periodo di estrema povertà, quando era costretta a bruciare anche i gradini di legno delle scale di casa per riscaldarsi dal feroce inverno moscovita del 1922. Dal mio misero cantuccio, invece, io dichiaro un sincero, indiscusso e sconfinato amore per i grassi; anche corrisposto, se devo dirla tutta, visto che questi mi si aggrappano amorevolmente e tenacemente nelle vene e non risco a liberarmene...

Chi non abbia assaggiato mai il Lardo di Colonnata non può nemmeno capire lontanamente cosa sto dicendo.
E pensare che era ritenuto, come molte delizie del nostro (ebbene sì, lo dico pure io, 'sto termine stra-abusato) territorio, un piatto per gente povera, in particolare dei cavatori delle Alpi Apuane, che unendolo al pane sciocco ottenevano un pranzo semplice, gustoso e nutriente.

Dopo averne assaggiato una fettina sottile (non per altro, ma è proprio sottili che vanno tagliate...) su del pane tostato ed aver gridato, fuori dal balcone, i versi precedenti, che rimane?
Ancora una bella fettinina fina fina di delizioso lardo, ovvio.
E stasera allora mi preparo:

Carbonara con Lardo di Colonnata.
Per 1 persona:
100 g      spaghetti (o bucatini)
50-60 g  lardo di Colonnata
50 g        pecorino grattugiato
1             uovo (piccolo o medio)
2 cucchiai d'olio evo
sale e pepe q.b.
In un padellino rosolare il lardo a dadini o a striscioline, come si preferisce, in poco olio; di suo il lardo tirerà fuori altro olio pulcino (come dicono in Gallura).
In una ciotola sbattere l'uovo con 3/4 del pecorino e il pepe.
Il sale aggiungiamolo alla fine, visto che ci sono due elementi già belli sapidi.
Scolare la pasta riversandola nella ciotola e girando velocemente.
Unire l'olio del soffritto e mescolare bene.
Se non si sopporta l'uovo troppo liquido (in romanesco: bavoso) si può mantecare a fuoco lieve in una padella, allungando con poca acqua di cottura, ma proprio poca, eh?
Devo dirlo? A me piace bavoso.
Distribuire il lardo e spolverare con il pecorino rimanente.

E godere.

E questa che d'è?
Roba del Sor Michelangelo. Sì, proprio il Buonarroti.
Qui si vede che l'artista, frequentando le cave di marmo per scegliere i pezzi migliori da destinare alle sue sculture, era solito fare una buona scorta di lardo del luogo.
Queste sono le indicazioni, con tanto di disegnini, che il Maestro aveva preparato per la cuoca analfabaeta.

Non dico niente, faccio solo un accenno di uno dei pasti riportati nella nota dello Maestro:
Colazione delo mattino
Pani dua
un boccale de vino
una aringa


Quindi, per favore, non criticate!

NOTE
1) Cito per esteso l'articolo:
LoYu-yu
Il particolare grido delle donne noto tra le varie espressioni locali coi nomi di twalwil o yu-yu è un suono che si può comunemente sentire nelle cittadine e nelle città dei paesi nordafricani, e tuttavia, almeno per gli uomini, è raro identificarne facilmente la fonte di provenienza. Nel Marocco orientale e nell'Algeria occidentale lo yu-yu prorompe dalle finestre sbarrate di case private, o da cortili nascosti alla vista, permeando e trasformando in modo invisibile, per chi lo sente, la propria esperienza dello spazio urbano.
Questo tipo di richiamo viene eseguito esclusivamente da un'assemblea di donne, ed è connesso a circostanze in qualche modo cariche di emozioni, quali le feste nuziali (e soprattutto prenuziali), il periodo di lutto per parenti deceduti, le processioni per la circoncisione di bambini e le riunioni religiose per sole donne. In breve, queste circostanze comprendono ogni tipo di situazione in cui le strutture della vita quotidiana vengono riconfigurate pubblicamente.
Nell'ambito della mia ricerca, nella mia veste di osservatore uomo, ho trovato difficile identificare con precisione l'autrice di questo suono anche quando l'evento in questione era più o meno pubblico. Al grido di una donna si aggiungeva quello delle altre in sua compagnia che, scostandosi da parte o coprendo i propri volti col velo, impedivano l'identificazione della fonte nonostante il forte volume. Il preciso significato sociale di questa forma d'espressione dipendeva chiaramente dalle circostanze in cui veniva prodotta. Tuttavia, si trattava invariabilmente di un'azione collettiva specifica al genere, che indicava ad ogni ascoltatore o ascoltatrice un evento di grande rilievo psicologico in corso.
(...) questo sfogo emozionale, in gran parte privo di parole, anonimo e collettivo, è indicativo della maniera mediante la quale molte donne marocchine si rapportano in generale al mondo pubblico, maschile.

Da un saggio  di Tony Langlois pubblicato sul sito dell'Università del Maryland.

2) Un film del 2007 dell'attrice-regista e co-sceneggiatrice libanese (e anche splendida donna) Nadine Labaki.
Cinque donne, cinque vite diverse: cinque aspirazioni, timori, incertezze e sacrifici diversi.
Una donna legata a un uomo che però è già sposato, ma che vuole conoscere a tutti i costi la rivale; quella che sta per sposarsi ma non è più vergine, e "deve" operarsi; quella che non accetta lo scorrere del tempo, inesorabile e crudele con il corpo e la sua bellezza; quella che, già avanti negli anni, per amore e abnegazione perde l'unica via di fuga possibile; quella che è attratta dalle donne e vive negandosi la vita, finché...
Divertente, commovente, profondo senza essere pesante; cose che solo le donne sanno fare così bene.
(vedi anche L'albero di Antonia della regista belga Marlene Gorris, del 1995, o i romanzi Sofia dei presagi di Gioconda Belli o gran parte dell'opera di Isabel Allende, da La casa degli spiriti a Ritratto in seppia).
Info su Caramel.
Consiglio: va visto e basta.

P.S.
Qualche riga d'obbligo su Marina Ivànovna Cvetàeva (da pronunciarsi /tsve'taeva/)

Se tradurre è tradire questo vale soprattutto per la poesia, che nel passare a un'altra lingua perde una delle sue dimensioni, quello formale.
Come dire che in traduzione arriviamo a conoscere una moneta solo da una faccia, quello del significato, avendo perso la forma musicale e formale del significante.
Che è comunque anch'essa significato, almeno in poesia.
Questo vale ancor di più per i versi di una come Marina, che usava la lingua russa stirandola da tutte le parti, facendone una lingua gridata, spezzettata, sussurrata, e gridata.
Un grido d'amore, un alito di vento, un rantolo di rabbiosa sofferenza, uno scomporsi delle parole e un riaggrumarsi in qualcosa d'altro.
Per chi, come me, non conosce molto della lingua russa, occorre affidarsi alle buone intenzioni dei traduttori, in particolare Serena Vitale, che ha curato la smisurata corrispondenza dell'artista in due volumi (Deserti luoghi e Il paese dell'Anima, per Adelphi) che consiglio di leggere per capire quanto fosse profonda, sfrenata, e molto "russa" questa geniale poetessa e quanto fu convulsa e disgraziata la seconda parte della sua vita.
Conosceva bene Vladimir Majakovskij e Velimir Chlebnikov (tanto per restare in ambito russo), i maestri del Futurismo in letteratura, ma era imbevuta fin da bambina di cultura francese e tedesca; e la sua parte "tedesca" le faceva amare il rigore e lo sfrenato romanticismo germanico.
Considerava Reiner Maria Rilke un fratello spirituale.


Amò d'uno sfrenato amore platonico Boris Pasternak, con cui ebbe un'intenso scambio epistolare, ma che non ebbe mai la determinatezza di incontrare davvero, forse per tema di rovinare l'intensa aura mitica con cui aveva tessuto quell'amore.
Visse il periodo più drammatico della Russia moderna, la Rivoluzione, con le sue lotte intestine e la guerra civile dopo tre duri anni di Guerra Mondiale; soffrì come tutti i Russi che non si rifugiarono in Occidente una carestia profonda che spazzò via milioni di persone e un'intera classe sociale, oltre che l'élite culturale più avanzata che aveva avuto finora quel grande paese.
Il marito, che amò tutta la vita, da partigiano dei Bianchi divenne spia del KGB; una delle due figlie, Irina,  morì di stenti in un orfanotrofio; ebbe continui spostamenti da profuga in Occidente.
E visse una stremante e disperata povertà negli anni più bui di un regime in via di consolidamento.
Scriveva i versi che le venivano in mente sulle pareti della sua stanza, usando i mozziconi del poco  carbone disponibile.
La carta e l'inchiostro erano merce pregiata, e per chi scrive questo doveva essere un tormento più grande della mancanza del pane.
Rifugiata a Elabuga, uno speduto paesino degli Urali, per via della guerra, la Seconda Grande Guerra, si ritrovò sola, disperatamente sola, nonostante la presenza del figlio Mur, amato e affettivamente iperviziato.
E lì, privata di tutto, del vivere, dello scrivere, dell'essere se stessa, cedette. E disse basta.

Per chi voglia solo essere incuriosito da questa donna straordinaria consiglio il volume di versi Dopo la Russia, curato da Serena Vitale.
Introvabile è invece uno spettacolo teatrale del 1991, Marina e l'altro, scritto da Valeria Moretti e interpretato da Pamela Villoresi, in cui l'attrice rende magistralmente la grandezza, la foga poetica, le debolezze e i tic così umani di questa persona così disperatamente personaggio.
Così legata all'essere, ineluttabilmente e prima di tutto, un Poeta.

giovedì 27 giugno 2013

Crostata ottimista

E con questa ricetta completo la sfilata delle sfornate figlie del furore culinario di qualche giorno fa...
Uno strato scuro, cupo, piccante,


che sembra dolorosamente interminabile, eterno.


Ma sotto, quando tutto sembra perduto, si nasconde una crema bianca, dolce di miele, morbida e confortante.
La promessa di un altro sapore.
E il bello è che stanno bene così: la nera forte, intensa e piccante, e la bianca, discreta, mielosa e angelica.

Crostata ottimista
1 dose    pasta frolla
1 dose    crema al cioccolato da infornare, versione piccante, come descritta qui.
400 g    formaggio morbido (tipo Amorefraterno)
2    uova
2 cucchiai di miele
1 pizzico di sale
Lavorare a crema il formaggio e unirvi il sale e il miele, quindi le uova.
Rivestire lo stampo, dai bordi non troppo bassi, con la pasta frolla e versarvi la crema bianca.
Cuocere per 20 minuti, almeno fin quando la crema bianca inizierà a rapprendersi.
Togliere dal forno e far raffreddare un poco, quindi aggiungere uno strato di crema al cioccolato piccante.
Rimettere in forno e continuare la cottura per altri 10-15 minuti, a doratura della scorza.

Poesia romana del giorno

ER GRILLO ZOPPO

— Ormai me reggo su 'na cianca(1) sola.
— diceva un Grillo — Quella che me manca
m'arimase attaccata a la cappiola(2).
Quanno m'accorsi d'esse priggioniero
col laccio ar piede, in mano a un regazzino,
nun c'ebbi che un pensiero:
de rivolà in giardino.
Er dolore fu granne... ma la stilla
de sangue che sortì da la ferita
brillò ner sole come una favilla.
E forse un giorno Iddio benedirà
ogni goccia de sangue ch'è servita
pe' scrive la parola Libbertà!
                                                              Trilussa

1 Una zampa.
2 Laccio.

Oggi ascoltiamo
Noa - Beautiful That Way - La Vita è Bella

http://www.youtube.com/watch?v=VjDdFRgOxA0

mercoledì 26 giugno 2013

Pizza, preciutto e fichi

Oggi, a pranzo...
 

La pizza è la Pizza Bianca Romana, che è un prodotto da forno e non da pizzeria.
Anticamente i fornai romani, per stabilire se il forno a legna avesse raggiunto la giusta temperatura per cuocere il pane, usavano come indicatore una striscia d'impasto che fosse semplice da infornare, senza l'ausilio di teglie, e che desse immediatamente l'indicazione della temperatura richiesta.
Non è una focaccia, quindi, ma una vera e propria striscia di pane; quindi: acqua, farina, malto, lievito, olio e sale grosso.
È un prodotto IGP (Indicazione Geografica Protetta) e che l'abbia assaggiata sa bene perché.
Ha una consistenza croccante in superficie e morbida, scioglievole, nella poca mollica all'interno.
Va condita solo con poco olio evo e grani di sale grosso.
E dentro, se proprio la si vuole farcire, ama la compagnia del preciutto.
E visto che siamo in periodo, anche dei fichi, spellati o anche no.
Prosciutto e melone? Tsé! Mddeché, mejo preciutt'e ffichi

Detto romano del giorno
levà la sete cor preciutto a quarcheduno 
farla pagar cara a qualcuno 
(...) me vô levà la sete cór preciutto. (da Trilussa, Poesie scelte) 
me la vuol far vedere
levasse la sete cor preciutto
agire in modo sconsiderato, che invece di risolvere una situazione la complica ulteriormente

Oggi ascoltiamo
Luigi Tenco - Ho capito che ti amo
http://www.youtube.com/watch?v=ZK1lcMfI3J0&feature=related

NOTE Linguistiche
1) Pizza, preciutto e fichi è da pronunciarsi come /'pitsa preʃjutte'ffiki/.
La c palatale (quella che suona /tʃ/ davanti a e o i) in Toscana e nel Lazio si pronuncia come /ʃ/.
E non si trascrive con sc, che invece è sempre doppia (pesce /'peʃʃe/).
Scivere lusce per "luce" è sbagliato, tanto in romanesco il grafema c dell'affricata /tʃ/ diventa (quasi) sempre la fricativa /ʃ/, a meno che la c non sia preceduta da consonante o da vocale lunga: er cielo /er'tʃɛlo/, annà a cecio /ann'a a'tʃe'ʃo/ (qui solo la seconda c è pronunciata /ʃ/).
Esercizio di pronuncia:
A frocio, 'sta cena me va a cecio, accenni la luce e dà 'n bacio ar micio...
 /a 'frɔʃo sta'tʃena me va:'tʃeʃo, attʃɛnni la luʃe e 'da 'nbaʃo ar'miʃo/.

Crostata per adulti, al cioccolato e peperoncino

No, non questa:

che è una banale crostata alla marmellata di ciliegie con decorazioni "pompeiane".
Casomai è questa:

Una Crostata al cioccolato e peperoncino.
Sì, lo so, lo so, niente di nuovo sotto il sole, ma volevo provare con le mie mani questo accostamento un po' stra-abusato ma sempre molto intrigante.
Le popolazioni centroamericane usano da secoli la mistura tra questi due cibi, e se non fosse stato per gli spagnoli starebbero ancora belli vispi e sereni a sorbire la loro cioccolata piccante (rigorosamente amara, manco a dirlo).
Il cioccolato, si sa, è un po' farfallone: va un po' con tutti, e con ognuno sa dare del suo, tirare fuori ogni volta qualcosa in più dal suo compagno di viaggio (sarà che anche il cioccolato ha una sua funzione maieutica?), e creare un piacevole contrappunto di sapori con qualunque cosa si accompagni.
Con gli agrumi è la festa del sole e della luna, della solarità mediterranea e dell'ombrosità tropicale.
Con le erbe aromatiche è la vicinanza terrestre, erbacea a coalizzare i sapori: basilico e lavanda, tanto per restare su queste pagine, sono un po' gli allegri compari dell'importante Signor Cioccolato.
Dolce, amaro, e anche un po' agro, al cioccolato manca solo la nota salina e quella piccante per essere pieno, tondo e completo.
Del sale parleremo più in là, visto che sono in arrivo anche i risultati di esperimenti in tal senso.
E il piccante?
Il gusto severo e pastoso del cioccolato si sposa amorevolmente con l'irrequietezza mercuriale del peperoncino; i due sapori si bilanciano alla perfezione: uno colpisce in faccia colla piccantezza, l'altro alla  panza, lentamente, con l'amaro; ma poi, il dolce, da lontano, dà una morbida e confortante carezzina che fa dimenticare lo choc subito dalle papille.
Dopo due fettine di questa delizia si ha un delizioso, knock-out, come dopo un amplesso selvatico, intenso e, allo stesso tempo, profondo e compenetrante.
Non viene voglia di provarlo?
Poi magari può anche deludere, come certi amplessi da cui ci aspettavamo chissà quali faville e che si rivelano, ahimé, dei mezzi fiaschi.
Ma vale comunque la pena di provare, anche solo per metterci il punto.
È sempre meglio avere rimorsi che rimpianti, e questo vale per ogni cosa della vita.
Anche, e soprattutto, in cucina

Crostata al cioccolato e peperoncino
1 dose    pasta frolla
1 dose    crema al cioccolato da infornare
Aggiungere, durante la preparazione della crema 1/4 di cucchiaino di peperoncino in polvere.
Le dosi sono molto indicative: sia che si usi il peperoncino in povere o quello intero (che va messo in infusione nel latte e poi tolto di mezzo, lo devo dire?...) va comunque aggiunto poco a poco per ottenere la giusta piccantezza.
Bisogna fermarsi un bel po' prima di cadere nell'immangiabile: deve essere appena appena piccante, tenendo conto che l'ulteriore cottura in forno farà aumentare ancora un pochino l'effetto del peperonciino.
Più che per adulti è quindi una crostata da equilibristi, da giocolieri, da saltimbanchi.
Deve esserci il piccante, il dolce e l'amaro in equilibrio.
Non precario, ci mancherebbe, ma gioioso.

Rivestire lo stampo di pasta frolla, versarvi la crem ormai freddata, livellarla con la marisa e schiaffare in forno per la canonica mezz'ora.
Appena la crema tenderà a gonfiarsi spegnere e far raffreddare.
Poi se ne riparla...

Aforisma del giorno
Il potere logora chi non ce l'ha.

Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord

(Il Divo non ci ha messo neppure questa, di suo...)

Oggi ascoltiamo
Múm, Green Grass Of Tunnel

http://www.youtube.com/watch?v=oHTFmJk7fH0

martedì 25 giugno 2013

Ecco perché...

Non volevo pistole giocattolo, neppure quelle futuribili piene di lucine e rumorini da robottino; non volevo truppe di soldatini, né quelle monocolore né quelle iperrealistiche; non volevo modellini di macchine, che oggi farebbero impazzire i collezionisti e i nostalgici.
Io, segretamente, volevo questo:


Dall'ultima di copertina degli albi di Topolino ogni tanto compariva la pubblicità di questa meraviglia, e ogni volta rimanevo incantato per ore e ore a guardarla, manco fosse un Mantegna, fissando ogni particolare di quella foto: le misteriose manopoline, le ciotoline da cui sbucavano fior di deliziosi ingredienti e prodotti appena preparati, e poi lei, la blue-box, l'improbabile cassapanca da cui uscita ogni sorta di meraviglia.
E, ovviamente, invidiavo a morte la stronzetta col taglio da paggetto che faceva la sghicia pavoneggiandosi col suo ambaradam da almenotrentamilalire...

Oggi ho più teglie e stampi di una pasticceria professionale e so farmi quasi ogni dolce da solo, eppure il ricordo di quel desiderio, che non potevo raccontare a nessuno perché, si sa, non era roba da maschi, ancora mi rimane stampato dentro.
Se è vero che gli amori che ricordiamo di più sono quelli che non abbiamo vissuto, per varie sventurate ragioni, questo vale anche per ogni altro desiderio, anche il più banale, che c'è rimasto così, sospeso sul gozzo, e che non abbiamo potuto mai appagare.
E non abbiamo nemmeno avuto modo di svilire, diluendolo nella quotidianità fino a perderlo del tutto, definitivamente.
Ognuno ha avuto la sua mora del ramo più alto.
E per qualche tempo, molti e molti anni fa, questa è stata la mia mora...

Chiscette cipolle e fichi

E che potevo star fermo e contentarmi di graziare la melanzana? Giammai!
È da un anno, non scherzo, che mi fu suggerito l'accostamento tra cipolle e fichi ed è un anno che non riuscivo a soddisfare questa curiosità.
Finalmente il cerchio si chiude. E la bocca si apre. E la panza s'allarga...
Ma mica ne ho fatti molti, nooo.  Solo un misero assaggino, tanto per dire.


Dosi per 6 chiscette (stampo da muffin da 7 cm di diametro)
200 g    pasta brisée
200 g    cipolla rossa di Tropea
200 g    formaggio morbido (tipo Amorefraterno)
3            fichi di media grandezza
poco burro
Tagliare la cipolla a pezzetti e farla appassire in una noce di burro, con un pizzico di sale; dovrà diventare trasparente e tenerella.
Rivestire gli stampini da muffin con la pasta brisée, bucherellare il fondo e disporre dei dischetti di carta forno, su cui andrà un piccolo strato di legumi secchi (fagioli o lenticchie).
Cuocere la brisée in bianco per dieci minuti, quindi togliere i legumi e mettere un cucchiaino abbondante di formaggio sul fondo delle chiscette.
Unire uno strato di cipolla rossa e, infine, i fichi tagliati a fette.



Cuocere per 20 minuti, coperto da un foglio d'alluminio, così non bruciano in superficie.
Alla fine dei giochi, che dire, è interessante e straniante: uno pensa di mangiare una tort(in)a salata e invece tra formaggio cremoso, le cipolle e i fichi tutto assume una nota dolce, discreta ma precisa.
Di sicuro non lo abbinerei a una mousse al cioccolato, ma nemmeno a uno sformatino d'alici.
Stanno per sé, semidolci e semisalate, un po' sulle loro.
Nemmeno spocchiose per convinzione ma per intima conformazione.
Mh, non mi convince, devo riassagiare...


Aforisma del giorno
È stato peggio di un crimine, è stato un errore.

Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord

Oggi ascoltiamo
Eugenio Finardi - Le ragazze di Osaka (feat Rossana Casale)

http://www.youtube.com/watch?v=bEfcxFjC4qI

lunedì 24 giugno 2013

Chisce di melanzana

Dunque la frenesia culinaria ha preso il sopravvento, taccisù, e mi sono ritrovato, letteralmente, con le mani in pasta (frolla e brisée, per la precisione), e la triste melanzana che si lamentava del freddo del frigo è stata finalmente graziata per dar vita, se così si può dire, a una:



Quiche di melanzana. Che naturalizzata fa Chisce...
Be', se i cugini d'oltralpe usano dire Rossì, Cappellettì, Sgiorgió, pastà... perché non potremmo fare altrettanto? O continuare a farlo?
D'altronde l'abbiamo fatto per bordó, ragù, besciamella, maionese e paltó; chi scrive più bordeaux, ragoût, bechamelle, mayonnaise o paletot? Solo qualche snob pedante, o contapulci.
O il grande Allan Bay, che però è di tutt'altra pasta e merita solo la nostra incondizionata stima.
In Europa ci siamo scambiati più parole che merci, a ben vedere, e tra la comune origine indiana e i rapporti secolari (non sempre pacifici, anzi...) le parole hanno viaggiato e si sono acclimatate alla pronuncia locale.
Si sa che mayonnaise fa più chic, anzi scicche, ma noi non abbiamo bisogno di elevarci con altrui grafie.
Mica siamo cuochi, per giunta fransé, che se ne escono con: polpa di aubergine de Saint Donatien e uova dell'Alta Val Slesia con 2 gocce di olio di nocciolà (rigorosamente noisettes d'Avallon, mica del Piemonte, e tantomeno di Viterbo, eh?), con riduzione di rape rosse della Jura in Bordeaux (qui ci vuole...) del 1987 (mi raccomando l'annata) e caprino Banon (da capre munte il 23 aprile alle 6.45, ora legale)...
Quelli come me non hanno la Gioconda in salotto, e nemmeno una sua riproduzione se per questo.
Siamo alla buona, qui. Curiosi, coraggiosi, sconsiderati a volte. Ma alla buona.
Quindi fatemi pure dire chisce, che male vi fo?

Servono:
200 g    pasta brisée (o brisé, fate vobis)
500 g    melanzane (una grande)
200 g    formaggio morbido, tipo Amorefraterno, sì, quello per i Cischecchi (aridàje!)
1    uovo
1 spicchio d'aglio
sale, pepe q.b.
Tagliare in due le melanzane e inciderne la polpa.
Cuocerle in forno per un'oretta (o al microonde: massima potenza per 4+4 minuti, circa); poi tritarle.
Lavorare a crema il formaggio, unire la polpa di melanzane e quindi l'uovo e l'aglio tritato.
Salare e pepare.
Basta? Basta, che altro volete?
Foderiamo lo stampo della nostra chisce, lo mettiamo per almeno 10 minuti in frigo, visto che fa un caldo che strozza, e quindi ci versiamo la crême d'aubergine senza olio di nocciole né caprino e né rape rosse, ma banale formaggio cremoso, e nemmeno l'Amorefraterno , ma una sua pallida versione tarocca.

Si mette in forno a 180° per almeno una mezzoretta e si aspetta pazienti.
L'attesa, incucina, è sempre ricompensata.
Sfornare una volta freddata e consumarla calda, fredda o tiepida, senza timore.
È bona e fa bene.

Aforisma fransé del giorno
Non c'è travestimento che possa alla lunga nascondere l'amore dov'è, né fingerlo dove non è.
François de La Rochefoucauld, Massime, 1678


Oggi ascoltiamo un inglese (giusto per far dispetto ai fransé, ma solo a quelli spocchiosi)
Peter Gabriel - The Drop
http://www.youtube.com/watch?v=ROSf0DQCY-8&feature=youtube_gdata_player

domenica 23 giugno 2013

Crostata cioccolato e fichi

- Posso?...
- Che c'è? Fammi finire, Leppagorre, per favore.Non farmi perder tempo.
- Vabbè... Mi metto in un cantuccio e aspetto che tu abbia finito.
- Ecco, bravo. Anzi, prendi questo bel librino e dagli una sbirciata. Non sia mai che ti venga un'idea che non sia balzana per i prossimi menù.
- Ma io non so leggere! E lo sai pure, eh? Allora me lo fai apposta!
- Uff... Tiè, prendi questo con le figure, così ti distrai e non rompi l'anima.
- Mh, però... Guarda! Il servizio di piatti come il tuo! Di quand'è questo libro? 1977...
- Non sapevi leggere, eh?
- I numeri, so solo leggere i numeri, per ovvie ragioni.
- Cioè?
- Per quando devo giocare a briscola, ogni venerdì.
- Ah, ecco... Ma fammi finire, che la festa è stasera.
- Ma quanti siete?
- Dunque: uno, due, tre, cinque... e due pupi.
- E hai preparato tutta sta roba? Anche gli altri hanno i demoni nelle panze?
- Che io sappia no, ma ho fatto altre cose, già che c'ero. Così accendo il forno una volta sola...
- Mh... Mi sa tanto che hai uno dei tuoi soliti attacchi gastronomici, di coazione ai fornelli.
- Ma come parli?
- Eh, caro, io prendo il lessico da te. Ogni demone lo fa con l'ospite.
- Chissà allora il demone di quel trombone di...
- E hai intenzione di mangiare tutto da solo?
- La crostata no, è per il compleanno di zio, le altre cose sono una prova e quindi...
- Quindi citrato a go-go!
- Senti, se non ti sta bene questa - e indico la bocca dell'esofago - è la porta! E adesso fila, che mi stai facendo perder tempo e il conto dei minuti di cottura... Quant'era? Più cinque minuti ancora...
- Mah...

In fondo ha ragione lui, come sempre.
A che servirebbe allora avere 575 anni di differenza, se non per aver accumulato un minimo di saggezza in più?
Mi conosce bene; sa che quando spadello così è perché mi anima un'ansia irrefrenabile che rischia di avvelenarmi l'anima.
Se non facesse così caldo sarei già per strada a consumare le suole in una delle mie frenetiche passeggiate convulsive, che però sono le sole (le sòle (1), sì) che riescono a calmarmi.
Invece fuori c'è il Forno Cosmico, e io mi barrico in casa accendendo il mio, come per una sorta di stolta e involontaria contrapposizione.
E poi ho visto finalmente in giro i fichi, che l'anno scorso non ho trovato da nessuna parte, chissà com'è, e devo approfittarne.
E poi ho una melanzana che urla dolorosamente dall'angoscia d'essere ancora nel ripiano delle verdure.
E poi delle cipolle di Tropea così belle e invitanti...
Insomma: devo muovermi, sennó schiatto.
E l'unico movimento che in questo periodo color seppia mi sento di fare è quello del giromestolo e del manduca-manduca, il che è tutto dire.
Perciò:

Crostata cioccolato e fichi
Per una teglia da 26 cm di diametro dovrebbe bastare anche solo una dose di frolla da 200 g di farina, ma sarà per deformazione non-professionale o perché devo sperimentare farò, al mio solito, la dose da 300 g di farina.
Quindi
300 g farina
150 g burro
100 g zucchero
2         tuorli
un pizzico di sale.
Il procedimento è il solito, basilare, descritto qui.
Una volta che la pasta è pronta e sta facendo il salutare riposino in frigo (avvolta nella pellicola), si prepara la crema.
Provo la crema di cioccolato alla lavanda, questa qui.
La faccio raffreddare per bene, quindi stendo la pasta frolla aiutandomi con il matterello (2) e poca farina sotto e sopra il panetto.
Dispongo la sfoglia frolla nella teglia e taglio i bordi in eccesso.
Bene, via in frigo a raddodare un altro po'.

Una volta che la crema sia ben fredda la spalmo sullo strato di frolla e livello bene con una spatola (3).
Quindi vi dispongo sopra i fichi tagliati a spicchi.
Ne basteranno 6 di quelli medi, circa 500 g.
Li lavo per bene e ne taglio il picciolo, lasciando la pelle (la coccia) che è dolce anch'essa.
Da ogni fico ricavo sei spicchi, nè troppo piccoli né troppo grossi.
In realtà potrei spadellarli con dello sciroppo di zucchero e limone, ma  non ho coraggio di sperimentare oltre, visto che è per una cena.
Risparmio le mie cavie, stavolta.


Cuocio in (stavo scrivendo frigo... vedi il caldo che brutti scherzi gioca?) forno a 180° per una mezz'oretta, almeno finché i bordi della frolla siano dorati.
Far raffreddare bene prima di sformare: è frolla, e si spacca che è un piacere!


- E tutto il resto... chi se lo magna?
- Ma noi, no? Che fai con il telefono? Fermo, che non è roba per te! Posa, giù!
- Prooontooo?!  - Con la voce del(la) cartomante televisiva Pierre la Sultana (4) - Sì? 'mbulanza? Sì, a via Carapelli... sì, 104... interno 11 e quarto piano. Fate prestooo!!!

Detto romano del giorno
È mmejo ave' un occhio bbòno, che ddua bboni da gnente.

È meglio avere un solo occhio buono che due che vedono poco.


Oggi ascoltiamo
Hungry Ghosts - I Don't Think About You Anymore But, I Don't Think About You Anyless

http://www.youtube.com/watch?v=kS9SUmAyKWM

NOTE
1) La sòla è la suola. Esse na sòla vuol dire in romanesco essere una fregatura. Dà la sòla è rifilare qualche magagna. Sei propio na sòla...
2) Mi dispiace per i saputelli che girano in Rete, ma si dice sia matterello che mattarello. Su certe cose fa fede la Treccani, più della sora Jole...
3) io uso questa:
C'è chi la chiama leccapentole e chi marisa, ma è sempre lei: manico in plastica e spatola in gomma. Mai più senza.
4) L'etere radio-televisivo romano è ricco di personaggi bizzarri, cosa che avviene del resto in ogni altra regione.
I tele-venditori, per esempio, sono delle vere e proprie macchiette intrise di una comicità a volte involontaria ma spesso accuratamente studiata per fare audience.
Divenne famoso il televenditore imitato da Corrado Guzzanti nell'Ottavo nano, che cercava di rifilare ogni volta a Serena Dandini le opere di un fantomatico Mutandari, del quale incensava l'"opera" coadiuvato da uno spassono Marco Marzocca.
Ma i/le cartomanti sono un mondo a sé.
Un vero fenomeno televisivo tutto romano è però Pierre la Sultana.
Sguaiato nelle sue grida (il suo Prooontooo? è il richiamo di una Sora Cecioni sotto-sotto-proletaria); ammiccante verso una maliziosità fatta di doppi sensi da avanspettacolo; kitsch oltre ogni dire quando abbellisce lo studio con improponibili ammenicoli (tra i quali battipanni di vimini, coperchi di pentole che si diverte a suonare all'improvviso o perette per clistere che servirebbero per il cosiddetto rito).
Eppure, tolti i fronzoli e gli orpelli traspare un grande comunicatore che sa fiutare all'istante quelli che sono i bisogni e le ambasce del richiedente al telefono, e prima che questo riesca ad esprimerli.
E tra un clistere, una battuta sguaiata e un prooontooo? urlato a 70 dB traspare una saggezza popolare colorata dal sarcasmo tipico del fare romanesco, un cinismo tenero con le disgrazie altrui ma feroce coi fatti della vita.
Qualcosa a metà tra Sora Jole e Mastro Titta.

venerdì 21 giugno 2013

Torta Margherita di Nonna Peppa, o della Terza Madre

Ho avuto tre madri.
Ma non lo dico per vantarmi: è un dato di fatto.
Della prima non è neppure il caso di dir nulla, visto che m'ha soltanto messo al mondo...
L'altra, quella vera, m'ha scelto, o forse sarebbe meglio dire "ci siamo scelti", da come me lo raccontò lei.
Me lo disse a diciott'anni, timorosa di un rifiuto o d'una possibile reazione negativa da parte mia, di chissà quale sconvolgimento emozionale.
Non l'ho mai amata così tanto come da allora.
La Madre, per me, è stata sempre e solo lei.
La terza, che ho sempre chiamato Zia, era sua nipote ed è stata, per ragioni anagrafiche, la madre di supporto, quella che la minor distanza generazionale me la faceva sentire più vicina.
Era a lei che confidavo i dubbi e le ambasce che credevo la Madre, data l'età, non potesse capire.
Quando Elena se ne andò ero addolorato, certo, ma ero anche intimamente rassegnato che l'età avanzata aveva solo preso il sopravvento sulla fragilità del corpo, che il corso della vita fosse arrivato a quella dolorosa, inevitabile ma prevedibile svolta che ci accomuna tutti.
Alla morte di una persona anziana siamo quasi preparati: la vecchiaia ci avverte della fine, ce la prospetta con mille segni, e sappiamo che c'è e che putroppo arriverà, prima o poi.
Quando invece un male si porta via chi non deve andarsene restiamo sgomenti, arrabbiati, inermi, e la vita ne viene stravolta nelle convinzioni  abituali e in quelle consuetudini e considerazioni che le cuciamo addosso per sostenerla.
Sono passati ormai cinque anni, ma la rabbia per la  fatalità di quel male irragionevole, che non doveva essere lì, ancora mi brucia dentro.
Ma non voglio solo essere triste, e di queste due meravigliose donne voglio anche ricordare la pazienza, la dolcezza, la bontà, il caratterino caparbio e la capacità di accogliere maternamente tutto quello che viene da chi si ama. Qualunque cosa.
Due Madri, appunto.

Oggi una ricetta che la terza madre mi ricopiò un giorno su un biglietto che conservo ancora.
Lo riporto così com'è, trascrivendolo solo per una migliore comprensione.

 

Ingredienti:
600g        farina scarsi (quanto basta)
400g        zucchero
100g        burro
4        uova
50ml        olio d'oliva (un quarto di bicchiere)
1 quarto        latte (250ml)   
2 bustine    vaniglina
2 " "        lievito
limone grattugiato
Sbattere le uova con lo zucchero, aggiungere poi latte, il burro fuso (lasciato raffreddare) l'olio, il limone grattugiato e la vaniglina. Amalgamare bene aggiungendo gradatamente la farina (quanto basta) infine aggiungere il lievito e infornate a fuoco moderato x circa 45 minuti.
(Prima di togliere dal forno lasciarla raffreddare)
Controllare la cottura dopo almeno 40 minuti con uno stecchino o uno spaghetto (ma questo lo sai)
Buon lavoro e buon appetito
        (che profumino!!!)
E Nonna Peppa chi era?
Una vecchina dall'età indefinibile e semianalfabeta (all'epoca, si sa, era già un'impresa riuscire a finire la terza elementare) che che vendeva le uova al mercato del quartiere.
Scrisse a mia zia la ricetta su un foglietto, e in una maniera, poverina, che non sto a dire.
Da allora questa diventò la torta che zia Giustina preparava in occasione d'ogni festività.
Una torta semplice e sempre gustosa, il classico "tortone" bello e imponente da tavolata in famiglia.


Quanto mi mancate, mamme mie…

Aforisma del giorno
Ogni donna diventa come sua madre. Questa è la sua tragedia. 
Nessun uomo diventa come sua madre. Questa è la sua tragedia.
Oscar Wilde, L'importanza di chiamarsi Ernesto, 1895

Oggi ascoltiamo
Erik Satie -  Gnossienne n. 1 - Alessio Nanni, piano 

http://www.youtube.com/watch?v=oOTpQpoHHaw&feature=youtube_gdata_player

giovedì 20 giugno 2013

Lo sgaro

Lo sgaro

Dopo na settimana de verdure,
de radiche, de zeppi e foje varie
e ruminato semi e segature
vojo allargamme, senza damme l’arie.

Pe avé 'n filetto de consolazione
da na forzata e ‘nfame carestia
so annato fori, e da na colazione
è escito pranzo, cena e passa via.

“Me vojo scapriccià come me pare”
dicevo, e me parevo na molazza
che nun attura n bucio ma na piazza
co’ rischio pure se sentimme male.

Chebbabbe, patatine e falafè…
Però, so bravo: lascio sta er caffè!

mercoledì 19 giugno 2013

Spaghetti con mentuccia e pecorino

L’ignoranza non è una colpa, ma non è nemmeno una scusa.
E comunque sia non è una cosa di cui andar fieri, a meno che si voglia vivere con dei rassicuranti paraocchi restando all’oscuro di come effettivamente gira il mondo.
Come al mio solito, concetti profondi per una realtà delle più banali.

Felice di ritrovarmi immerso in un campo di mentuccia me ne sono riportato qualche mazzetto a casa, pensando, durante il viaggio di ritorno, al modo migliore di utilizzarlo.
Trippa al sugo, carciofi, e qualche sparuto, timido pescetto.
E qui il dramma.
Quale mentuccia ho colto?
Sì, perché mica c’è la mentuccia e basta. Maddeché...
Spulciando tra le pagine del Web mi accorgo che esistono tre diverse piante su cui far confusione, due delle quali sono chiamate mentuccia, e solo due di queste sono propriamente della menta (1).

C'è, infatti, la...
Calaminta nepeta (famiglia delle Lamiacee, genere Calamintha)
Nepitella, nipitella, mentuccia comune, erba da funghi, nebietta.
Altri nomi locali: erba nuela (Lig), menta salvadega, sombris (Ven.), calameinta, erba bona (Em), nepeyeja (Camp), mentascina (Pug), nipitedda (Sic), nebidedda (Sard).
È una pianta erbacea perenne, alta circa 30 cm, i cui rametti tendono a disporsi orizzontalmente.
Le foglie sono arrotondate e ovoidali, molto rugose ed emanano un odore molto intenso, simile a quello della menta.
Ha infiorescenza a sviluppo verticale con fiori singoli, rosa e violetti, con la caratteristica forma a bocca.
Pur essendo abitualmente considerata una menta di piccole dimensioni, questa non appartiene al genere Mentha, ma al genere Calamintha.




Altre varietà di mentuccia comune sono:
* Calamintha sylvatica (C. officinalis ) o mentuccia maggiore (o calamenta) , che rispetto alla nepitella ha foglie molto più grandi, profondamente seghettate e un aroma leggermente meno intenso.
* Calamintha grandiflora (Satureja grandiflora), detta anche mentuccia montana, presente quasi esclusivamente nei boschi di latifoglie, soprattutto faggete.
In  Sicilia la nepitella si usa per aromatizzare le olive da tavola, mentre in Toscana e nell’Alto Lazio è associata a piatti a base di funghi (zuppe con i funghi, soprattutto prataioli) e nelle zuppe d’origine contadina (acquacotta della Tuscia e zuppe di verdure, tra cui la zuppa di pomodori e mentuccia).
Nella Maremma si usa anche nella salsa verde per condire i pomodori in insalata, le zucchine lessate, le melanzane grigliate, nella panzanella e nel pancotto con l’aglio.
Nel Viterbese, dove è considerata l'erba aromatica selvatica per antonomasia (tanto che l’etimologia del nome la fa derivare da quello dalla cittadina di Nepi) viene utilizzata per cucinare le lumache al tegame e la zuppa con le lumache.
È inoltre la nepitella che a Roma e nel Lazio si usa per la preparazione dei carciofi alla romana (quelli cotti in tegame, che un bel dì vedremo) e di tutti i piatti in cui siano presenti i carciofi, come lo spezzatino d’agnello coi carciofi.
Tanto per complicarsi la vita c'è pure la...
Mentha pulegium (famiglia delle Lamiacee, Genere Mentha)
Menta poleggio, puleggio, mentuccia romana (nelle zone di Roma e Lazio) e in Sardegna è detta aboleu, abuleju, abuleu, abueu, matapuca, menta abuleu e menta burda, puleju, puleu.
In inglese è l'European Pennyroyal.
Non è facile distinguere le due piante, se non dall'infiorescenza: tondeggiante con fiori ravvicinati e biancastri.
Come la nepitella è impiegata per insaporire piatti di carne, pesce, verdura e funghi e, naturalmente, i carciofi alla romana.
Il nome scientifico deriva dal latino pulex, pulce. Nel passato la pianta infatti veniva usata come repellente contro pulci ed altri insetti. I gatti, che nulla sanno di latino, cercano spesso  di strofinarsi contro le foglioline di questa pianta, come se  capissero la proprietà di tenere lontane le pulci, grazie al loro profumo persistente.

Il dubbio atroce delle mentucce ha contagiato anche qualche anglosassone stanziato a Roma...

E mica è finita, perché c'è anche la...
Mentha spicata o Mentha viridis (famiglia delle Lamiacee, Genere Mentha)
Mentastro verde  menta romana.
Ha steli rossastri, foglie lunghe e fiori rosati.
È una delle varietà di menta più coltivate in Inghilterra.

La menta romana è molto simile alla menta piperita ma, a differenza di questa, ha un profumo molto più delicato, per il quale la si preferisce in cucina rispetto all'intenso aroma della piperita.
È questa che viene usata per la "trippa alla romana", mica la nepitella.

Quindi tutte le volte che nella trippa ho messo la nepitella ho sbagliato, ho commesso un orrendo crimine, anche se in buonafede, e gli dèi, notoriamente gelosi e vendicativi, mi faranno a pezzi o mi tramuteranno in un cactus per l'eternità..
Pover’ammé, in che ginepraio mi sono ficcato…


Intanto, per non saper né  leggere né scrivere provo comunque a farmi un piatto di spaghetti alla mentuccia. Che sia nepitella o mentuccia romana non lo saprò mai, visto che non ho potuto verificare l’inflorescenza.
Ma pazienza perché, come si dice, qui: infine basta che se magna!

È in fondo una variante della cacio e pepe e la consiglio a chi non ne sopporta la piccantezza.
Si scola la pasta, conservando come sempre un po’ di acqua di cottura.
In una ciotola si uniscono le foglioline sminuzzate e il pecorino e si amalgama il tutto con poca acqua di cottuta, ben ricca di amido.
Si versa la pasta e si mescola velocemente unendo, se dovesse occorrere, altra acqua di cottura.
Il profumo è celestiale, il sapore pure.
Ed io, come fanno i gatti con la pappa, me so messo a piedi pari...


Grazie a Wiki e al sito Tuscia in tavola , dove ho ricavato importanti informazioni su menta e mentuccia.
Questo forum è invece ricco di numerose foto, importanti per capire le differenze tra le due mentucce.

Stornello  del giornoFior di mentuccia
beato chi ti stringe e chi t' abbraccia
chi te la bacerà questa boccuccia


Oggi ascoltiamo
Simply Red - If You Don't Know Me By Now

http://www.youtube.com/watch?v=zTcu7MCtuTs



NOTE
1) Secondo la leggenda, Minthe era la ninfa del Cocito, il fiume infernale dalle acque gelide alimentato dalle lacrime dei dannati che, insieme all'Acheronte, al Flegetonte e allo Stige, forma il complesso acqueo che separa il mondo dei vivi da quello dei morti.
Minthe (per gli amici Menta) era anche amante di Ade, il sovrano del regno ctonio.
Quando però questi decise di sposare Persefone, che divenne la Regina dell'Oltretomba, la ninfa abbandonata e disperata minacciò pesantemente la rivale, come solo chi è stato tradito e usato sa fare.
Ma non ebbe tempo di dire altro: Persefone la fece a pezzi, giustamente punendola per non essersela presa con Ade, il fedigrafo farfallone.
E Ade, forse in un raro impeto di compassione di cui poche volte gli dèi erano capaci, la trasformò in una pianta profumata, permettendole di vivere nei boschi del mondo dei vivi e di danzare per l'eternità solo attraverso il suo inebriante profumo.

lunedì 17 giugno 2013

Manuale di Nonna Papera!

È tornato! È lui! Proprio lui!


Per chi non lo sapesse ancora, il Corriere della Sera ha ristampato il mitico Manuale, assieme al I Manuale delle Giovani Marmotte...
Sono in edicola dall'8 di giugno ed ancora se ne trovano diverse copie in edicola.
Che dire...
Ho avuto un tuffo al cuore stamane quando l'ho visto là, bello bello, tra Men's Health e Airone...
L'unico libro che non sia sopravvissuto alle cure di mia madre, che conservava tutto, e dico tutto (compresi primi dentini e prime scarpine, tanto per dire).
Chissà che fine fece la mia copia, quella con cui passavo molti pomeriggi, imparando quello che la povera mamma non sapeva insegnarmi, negata com'era per la cucina.
Le Caramelle del Califfo Bargniffo, la Pinolata Biondo-Sveva e la Torta Imperiale Maria Luisa erano solo alcune delle molte ricette che diventavano personaggi fatti di tanti elementi, un gioco di mattoncini commestibili che andava fatto con cura e con amore.

A proposito, leggete qui sull'identità della vera Nonna Papera, sul blog di Sabrine d'Aubergine.
Vado a leggere...

Gnocchi di semolino ("alla romana"?...)

Quanno se magna mejo nun fà mai polemica...
Ma è meglio chiarire, per chi non lo sa.
Il fatto è che a Roma col temine “gnocchi” si intende quelli fatti di patate.
Piatto tipico del giovedì, tra l'altro.
Credo che pochi romani conoscano invece gli gnocchi di semolino come parte della propria cucina tradizionale, tant'è che molti romani de roma non li hanno mai neppure assaggiati...
È sentito, casomai, come piatto "importato" (sì, come tutto ciò che fa parte di Roma, del resto) ma ancora non integrato e fatto proprio (a differenza dell'amatriciana, per esempio).
A Roma si fa poco caso da dove venga qualcosa o qualcuno: se questi ci garbano diventano prima o poi romani, per simpatia, per affiliazione e per senso atavico d'accoglienza.
Lo so, rischio di generalizzare, come faccio spesso.
Quando però vedo nella mia affollata e multietnica periferia due ragazzi, uno di carnagione "nera"  e l'altro "gialla" (i cosiddetti "immigrati di seconda generazione") che sul tram  scherzano tra loro in un romanesco che nemmeno io padroneggio così bene, be', io mi commuovo.
Non siamo ancora abituati ai mescolamenti massicci, alla presenza del "diverso" (apparentemente e solo superficialmente tale, intendo) nella propria società monocromatica.
Comunque, tornando ai gnocchi, è proprio l'uso del burro nella ricetta che li fa sgamare come "nordici".
C'è chi dice piemontesi, chi lombardi.
Gli Gnocchi alla romana sono quindi una innocua, anzi gustosa, leggenda urbana propalata proprio dai cuochi del Nord Italia.
E noi romani ci sentiamo gratificati da questa ulteriore attribuzione.
Qualcuno che conosco gongolerebbe solo all'idea che possa averla fatta un milanese, pensa un po'...
Ma noi non facciamo i puntigliosi, ci mancherebbe.
Quando si tratta d'allargà le ganasse (ovvero le ganasce) non ci tiriamo mai indietro, anzi...
E allora facciamoci pure questi!

1 litro   latte
250 g   semola
2-3       tuorli
15 g      burro (e altri 50 g per gratinare)
parmigiano q.b.
Bollire il latte con il burro, aggiungere la semola, salare, amalgamare bene con la frusta e cuocere finché il composto si stacca dalle pareti.
Far intiepidire. Aggiungere quindi i tuorli, uno ad uno, e il parmigiano.
Mescolare bene e stendere l'impasto, alto 2 cm circa, e farlo raffreddare bene.
Con una formina per biscotti tagliare in dischi e disporli in una teglia imburrata, disponendo le fette leggermente sovrapposte. Dice la ricetta.
Ma visto che è una leggenda urbana, e pure bona, metterli in teglia come ci garba.
Aggiungere parmigiano e burro a fiocchetti in superficie.
Far gratinare a 200° per 10 minuti.

Come ogni impasto che si rispetti accetta ogni tipo di aggiunta che dia sapore e colore: se li volete verdi e farne una bella scacchiera aggiungete 200 g di spinaci lessati e tritati.
A metà dell'impasto, ovvio.


Ma accettano garbatamente anche dadini piccinissimi di prosciutto cotto.
O anche di formaggio; fate voi quale: a me piacciono tutti, italiani o esteri, sono infatti un impuito, impenitente e inguaribile casofilo.

Detto romano del giorno
Pensece prima pe nun pentitte poi.
Pensaci prima, per non pentirtene dopo.


Oggi ascoltiamo
Nina Zilli - Per sempre

http://www.youtube.com/watch?v=tHRjyysyB2E
Gli gnocchi, s'intende; non importa se di patate o di semolino...

domenica 16 giugno 2013

Vellutata di lupini e carote

- Così intento nei tuoi intrugli mi sembri Amalia, la strega che ammalia...
- Tu, invece, caro Leppagorre, non sembri proprio Gennarino. Casomai Carlone, il cane pasticcione, o Paolone, il bufalo impiccione...
- E questo qui che d'è?
- Fermo, non spostare niente! Poi non ricordo dove ho messo la tahine e dove no.
- Uh, attento, eh? Dovessi sbagliare una virgola!
- Ma non c'è il Club delle cuoche in tv? Vattelo a vedere, va, almeno mi lasci in pace a pensare cosa mettere in...
- ... in quell'intruglio? Matoškij moj! Mette paura solo a guardarlo!
- Come te lo magni, poi, eh? Non ti tiri mai indietro, chissà com'è!
- Sai, la curiosità è felina...
- Va, va, che mi fai perdere il filo, oltre che le staffe. E scendi dallo scaffale delle spezie, che lo sfondi con quel culone che ti ritrovi.
- Ma se peso solo 122 grammi, in questo preciso momento.
- Meglio non rischiare. Magari ti distrai e mi viene giù tutta la parete della cucina. E soldi per rimetterla a posto non ne ho.
- Guarda qui... carote! e pure cotte... Mh... non è che ti stai convertendo al vegetarianesimo?
- Ancora no, purtroppo, ma prima o poi ci arriverò. E smetti di magnarti le carote, che mi servono!
- Fanno venire il pelo più lucido. E anche d'un bell'arancione carico.
- Sì, vabbè, tutte scuse. Molla l'osso e pussa via!
- Cattivo!

Lo ripeto: chi ha dei pupi in casa è confortato che il tempo farà il suo corso, che cresceranno e prima o poi, un giorno mooolto lontano, se ne usciranno per il mondo.
Lui no, non ci spero nemmeno: se non è cresciuto in 622 anni non crescerà mai più. Me lo dovrò tenere così com'è.
Almeno è uno solo... Non ce la farei a vivere come Fernando Pessoa, con una folla di personalità che si spintonano nella mente.
E tutte dedite alla poesia.
Perché Pessoa fu soprattutto poeta, poeta di mille voci e quasi mai della sua.
Creò una serie di personaggi, quattro i principali, ad ognuno dei quali affidò una biografia, una precisa personalità, una poetica e uno stile definito.
Gli scritti di questi "poeti" contenuti nella mente di Pessoa fecero, da soli, tutta la cultura portoghese dei primi del Novecento.
Che un artista diviso in una folla di eteronimi si chiami Pessoa (in portoghese, persona) è qualcosa che sa, essa stessa, di amara beffa pirandelliana.
Dissociazioni del sé e scissioni dell'io, sì, ma geniali.
E litigiosi: Alberto Caeiro sciveva una nuova raccolta di poesie? Su una rivista letteraria appariva la stroncatura spietata di Ricardo Reis, pure suo discepolo.
E invadenti: si sa che la relazione di Fernando con Ophélia Queiroz fu osteggiata in tutti i modi da Álvaro de Campos, che era geloso di lei.
Quando nel 1935 la cirrosi epatica si portò via Fernando Pessoa, quello stesso giorno sparì gran parte dell'ambiente poetico portoghese del tempo.
Morì lasciando un intero baule di scritti inediti da dove fanno capolino, secondo il compianto Tabucchi che ne studiò l'opera, almeno ventiquattro diverse personalità...

Ma almeno gli eteronimi di Pessoa scrivevano, e pure bene, grazie alla capacità del loro ospite don Fernando.
Questo, invece, che fa? Assaggia di continuo, propone inauditi accostamenti, spinge al morso sconsiderato.
Insomma: rompe anche un po' gli zebbedei, soprattutto quando vado a fare la spesa o quando ci m'accingo a cucinare.
Ma soprattutto quando provo qualcosa per me nuovo, che non avevo cucinato mai prima.
Allora è insopportabile, mette sempre bocca, infila la zampa negli intingoli e, ovvio, dice sempre la sua, proponendo varianti che per decenza mi costringo sempre a censurare.
Quando me andrò io, tra 122 anni esatti, lascerò un baule pieno di ricette inedite, ma rimaneggaite dalla zampaccia del demone che mi vive dentro, e che si finge vero.

Vellutata di lupini e carote
Dosi a persona:
100 g   carote
100 g   lupini
1 cucchiaio di tahine
1 cucchiaio di fecola, o di farina di riso
sale e pepe q.b.
brodo vegetale q.b. o, nella versione porca del demoniaccio, 250 ml di besciamella.
Un utile compromesso sarebbe una pesudo besciamella dietetica composta dall'acqua di cottura delle carote, niente sale e un cucchiaio raso di fecola.
Far addensare a fuoco medio e con questa diluire la crema di vedure qualora fosse troppo sostenuta.

Lasciare in ammollo i lupini in acqua che cambieremo spesso, per far perdere loro l'eccessiva salinità.
Quindi sbucciarli e cuocerli per renderli teneri.
A vapore o in acqua ci vorrà almeno da mezz'ora a un'ora; nella pentola a pressione basterà una decina di minuti; al microonde la metà del tempo, rigirandoli di frequente.
Quindi tritarli e unire la tahine.
Lessare le carote, partendo dall'acqua fredda, come si fa per le verdure che crescono sotto terra, quindi anche le patate e altri tuberi; gli ortaggi che si sviluppano all'aria richiedono invece l'acqua bollente.
Tritarle e unirle ai lupini.
Verrà di sicuro una crema bella densa che potrà essere diluita a piacimento con brodo o besciamella.
Pepare, di sicuro, ma salare anche no, vista l'intrinseca salinità dei lupini.

Può essere consumata calda o anche tiepida, e da sola fa un pasto, visto il contenuto proteico dei lupini.
Basterà farla seguire da un frutto...
- Sì, magari dell'ananas cosparso di sciroppo di lampone. Tanto sciroppo...
- Pussa via!

Poesie (di Fernando Pessoa) del giorno

O poeta é um fingidor.
Finge tão completamente
Que chega a fingir que é dor
A dor que deveras sente. 

Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
Che arriva a fingere che è dolore
Il dolore che davvero sente. »
Da Autopsicografia.

Não sou nada.
Nunca serei nada.
Não posso querer ser nada.
À parte isso, tenho em mim todos os sonhos do mundo. 

Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso volere essere niente.
A parte questo, ho in me tutti i sogni del mondo. 
Da "Tabacaria

Oggi ascoltiamo
Dulce Pontes - O Infante
http://www.youtube.com/watch?v=V5hg13UxI7c

sabato 15 giugno 2013

Vellutata zucchine e menta

C'erano una volta due povere zucchine.
Una era una zucchina media, l'altra un po' più piccina. Erano state comprate tanto tanto tempo fa al mercato sotto casa e si erano conosciute nella busta di nylon della spesa, ma ancora non erano state cucinate.
Poverine! Vedevano aprirsi la porta del frigo che le ospitava e uscirne, in tutti gli onori, salsicce di maiale, affettati di varia e sconosciuta natura, e una scamorza.
Anzi, a dire il vero le scamorze erano due, ed erano due sorelle: una affumicata e l'altra no.
Immaginate che arie si potesse dare quella affumicata?
- Io, sono più buona di te! - Diceva alla sorella con un acre senso di superiorità - Guarda la mia pelle com'è abbronzata! Tu rispetto a me sembri una mozzarella da discount di terza categoria!
- Ma se io sono la preferita quando lui deve preparare la focaccia scamorza e bottarga!
- Sì, ma io ho più utilizzi, e poi sono più amata di te! Quante volte l'ho visto aprire il frigo in preda ad un raptus alimentare e, in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti, aprire con foga lussuriosa la mia confezione e prendermi a morsi proprio davanti alle verdure dell'ultimo ripiano. Così, senza alcun ritegno!
- Smorfiosa! - Pensava la sorella meno fortunata, e girava l'etichetta dall'altra parte pur di non vederla in tutta la sua tracotante sicumera. Quant'era antipatica! Se almeno lui non ne avesse comprata più!
Un giorno, però, uno di quei giorni in cui si preparavano cene per più persone, entrambe le sorelle vennero tirate fuori dal frigo e subito affettate sul tagliere, così, senza cerimonie.
Serviva un ripieno per dei calzoni al formaggio e chi, meglio di loro, poteva fungere all'uopo?
Le povere zucchine languivano da giorni e già sentivano gli acciacchi dell'età.
Si sa, le zucchine invecchiano presto, non sono mica animate da una lunga e quasi perenne giovinezza come l'aglio, le cipolle e gli esseri umani.
Stavano ogni giorno perdendo le forze, cioè le loro vitamine più importanti, e presto di loro sarebbe rimasto solo un ammasso mucillagginoso di materia inerte e mai più utilizzabile, neppure come mangime per i polli.
Stavano per perdere tutte le speranze, ormai si parlavano tra loro con un fil di voce, che già nelle zucchine è alquanto flebile.
- Che ne sarà di noi... - Diceva una, sconsolata - Finiremo nella discarica senza aver visto nemmeno la gaia turtuosità di un condotto digerente!
- Non dire così, dài! - Faceva l'altra, più ottimista della sua amica - Vedrai che una di queste sere lui verrà e ci riserverà una sorpresa senza precedenti!
- Ah, se solo fosse vero! - Le rispondeva la prima sull'orlo del collasso clorofilliano - Ma, sai, sto davvero perdendo le speranze... Credo che passeremo direttamente nel secchio dell'immondizia senza veder neppure una padella...

Un giorno, però, quando stavano già per perdere ogni ragionevole speranza, lui aprì il frigo e si accorse della loro presenza, ma solo perché finora era stata coperta da una grossa confezione di petti di pollo formato famiglia, di cui si cibava da giorni cucinandoli in tutte le maniere.
- To'... Due zucchine! E che ci fanno qui?
Per lui sembrava già un fatto trascendentale la loro sola presenza in frigo.
Figuriamoci! S'era persino dimenticato d'averle comprate con tanta passione in uno dei suoi rari momenti di buone intenzioni culinarie.
Le guardò per un paio di minuti. La luce del frigo nel frattempo si spense, e lui si riscosse come da una riddaa di pensieri che gli tormentavano l'animo.
Semplicemente, non sapeva come cuciniarsele.

Allora accese il computer, aprì il navigatore e iniziò a viaggiare sulla Rete in cerca d'ispirazione.
Viaggiò per paesi lontani, dove le zucchine si sposano coi lamponi.
Viaggiò per paesi fin troppo vicini, in cui le zucchine si friggono in una pastella che a contatto dell'olio diventa dorata e croccante.
Viaggiò per paesi dove le zucchine, note per il loro sapore discreto si accompagnavano solo a pesci di varie fogge.
Alcuni dicevano che le povere zucchine non sapevano di nulla, altri, avvolti in nubi di oscuro e ingiusto pregiudizio, addirittura dicevano che facessero venir freddo solo a mangiarle...
- Povere noi! - Diceva la più pessimista, che già si vedeva frullata giù per il secchione assieme alle altre  immondizie - Faremo una brutta brutta fine!...
E invece, quando già stavano perdendo l'ultima goccia di clorofilla che le aveva animate finora, lui, guardò oltre lo schermo e disse: "Farò a modo mio!"
E così fece.

Vellutata zucchine e menta
(per due persone: tu e chi ascolterà questa fiaba)
500 g   zucchine (circa due di media grandezza)
80 g     cipolla (una medio-piccola)
2 tazze di brodo vegetale
una manciata di foglie di menta fresca (circa 5-7g, suppergiù)
olio evo e sale q.b.
1 vasetto di yogurt da 150 g (facoltativo)

In una grossa pentola lui fece riscaldare l'olio e poi vi tuffò le zucchine che aveva tagliato a dadini.
Poverine! Erano così sfinite che non sentirono nessun dolore, per loro fortuna....
Poi aggiunse la cipolla, anch'essa tagliata a fettine.
Questa, a differenza delle zucchine, era ancora in buona salute e cosciente, e fece un chiasso indicibile mentre veniva affettata.
Per foruna la sentirono solo le foglie della salvia che sonnecchiava in balcone...
Lui fece insaporire le verdure per qualche minuto, poi vi aggiunse la menta, ben lavata e sminuzzata, e il brodo vegetale che, barando, aveva preparato con la polvere granulare.
Era un disonesto, lo sapevano tutti...
Fece cuocere per una decina di minuti a fuoco medio le verdure finché la carne spossata delle zucchine divenne cedevole e saporita.
Quindi con un frullatore ad immersione ridusse tutto il contenuto della pentola in una crema liscia ed omogenea. Ci vollero solo pochi minuti.
Aggiustò di sale, che non gli bastava davvero mai, vi grattò del pepe macinato al momento e assaggiò...
- Mh! Bbona! - Disse con lo sguardo perso in chissà quali pensieri.
Dispose la crema nelle scodelle, vi immerse in ognuna di esse metà dello yogurt, e diede una sommaria girata, solo per lasciare il bel verde delle zucchine fare la loro bella ultima figura.
In un impeto di commozione vi aggiunse anche del pane in cassetta che aveva fatto a dadini ed abbrustolito in una padella antiaderente.
Era davvero soddisfatto di se stesso e quando lo portò in tavola fece al piatto anche una bella foto:


Con soddisfazione si portò alle labbra un cuchiaio di quella verde crema e pensò, per la prima volta in vita sua, quanto erano davvero buone e saporite le zucchine.
Quasi si commosse quando il cucchiaio scavò con alacrità fino all'ultima gocchia della deliziosa crema di zucchine e menta.
Da qualche parte, nella sconfinata distesa del Cosmo Vegetale due zucchine galleggiavano pigramente come in un immenso mare, tenendosi per mano.
Erano felici.