mercoledì 25 marzo 2015

Pastiera di Partenope

La Pastiera fa parte di quelle ricette di cui esistono tante varianti quante le persone che la preparano.
Ognuno ha la “sua” Pastiera, quella di mamma, della nonna o della zia.
E, ovviamente, ognuno è gelosissimo del proprio sapere: non è per cattiveria o inveterato egoismo, spesso è solo la solita dabbenaggine degli incompetenti.
Solo chi è insicuro di sé teme di perdere il proprio “potere” diffondendo ciò che sa. E questo vale tutti i campi, eh?
Solo chi vive la propria passione e il proprio lavoro serenamente non si sente messo in pericolo dalla diffusione del sapere, anche di quello minimo e spicciolo come quello culinario.
È con gioia che riporto la ricetta della sora Ersilia, che la figlia mi ha consegnato in uno splendido foglio scritto a mano, come si faceva una volta quando non esistevano le email o i social network.
Questa è la cucina che mi piace, perché la cucina, cari miei, è la cosa più open source del mondo, anzi la prima cosa davvero open source dell’umanità.

- Che ci metti nello stufato di bisonte, Yrghywill?
- Mah, delle bacche e dei rametti che trovo in pianura, Wunnyllygh. Questi, guarda. Grunuruf li chiama “ginepro”, ma sai come sono questi pitecantropi: devono sempre dare un nome a tutte le cose!
- Uh, dillo a me! Quella, per esempio, sì quella che hai in mano, il mio Tydukyll la chiama “rosmarino”... Ma si può essere più definitivamente cretini?
- Scimmie, sono!
- Uh, quant’è vero, signora mia! Ma fammi andare, va, che ho lasciato il bisonte sul fuoco e non vorrei che mi si bruci. Quella scansafatiche di Vyghuwitz pensa solo a lisciarsi il pelo e non mi aiuta per niente. La possino acciaccà i megadonti!
- Ma figurati, è l’età! Le mie stanno sempre lì a cincischiare. E la caverna è un vero schifo! Mah, ci vediamo presto, sora Yrghywill.
- A domani, sora Wunnyllygh.

Le ricette della Pastiera non riportano, tranne pochissime eccezioni l’origine di questa preparazione.
E ci credo, essendo una ricetta di dominio pubblico s’è talmente diffusa in modo capillare da aver perso l’origine. Sa dove va ma non da dove viene.
Qualcuno, sì, nomina la sirena Partenope come creatrice mitica della ricetta, ma col tono smielatamente agiografico rivolto alle bellezze del Golfo, con tutto un tripudio di: “E che bello ‘o mare, e che bello ‘o sole, e che bello 'o pino, e che bona ‘a frutta. E che bellill’ tutto!”
Insomma, le solite favolette da pro-loco molto molto italiana.
Diciamo che ci sono andati vicino, ma hanno perso il fulcro della storia.
La Pastiera, infatti non è nata (solo) per onorare i prodotti della Campania Felix, ma per...

La sirena Partenope era disperata. Troppe, troppe voci sul suo conto, sui suoi comportamenti troppo disinvolti con i tritoni e – non sia mai! – con gli umani.
Avevano iniziato le altre a dipingerla come un po’ sbarazzina, una che mette la coda dappertutto...
- ‘Na zoccola, insomma!
- Leppagorre, ma come parli? E pure con la cadenza napoletana?
- E vabbuó! Me diverto, e come si dice: “Dove c’è sfizio nun c’è perdenza!”
- Si ma vedi di misurare il linguaggio, per favore. Dunque...
Non erano le voci che s’erano diffuse su di lei, a preoccuparla. “Ognuno, sotto e sopra il mare fa tutto ciò che vuole” recitava un adagio degli abissi.
Quello che più la preoccupava era che le voci s’erano pian piano incancrenite in accuse: quelle che erano solo supposizioni sussurrate tra i coralli adesso sembravano aver assunto la solidità degli scogli. Era dato per scontato che lei fosse...
- ‘Na zoccola, appunto!
- Leppagorre, ancora? Se continui ti faccio una doccia d’anice che te la ricordi finché campi! Nun ‘o tieni scuorno?
- Ue, don Muccà! E nun vi pigliate collera!
- Mo ti piglio a selciate, altro che! Fammi continuare. Insomma...
La povera sirena non sapeva come fare, soprattutto perché rischiava brutto. Vadano gli amorazzi coi tritoni. Quelli, si sa, vivono in acqua ma sono focosi. Ma con gli umani! È proibito. Nessun essere acquatico deve avere alcun tipo di rapporto con loro. Quel tipo di rapporti, poi...
Insomma, a quel punto Partenope rischiava grosso, non tanto per offesa alla morale – che, si sa, sotto il mare è molto fluida – quanto per la trasgressione della Prima Legge degli Esseri Anfibi: “Mai aver commercio con gli Esseri Terrestri”.
Le pene erano molto severe, e il Consiglio poco incline a farsi scappare l’opportunità di mantenere l’ordine, anche a scapito di un’innocente accusata ingiustamente.
Le sirene, come dice ogni mito, non hanno un’anima, e la loro morte è consunsione in spuma senza alcuna redenzione.
Non poteva finire così, ma se fosse tornata nelle Grotte l’avrebbero catturata senza darle modo di difendersi. Come poteva dimostrare di non essere...
- ‘Na zoccola? Eh, chist’ è nu ‘uaio!
- Leppagorre, smettila! Ti chiudo in una lampada e ti spedisco laggiù, tra i Due Fiumi, a portare un po’ di scompiglio tra quei buzzurri. Almeno avresti un’utilità sociale.
- Ma allà la tengono ‘a porchett’?
- Ne dubito fortemente, sai.
- Allora me sto cà, cittu cittu...
- Era ora. Dunque...
... la povera sirena calunniata non sapeva come dimostrare di essere ancora degna di far parte della sua comunità. Forse se avesse potuto dimostrare che non era vero che s’intratteneva con gli umani...
Ma lei stessa non poteva fingere che si divertiva a seguire di notte le lampare e cantare canzoni d’amore ai marinai, che spalancavano le bocche per la sorpresa facendo cadere in acqua le cicche. Lei rideva di gusto, li salutava e tornava nel fondo mostrando la sua bella coda d’argento.
Forse poteva dimostrare in qualche modo che non faceva niente di male. E ne era sinceramente convinta. Ma per dimostrarlo al Consiglio avrebbe dovuto provare che quei contatti non erano deleteri, che dagli incontri con gli umani poteva anche nascere qualcosa di buono, qualcosa che gli esseri dell’acqua avrebbero potuto apprezzare.
Si trascinò fino a riva e, seduta sullo scoglio, con la luna che le faceva luccicare i capelli, si mise a singhiozzare. Era disperata. Nessuno poteva aiutarla, nessuno...
Quando Nunzia intravide nel buio la sagoma quasi trasalì. Si muoveva furtiva perché s’era allontanata da casa per incontrare il suo amato Salvatore, solo per qualche minuto, e non voleva che sua madre se ne accorgesse.
Ma il pianto di quell’essere le strinse così forte il cuore che non poté non avvicinarsi e chiederle cosa fosse accaduto. Appena vide che quella non era una ragazza come lei ma qualcosa di alieno dagli esseri umani, rimase impietrita. Partenope non s’era neppure accorta della sua presenza, e si sfogava piangendo forte, sicura che nessuno là sotto o qui fuori potesse sentirla.
La mano di Nunzia le toccò una spalla e le poche parole che la ragazza riuscì a dire furono una carezza che la sirena non aveva potuto avere da tanto, tanto tempo. Gli umani, così effimeri, così superficiali, così vulnerabili... così unici...
Le due si guardarono. Una muta comprensione passò da occhi pieni di lacrime a quelli neri neri, e una corrente di empatia calda e rassicurante le accarezzò nel cuore. La sirena raccontò a Nunzia le sue ambasce, le spiegò che doveva trovare un modo per convincere gli esseri dell’acqua che gli umani non erano un pericolo, o peggio ancora tempo perso.
Qualcosa che li facesse ricredere, che seminasse in loro la fiducia e desse loro modo di aprirsi e di comprendere che gli anche umani avevano qualcosa di buono da dare.
Nunzia restò un attimo pensierosa. Cosa poteva fare lei? Cosa sapeva fare?
Cucinava benissimo, questo sì, e aiutava il fratello in pasticceria. Dopo l’incidente del padre era lui che aveva preso in mano l’attività di famiglia, e lei faceva come poteva la sua parte.
E se avessero potuto offrire agli esseri del profondo qualcosa di buono, qualcosa che avrebbe fatto nascere sulle loro labbra un sorriso di soddisfazione?
Cosa c’è di meglio in questi casi se non di un buon dolce?
Ci voleva qualcosa di speciale, di nuovo e nato per quell’occasione così particolare, che ricordasse agli esseri dell’acqua le cose buone della Terra: il grano e lo zucchero dalle piante, il burro e le uova dagli animali, tutte quelle cose che “su”, da lei, erano usuali ma che in quel mondo non erano conosciute e apprezzate.
Ci voleva un dolce nuovo, ma cosa?
Disse alla sirena di stare tranquilla e che l’avrebbe aiutata lei, doveva solo consigliarsi con un paio d’amiche fidate per capire cosa fare e, soprattutto, come farlo.
Non erano gente ricca, i suoi, e tantomeno le sue amiche: ci si arrangiava come si poteva, con le cose che si avevano a disposizione in quel momento eppure, magicamente, alla fine veniva sempre fuori qualcosa di buono.
Anna ed Ersilia furono contente di poterle dare una mano, e giurarono di mantenere il segreto con tutti. Era una faccenda tra donne, e così seria che nessuno avrebbe dovuto sospettare nulla.
Anna preparò una pasta frolla, e siccome non aveva lo strutto usò il burro, e anche poco, rispetto a come andava fatto.
“E vabbuò, vorrà dire che sarà una frolla povariella!” – Disse tra sé e sé.
Ersilia si industriò a preparare il ripieno: aveva della ricotta ma non era molta. S’era dovuta limitare, o i suoi si sarebbero accorti che l’aveva sottratta senza dire nulla, e per fare cosa, poi?...
Cosa ci mettiamo, cosa ci mettiamo? Si chiesero in coro le tre ragazze.,
Qualcosa che rappresentasse la Terra, e cosa più del grano poteva fare al caso loro?
Misero a cuocere dei chicchi di grano per renderli morbidi, li unirono alla ricotta, alle uova e allo zucchero, ed Ersilia ebbe l’idea di mettere anche l’aroma dei fiori d’arancio.
“I fiori, ecco cos’altro non hanno sotto l’acqua!” – Disse ridendo.
E con questo pastone riempirono i gusci di pasta frolla “povariella”.
Nunzia portò i dolci in pasticceria, quando i forni stavano ancora raffreddandosi, e fece cuocere le torte al calore dolce del fuoco che s’andava spegnendo.
Dopo un’ora circa erano tutte a bocca aperta per lo stupore: un profumo dolce e invitante stava riempiendo l’aria. Se non si fossero sbrigate qualcuno se ne sarebbe accorto amndando all'aria il loro piano.
Partenope, dal canto suo, aveva radunato i tre membri più anziani del Consiglio e li aveva convinti ad emergere sullo scoglio Secco per vedere coi loro occhi cosa la sirena aveva accennato in modo così circoscritto e misterioso.
Quando emersero dall’acqua sentirono nell’aria un profumo incredibilmente dolce e carezzevole.
Uno di loro sorrise sotto i baffi.
Le tre ragazze s’erano avvicinate alla riva e avevano portato le tre torte su dei bei vassoi lucidi, che la luna faceva splendere, e li porsero alla sirena.
Partenope prese le torte e accennando un sorriso le diede ai tre esseri dell’acqua, ancora sorpresi di vedere delle cose così insolite e così invitanti: “Ecco cosa sanno fare gli umani. Ecco cosa hanno fatto per voi”.
Il secondo vecchio sorrise mentre una fetta di torta gli riempiva le narici dei profumi della Terra.
“Sono esseri imperfetti, deboli, incostanti. Però sanno fare anche queste cose” – Disse la sirena, suadente come non mai, con gli occhi splendenti di luna.
Il terzo vecchio sorrise apertamente dopo il primo morso.
Ma non era detto, magari la stavano tenendo sulle corde come un accordo d’arpa.
Magari non avrebbero capito, non l’avrebbero perdonata e l’avrebbero punita severamente.
I tre finirono in pochi minuti le Pastiere, e rimasero senza saper pronunciare parola a guardare la sirena, che tremava un po’ all’idea del suo destino.
Poi le sorrisero. Avevano capito! Avevano perdonato!
Guardarono le tre ragazze, che avevano seguito la scena impietrite e sorrisero anche a loro.
Poi, voltando le spalle, come era loro abitudine, e si rituffarono in mare.
Era fatta.
Era salva!
Le ragazze e la sirena rimasero a guardarsi negli occhi. Le parole non servivano.
Quello era un addio o un arrivederci? Avrebbero rincontrato la bella Partenope?
Quando questa alzò una mano per salutarle e poi si voltò per tornare al suo mondo sentirono, tutte e tre, una stretta al cuore.
I loro occhi luccicavano sotto la luna.

Pastiera di Partenope, della sora Ersilia.
La ricetta è, come tutte, per due dosi. Le Pastiere, infatti, a differenza delle rose vanno sempre pari...

Frolla "povariella"
600 g    farina
150 g    burro
300 g    zucchero
3           uova
la buccia grattugiata di un limone
1/2 bustina di lievito chimico
Preparare la frolla nel solito modo, sabbiando farina e burro, aggiungendo lo zucchero e le uova e amalgamando senza lavorare troppo.
Sarebbe meglio usare prima due uova intere e un tuorlo e poi, qualora l'impasto risultasse troppo secco, aggiungere il rimanente albume.
Far riposare in frigo per almeno mezz'ora.

Per il composto di grano
600 g    grano precotto
300 ml    latte
30 g    burro
la buccia grattugiata di mezzo limone e di mezza arancia
Portare all'ebollizione a fuoco dolce il composto, sempre mescolando per far assorbire bene al grano il latte. Cuocere una decina di minuti e quindi lasciar raffreddare completamente.

Per il composto di ricotta.
700 g    ricotta
600 g    zucchero
7          uova
1 bustina di vaniglina
Tre, quattro cucchiai di aroma di fior d'arancio.
Lavorare a crema la ricotta con lo zucchero, unire le uova e gli aromi quindi mescolare bene con una frusta.
Unire al composto di ricotta il grano ormai freddo e amalgamare con la frusta.
Qui c'è chi preferisce frullare il tutto per son sentire sotto i denti la consistenza dei chicchi di grano cotto.
Secondo me il grano deve sentirsi, o il senso della Pastiera va perduto...

Stendere 2/3 dell'impasto e ricavare due sfoglie con cui foderare il fondo e le pareti degli stampi.
Bucherellare il fondo della frolla e versare il ripieno fino all'orlo.
Con la pasta rimanente ricavare delle strisce con cui decorare a losanghe la superficie delle Pastiere.
Forno a 160° per almeno almeno un'ora.
Per effetto delle uova il ripieno si gonfia a dismisura ma poi, raffreddandosi riprenderà dimensioni umane - O sireniche, a scelta.


Ora capisco perché si raccomanda l'uso di uno stampo rigido.
Sono troppo innamorato dei miei fidi stampi al silicone da dimenticare che qui si rischia lo sfralloppamento, come anche per la Torta della Nonna (a seguire...)
Quindi, stampi rigidi, a cerniera, magari, e via.

E se - E sottolineo se - dovessero avanzare degli ingredienti - Del tipo usare tutti i 720 g del barattolo di grano, per esempio... - allora con poca frolla rimasta si possono comporre dei tortini, dei Pastierini: un disco di frolla sul fondo e il composto per due, tre cm. Stampini da muffin in silicone o carta (supportati sempre da base metallica, visto il ripieno liquido) e cuocere 45 minuti almeno a 160°.


E quelli in cima? Sembrano quasi... sì, sì, sono proprio codine di sirene.

- Insomma, questi sono dolci di Pasqua.
- Eh, sì. Sai, il grano che è fertilità, le uova che sono nascita, e tutto porta alla primavera, allo sbocciare della vita, allo spuntare di nuovi germogli...
- Anche io mi sento tutto nuovo e rinnovato:


- Pussa via, gattaccio malefico!

Detto napoletano del giorno
L'ammore fa passà 'o tiempo e 'o tiempo fa passà l'ammore.


Oggi ascoltiamo
Almamegretta - Sanacore
https://www.youtube.com/watch?v=3dNRByKH-_o

sabato 14 marzo 2015

Blin russe di grano saraceno

- Allora, ti è arrivata la cartolina?
- Quale? E che novità, Leppagorre mio, adesso scrivi anche cartoline? No, comunque.
- Guarda bene. Eccola... stava in mezzo a queste bollette e pubblicità varie. Nemmeno ti sei degnato di guardarla!
- Figurati, ce l'hai messa tu adesso, nemmeno ha il timbro. Sei sempre il solito bugiardone.
- Non è vero!
- No, eh?... Però!


- Che fico, eh?
- Ma come parli?
- Sono o no un bonazzo? Sembro Sergej Bezrukov (1)?
- Pari pari. Preciso e spiccicato. Soprattutto per i baffi...
- Visto?
- Insomma sei andato a trovare il tuo amico di bisbocce Begemot(2)?


 - Sì, ma non sai che tipo. Ora, io non sono pettegolo...
- No, certo, come no.
- ... ma avresti dovuto vederlo: ogni due per tre mandava giù aringhe, mandarini, cioccolato! Qualsiasi cosa gli capitasse a tiro. E vodka, ovvio. Come se piovesse.
- E meno male che ora si trova in epoca postsovietica, sennó si sarebbe povuto rifornire solo ai magazzini GUM.
- Figurarsi. E poi è dispettoso. Con gli umani, intendo.
- Lui, eh?
- Pensa che molte persone dicono che in via Tverskaja, proprio in centro, due volte al mese appaia un enorme gatto nero che ha anche il potere di camminare attraverso i muri. Ovvio che l'abbiano nominato Begemot, senza sapere che è lui, proprio lui!
- Va bene, va... Che ne dici di cenare?
- Sono domande da farsi a un povero gattodemone affamato?
- Facciamo le blin (3), in onore del tuo viaggio e del tuo amico?
- È fatta!

Come dice Gianguido Breddo in un suo articolo "la blin sta alla Russia come la pizza sta all'Italia".
È una preparazione antica, nata in epoca pagana come cibo rituale per festeggiare l'arrivo della primavera.
La sua forma rotonda e dorata infatti ricorda il sole che scioglie le nevi del lungo inverno russo.
Poi con la cristianità la festa è passata al carnevale, e ogni famiglia ne preparava come e quante ne poteva, lasciando la prima alla finestra, o comunque dedicandola alle persone care e scomparse.
E per favore, non chiamatele crêpe: sono tutt'altra cosa.
Primo perché l'impasto ha bisogno di lievitare, il che le rende più soffici, poi perché - almeno nella versione salata - prevedono l'uso di grano saraceno.
Si consumano con panna acida (la smetana, che oramai si trova anche da qui noi) e s'accompagnano con caviale, salmone affumicato, uova di salmone o anche aringhe affumicate.
Si mette una cucchiaiata di smetana, poi il ripieno e quindi si arrotola.
Nella versione dolce si usa la marmellata o la ricotta. 

Blin russe di grano saraceno
350 g    farina 00
150 g    farina di grano saraceno
20 g      lievito di birra
700 ml  latte
1 tazza di panna acida (o anche un vasetto di yogurt bianco intero)
3          uova
50 g     burro
15 g     zucchero
1 pizzico di sale
In una tazza di latte tiepido sciogliere il lievito.
Unire poca farina e lasciare lievitare per 1 ora in un luogo lontano da correnti d'aria.
Aggiungere al lievitino il resto del latte, lo zucchero, la panna acida (o lo yogurt) e il burro fuso.
Unire i tuorli al composto, quindi farina di grano saraceno, e mescolare delicatamente.
Montare a neve gli albumi e unirli con delicatezza.
Scaldare una padella antiaderenti da 20 cm e ungerla leggermente.
Versare un mestolo scarso del composto e cuocere su due lati, girando la blin con una palettina di legno.


Come per le crêpe la prima non verrà mai bene, ma poi...
- Panza mia fatte capanna.
- Appunto.

 
Oltre alle uova di lompo (non sono Leppagorre, io, non mento: chi potrebbe permettersi il caviale?) ho anche preparato dei funghi trifolati in aglio e prezzemolo.


Detto russo del giorno
Все дороги ведут в Рим.   
 
Tutte le strade portano a Roma


Oggi ascoltiamo
Сергей Безруков - Я спросил у ясеня


Sergej Bezrukov - Ja sprosil u jasenja
https://www.youtube.com/watch?v=m46wPrwEUEg

NOTE
1) Sergej Bezrukov è un attore russo molto noto, almeno nel suo paese. Ha interpretato un intenso e tenerissimo Gesù nel film "Il Maestro e Margherita"  di Vladimir Bortko. Da vedere, assolutamente.
2) Il gattodemone de "Il Maestro e Margherita" di Mikhail Bulgakov, assistente di Woland, ovvero di Satana. Gran casinista e burlone, come ogni demone che si rispetti. Come? È solo un personaggio? Non esiste nella realtà?... Ma signori, ogni personaggio esiste nella realtà come me e voi, come insegnò il buon Pirandello. Anna Karenina, Don Chisciotte, Amleto esistono eccome! E vivono eterni. Più di me e voi tutti, altro che!
3) Per favore, impariamo a dirlo al singolare come prevede la nostra lingua per le parole d'origine straniera? Le blin, quindi, e mai bliny (dal plurale del russo блины) e mai, proprio mai blinys, all'inglese. O rischiamo di fare figuracce da provinciali, o cadere in pedantismi o ingenui svarioni che prese anche Pasolini, quando declinanò il giapponese haiku in haikai...

venerdì 6 marzo 2015

Crostatine al gorgonzola fraterno

Amo i contrasti.
Le sconfinate pianure piatte e senza alcun rilievo o la distesa oleosa d'un mare senza fine mi mettono da sempre una profonda inquietudine. Sembra di non poter arrivare a niente, perché non c'è nulla che diriga e attiri lo sguardo, nessun posto qualunque dove andare, e il non riuscire a scorgere mai una qualsiasi meta sembra l'epitome della nostra condizione umana.
Sembra di non esserci.
Ma anche tra i sapori preferisco le asperità. Specialmente in questi.
Quello tra dolce e salato, poi. è il contrasto principe.
Il dolce perde la sua stucchevolezza e il salato la sua aggressività, e insieme si ritrovano in un limbo dove non si distingue più né l'uno né laltro.
Solo una distesa infinita dove i sapori corrono a braccetto.
Ogni tanto un lampo dell'uno o dell'altro, come delle aurore boreali sotto cui le papille si fermano con gli occhietti sgranati - sì, ce l'hanno, è scientificamente provato... - in un'estasi stupita.


E poi il dolce e il salato è sempre stato un accostamento tra i più usati, e abusati, fin dall'antichità, come ci racconta Massimo Montanari nei suoi excursus cronogastronomici.
A noi viene subito in mente l'"ardito" prosciutto e melone, che come un duetto d'opera dev'essere composto da due eccelsi elementi, asciutto e sapido il primo e dolce al punto giusto il secondo, sennó l'accostamento si rivela una clamorosa ciofeca che merita solo il buio della pattumiera.
Il totem tra tutti i piatti dolce-salato è però di sicuro il timballo del Gattopardo, quello cioè che nel romanzo di Tomasi di Lampedusa viene servito agli ospiti estasiati dal nobile Salina al culmine del suo pranzo di gala.
La pasta frolla - dolce, manco a dirlo - si sposa amorevolmente coi maccheroni al ragù in un abbraccio voluttuoso e sensuale, dove le note della cannella e delle altre spezie sono minuti coriandoli che avvolgono il tutto e fanno festa.
Come si può non amare un romanzo così crudo e asciutto, così "siciliano" (1), fosse anche solo per la presenza di un piatto così regale?

Ma anche altri accostamenti secondo me andrebbero provati, con la curiosità e la pazienza d'un gatto.
Il mio, che supera due metri e passa e il cui girovita fa provincia, mi spinge sempre con amorevole sollecitudine a provare e riprovare. Non sia mai che si possa trovare qualcosa di accettabile, se non di buono, no?
Chiaro che anche il mio Leppagorre è consapevole di non star lì a creare dalla distesa bianca della volta una Cappella Sistina con tanto di santi sublimi e di "carni generose" (2), e che qui non siamo delle avanguardie culinarie alla Adrià.
Da bravi cialtroni dilettanti sappiamo i nostri limiti e le nostre possibilità.
E ci basta. Per divertirsi, almeno.

Se quindi nel preparare una crostata avete usato una dose troppo abbondante - ops, che sbadati! - di pasta frolla vale la pena di sperimentare e vedere cosa ne può uscir fuori.
Il formaggio cremoso, spalmabile e sapido ma non troppo da essere usato nelle cischecche - quello dell'Amorfraterno tanto per intenderci - si sposa benissimo con questi esperimenti perché basta aggiungere qualche ingrediente in più, stuzzicante quanto basta, per ottenere un buon risultato.

Preparare una frolla, quantità a piacere.
Per una decina di tartellette basterà 200 g di pasta.
In una ciotola mescolare Amorefraterno e gorgonzola piccante ab libitum.
Calcolare per ogni tartelletta un cucchiaino colmo di formaggio morbido e un pezzetto di gorgonzola, ma le dosi di quest'ultimo, come tutte le cose della vita, sono opinabili.
Se si vuole si possono aggiungere dei capperi, lavari asciugati e tritati, o del pepe, anche rosa, o pochissima curcuma.
Insomma a piacer vostro...

Cuocere una ventina di minuti abbondanti, a seconda del vostro forno, e via!


Una ne ho salvata per la foto. Una...

Detto romano del giorno
Cercà Maria pe' Roma

Ossia perdere tempo - Sai quante Marie ce stanno a Roma? Ecco... - , o anche andare in cerca di guai, cercare la lite.


Oggi ascoltiamo
Giuni Russo - Mezzogiorno

https://www.youtube.com/watch?v=XCPEwgjWUfI

NOTE
1) Di quella sicilianità così incantata e disincantata ben descritta da Manlio Sgalambro in "Teoria della Sicilia"
2) Subito mi balza alla mente la sicilianità dell'indimenticabile Giuni Russo, dove in un suo brano inedito usa un'espressione barocca e sensuale, assolata di sensazioni e di profumi, come la sua Sicilia: "La sanguinante nostalgia di un sorriso e di carni generose/ E il lieve gusto del sale che hanno il sesso e le lacrime"...

giovedì 5 febbraio 2015

Amarilda

Nessuno può sapere cosa si nasconde nel cuore di un uomo.
Figuriamoci in quello di un gattodemone.
So solo che sta lì impalato nel suo bel paio di metri abbondanti di trippa e pelo a tenermi il broncio, agitando la coda come solitamente fanno i gatti quando minacciano tempesta.
E questo nonostante faccia regolarmente spesa per tre persone e cucini per quattro. C'è qualcosa che non torna.
D'accordo, non sono stato molto "sul pezzo" - come si dice - provando, creando e assemblando i sapori come piacerebbe a lui.
Però non è una buona ragione per guardarmi sempre torvo e rifarsi le unghie sulle padelle antiaderenti.
I gatti sono dispettosi, si sa.
Figuriamoci un gattodemone...


Cosa si nasconde nel cuore di un uomo?
Spesso non lo sa nemmeno egli stesso.
Voglia di evadere? Di creare? Di raggiungere chissà quale obiettivo?
Le mete, i traguardi, "vincere" sono per chi vede la vita come un percorso a ostacoli, in cui occorre sgomitare per farsi valere, per farsi conoscere e riconoscere e per, appunto, "vincere".
E se a uno interessi solo "essere"?
Vaglielo a spiegare, al mostro, vai, vai...
Che non abbia ancora provato una crostata avocado pompelmo e cioccolato o dei rigatoni lardo e ciliegie è qualcosa che lo rende idrofobo lo so, lo sento.
Ma non sempre si può stare con l'alambicco in mano, no?
Qualche volta sì, e dà molta soddisfazione, specie quando si scopre qualcosa di valido; altre diventa un compito, e come tutti i compiti assume presto un sapore di ripetizione e di abitudine.
Anche la "trasgressione", si sa, a lungo andare viene a noia, rischiando di apparire una diversa forma di conformismo.
Figuriamoci in cucina...

Come farglielo capire?
Come rabbonirlo, prima che mi morda il duodeno da di dentro?
Provo, non so se in bene o in male, con un dolce.
Si sa, ai gattodemoni piacciono mooolto i dolci, e per averne una porzione non si fanno certo pregare, neppure quelli più orgogliosi, quelli più ostici e tenaci.
Neppure lui.

Pasta biscotto
La base è la stessa che ho usato per la torta Mentirosa, che m'ha dato molta soddisfazione.
A volte bisogna giocare le solite carte in un gioco diverso, per poter "vincere"...
Quindi:
2          uova
200 g    zucchero
50 g      burro (o 40 g di olio di semi)
2    cucchiaini di lievito
2    cucchiai di miele
2-3 cucchiai di cacao
farina q.b.
Si miscelano in una bastardella (1) messa a bagnomaria tutti gli ingredienti, tranne la farina e il cacao.
Lavorare con la frusta per amalgamare bene il tutto almeno per 5 minuti, e quando il composto darà gonfio e spumoso si aggiunge il cacao, incorporandolo bene.
Si toglie quindi dal fuoco e si inizia a versare la farina - ne occorrono almeno 3-400 g ca. - lavorando con un cucchiaio fin quando l'impasto sarà abbastanza sodo da poter essere rovesciato - o scatafrombolato, come diciamo nela Val di Susa - sulla spianatoia e steso con il matterello ad un'altezza di 2-3 millimetri.
Con questa sfoglia ricavare dei dischi della grandezza voluta.
Come al solito amo abbondare, specie per gli impasti "biscottosi". Mi piace, oltre al dolce in sé, ritrovarmi un po' di biscotti, da farcire a piacere, ma anche da sgranocchiare così.
Nel mio caso ho ricavato 8 dischi da 14 cm più alcuni - ehm... molti - biscottini.
Per una torta di 20 cm di diametro bastano e avanzano.

 
Mettere sulle teglie rivestite di carta forno i dischi di pasta e cuocere a 180° per circa 5 minuti.
Come ben sappiamo, ogni forno fa storia a sé, quindi consiglio di infornarne prima uno solo e verificare che non si biscotti troppo.
Deve gonfiarsi leggermente, poi cuocere rimamendo morbido, e una volta sfornato si asciugherà un po' restando però cedevole.
Far raffreddare su una gratella i dischi e procedere alla preparazione della farcia.

Farcia
400 g      ricotta
250 ml    panna
50 g        zucchero
Amarene Fabbri q.b. (3)
Lavorare a crema la ricotta con lo zucchero, unirvi un paio di cucchiai di sciroppo delle amarene, quindi unire la panna montata, con delicatezza dal basso verso l'alto.

Prepariamo quindi il dolce.
Si parte da un disco base che si spennella con poco sciroppo d'amarena diluito in altrettanta acqua, quindi si spalma una generosa bicucchiaiata di farcia, si tempesta di amarene spezzettate e si procede col disco seguente fino all'ultimo, che non andrà farcito.
Spalmare la farcia anche sui bordi aiutandosi con la marisa (4).
Mettere in frigo e preparare la decorazione.
Ritagliare un foglio d'acetato della misura dei dischi di biscotto, quindi spennellarlo con del cioccolato fuso.
Far rapprendere un minuto in frigo, quindi passare un secondo strato di cioccolato.
Circondare la torta con l'abbraccio cioccolatoso ancora morbido e far rapprendere in frigo.
Dopo una decina di minuti si potrà togliere con delicatezza la camicia di forza d'acetato dal girotorta.

E 'n coppa, che ci mettiamo?
Qualcosa di "nuovo", almeno per me.

Crema al burro meringata
Anche nota come "Marshmallows cream" per la sua consistenza soffice e pannosa.

E subdolamente zuccherina, manco a dirlo.
60 g      albume
140 g    zucchero semolato
150 g    burro a temperatura ambiente
35 g      acqua
In un pentolino portare acqua e zucchero alla temperatura di 121°.
Nel frattempo iniziare a montare l'albume e quando lo sciroppo ha raggiunto la temperatura indicata versarlo a filo sugli albumi continuando a montare a velocità minima per almeno altri 5', fino al raffreddamento della crema. Aggiungere quindi il burro a pezzetti, montare ancora un'altra decina di minuti. Ne risulterà una crema soffice e allo stesso tempo ferma.

Se resisterete al desiderio di farvene cospargere tutto il corpo da un massaggiatore turco prendete una sac-a-poche e decorarvi la superficie dell'Amarilda, che aspetta sul tavolo nervosa, tutta in un trillare di amarene.


Ovvio che qualche amarena sciroppata potrà decorare la superficie di Amarilda.
Che Amarilda sarebbe, sennó?


Oh, che disdetta, è avanza un po' di Crema al burro meringata...
A cosa servono allora i biscottini preparati in precedenza?
Bisogna essere sempre previdenti, no?

Pace fatta?
Non lo so. So solo che non parla, si lecca le vibrisse da cui colano grumi di meringa burrosa e mi guarda.
Sereno.


Pace fatta.
Le padelle sono salve. Per ora.

Detto romano del giorno
Er libbro der perché sta sotto ar culo der Pasquino.
Si diceva ai bambini troppo curiosi, e agli adulti troppo imprudenti...
Pasquino, vicino Piazza Navona, è una delle tre "statue parlanti", alle quali in epoca papalina venivano attribuiti sonetti e versi di satira feroce, detti appunto "pasquinate".
La mattina il popolo, almeno chi sapeva leggere, vedeva spesso appesi dei foglietti che prendevano in giro il potente di turno. Almeno finché arrivavano le guardie...
Al ruolo di Pasquino nella Roma dell'epoca Luigi Magni ha dedicato due film, "Nell'anno del Signore" e "La notte di Pasquino", entrambi interpretati da un magistrale Nino Manfredi
Spesso alle satire di Pasquino "rispondevano" le altre "statue parlanti": Madama Lucrezia e Marforio, di poco lontani.
Con l'avvento della modernità e la fine dello stato papalino la statua ha perso la sua funzione di "voce del popolo", per avere però un guizzo di genialità nel 1938, con la visita a Roma di Hitler.
Così commentò la cosa Pasquino:

Povera Roma mia de travertino
te sei vestita tutta de cartone
pe' fatte rimira' da 'n imbianchino
venuto da padrone!

Oggi ascoltiamo
Patrick Doyle - Sigh No More Ladies
https://www.youtube.com/watch?v=boNnrv0CGzU

NOTE
1) Come direbbe Alessandro Fullin, "un recipiente per sbattere gli albumi o un'amica poco fidata".
2) Le dosi del biscotto sono molto indicative, visto che la ricetta nasce per una torta rettangolare.
3) Come già ho detto in passato non amo affatto citare la marca dei prodotti che uso, ma in casi come questo non ci sono scelte possibili: l'amarena sciroppata è solo quella Fabbri, checché se ne dica.
4) Ovvero la spatola siliconata... Chissà, e se questo nome fosse nato per associazione con qualche Marisa ben farcita di polimeri e siliconidi? Mah.

sabato 13 dicembre 2014

Koresh, lo stufato sumerico

- Insomma, Leppagorre, no, no e no! Non voglio mettermi a far cose poco chiare o disoneste solo per la tua curiosità!
- Guarda che non c’è niente di male, sai? Abbiamo visto quell’oggetto, nessuno se ne curava da anni, nessuno ne avrebbe mai sentito la mancanza, e invece a noi serve!
- A noi, e perché? Io non conosco la lingua in cui è scritto! E quel poveraccio del libraio adesso ha un volume in meno...
- Non è un volume, è un quaderno d’appunti. Che nessuno gli avrebbe mai comprato, mentre a noi serve.
- A noi serve, dici? Ma allora avremmo potuto comprarlo noi, no? Ragiona...
- Sì, certo, come no! Hai visto il prezzo scritto a matita sulla quarta di copertina? Solo perché è di quasi due secoli fa costa il triplo d’un tuo stipendio. E nessuno, ti ripeto, nessuno, ne sentirà affatto la mancanza.
- Dici?...
- Fidati.
- È questo il punto...


- Io non ci capisco niente. C'è una parte in inglese, e va bene, ma sono solo indicazioni di luoghi e strane diciture. È un diario di viaggio forse? E questi segni, poi? Caratteri cuneiformi?
- Proprio loro.
- Ah, e così conosci anche il sumerico? Magari ti ci cantava le ninne nanne tua zia Bastet, vero?
- Beh, no, io non ero ancora nato, ma da quando so leggere mi sono messo a studiare e...
- Tu... proprio tu, con quel muso da luna piena pieno di baffi e peli, ti sei messo a studiare? E cosa ne avresti ricavato dai tuoi studi “matti e disperatissimi”?
- Né matti né disperatissimi, anzi. Dovevo pur prepararmi a capire quello che ci troviamo davanti.
- Ma perché, fammi capire, questa trascrizione cosa riporta? Qualche archivio di derrate alimentari, qualche enumerazione di quante vacche avesse il signore di Ur?
- Non proprio... Vedi questo segno qui?
- Questo che sembra il cinque di spade?
- Poi il cafone sono io, eh?... Sai che vuol dire?
- Se l’avessi saputo mi sarei forse messo a perder tempo con un gattodemone imbroglione, ghiottone e, da oggi, pure ladro?
- Insomma qui dice:
amĝu\ [lu]-ĝu IM /MA\ [NI TA … šu nu-ri-bar-re] 
dgilgameš /IM\ [MA NI TA … šu nu-ri-bar-re] 
e-an-na-ĝu di [kud-de šu nu-ri-bar-re]...
- Ah, interessante... E che dice?
- Come che dice? parla di Gilgameš, il re di Uruk, quello che...
- So chi è Gilgameš. E di che parlerebbe questo testo?
- È semplicemente la versione più antica del testo conosciuto come quello della Sesta Tavoletta...
- Non ti seguo.
- Allora, Gilgameš è re, un re spocchioso che vessa i suoi sudditi i quali, stufi della sua boria si rivolgono agli dèi...
- Che commissionano Enkidu, l’uomo dei boschi...
- Sì, il quale è l’unico che possa stargli alla pari. I due lottano e quando Gilgameš riconosce di non essere onnipotente i due diventano amici e per siglare il loro sodalizio decidono di andare a sconfiggere il temibile Ḫubaba, guardiano della Foresta dei Cedri, così da conquistarsi una fama immortale.
- Sì, lo ricordo, è il punto che i due tornano a Uruk e Ištar, la dea della voluttà cerca di sedurre Gilgameš, che la rifiuta. Capirai, una donna rifiutata può diventare una belva, pensa una divinità sumerica...
- E infatti la stronza va su tutte le furie e va a lamentarsi da An, il padre degli dèi, e non esita a minacciarlo: "Aprirò le porte dell’inferno e libererò i morti, che siederanno assieme ai vivi!"
- Immagino An mentre alza gli occhi al cielo...
- Insomma, Ištar è potente e riesce a convincere gli dèi a liberare il Toro Celeste e aizzarlo verso Gilgameš.
- Ricordo. E il testo dice, pressappoco così:
                 Enkidu lo tenne fermo con le sue due mani,
                 e Gilgameš come un eroico macellaio
                 colpì il Toro Celeste con mano ferma e sicura;
                 egli immerse la tua spada tra le corna e i tendini della nuca.
All’anima!...
- Parliamo di Gilgameš, mica di Scortichini Guido, eh?
- E quindi?
- Quindi, questo testo, ricopiato con tanta passione da un archeologo inglese e andato poi perduto a metà dell’Ottocento, è una versione antica, la più antica di questa tavoletta. Quella che viene chiamata la Sesta Tavoletta. Che è diventata polvere 157 anni fa, precisamente.
- Ah... E tu che ne sai?
- Ho i miei informa-Tori. Celesti. Ah ah ah!
- Cretino! E che dice di nuovo rispetto agli altre versioni della Setsa Tavoletta?
- Questa non è una versione. Questa è l’originale...
- ...
- E qui, guarda qui, c’è scritto cosa successe dopo l’uccisione del Toro Celeste.
- L’incazzatura di Ištar?
- Quella dopo, con tutti i problemi che ne seguirono: la morte del fido Enkidu e le peripezie di Gilgameš verso i confini del mondo per conquistare il segreto dell’immortalità.
- Insomma, non tenermi sulle spine!
- Qui, vedi questi segni?
- Sai che non conosco il sumerico, mi prendi in giro? A me sembra la caduta di una confezione di spilli!
- Allora, qui dice, come già si sapeva:
                 Quando essi ebbero abbattuto il Toro Celeste, essi estrassero
                 il suo cuore,
                 e lo deposero davanti a Šamaš. 
                 Essi indietreggiarono pieni di timore, inginocchiandosi
                 davanti a Šamaš;
                 quindi i due amici si sedettero.
Ma il bello viene dopo! Guarda questi segni:


- Ti ripeto, a me non dicono niente. Non tenermi sulle spine!
E dopo che ebbero offerto il cuore a Šamaš
i due sedettero in silenzio
guardando le ormai inerti
membra del Toro Celeste.
E su di loro, su Gilgameš ed Enkidu
subitanea scese la fame;
e decisero di tagliargli le zampe e cibarsene.
Enkidu aprì la sua bocca e disse,
così parlò a Gilgamesh:
"Amico mio, abbiamo ucciso il temibile Toro Celeste,
abbiamo offerto il suo cuore a Šamaš,
abbiamo seduto in silenzio pieni di timore
davanti a Šamaš;
Vogliamo forse aspettare che cali la notte
senz’alcun cibo toccare?
Guarda le corna del Toro, esse fendevano l’aria;
guarda la coda del Toro, essa frustava il vento;
guarda le zampe del Toro, che facevano tremare la terra.”
E Gilgameš aprì la sua bocca e disse,
così parlò a Enkidu:
"Amico diletto, quel che dici è verità;
abbiamo ucciso il temibile Toro Celeste,
abbiamo offerto il suo cuore a Šamaš,
abbiamo seduto in silenzio pieni di timore
davanti a Šamaš;
E l’immensa fatica della nostra impresa
m’ha fatto venir un certo languorino.”
Così i due amici presero le zampe del temibile Toro Celeste,
le zampe che facevano tremare la terra,
le portarono a Uruk e così parlò Gilgameš:
“Guardate, sudditi: queste sono le zampe del temibile Toro Celeste; 
le zampe che facevano tremare la terra;
Qualcuno di voi sa forse trarne delizioso cibo?”
- E qui, queste righe che seguono... ecco, proprio queste: qui c’è la ricetta!
- La... ricetta? Del... Toro... Celeste?
- No, mica di tutto, solo delle zampe,
                 le zampe che facevano tremare la terra...
- Ho capito, basta!
- Lo sai che queste narrazioni sono piene di ripetizioni, no?
- Sì, ma vai al sodo, per favore. Vuoi darmi a intendere che queste che seguono sono la... ricetta delle zampe del Toro?...
- Forse non capisci. Questa non è “una” ricetta, anche se delle zampe del Toro Celeste. Questa è “la” ricetta. La prima ricetta scritta dalla vostra razza da quand’è comparsa su questo pianeta. Hai capito ora? Ma che fai? Ahó! Sveglia, su! Sveglia, dài! Su, che la dobbiamo rifare!


Certo, non è detto che questa, proprio questa sia la ricetta più antica del mondo, ma è vero che da una serie di tavolette scritte in sumerico siano emerse da oblio secolare una serie di "indicazioni" davvero interessanti.
Ne ha scritto lo storico e orientalista francese Jean Bottéro, che fu il primo traduttore del Codice di Hammurabi (1).
Questa è una ricetta persiana descritta in "Cannella e zafferano" di Lorenza Pliteri (2) e che ho ritrovato anche qui, nello splendido sito "Acquaviva scorre".

Koresh-e fesenjan, lo stufato sumerico
Ovvero: Ossobuco con melagrana, zucca e noci
Per due persone (io, il cialtroscrittore, e un gattodemone cialtrosumerico)
2         ossobuchi di manzo
1         melagrana
1         cipolla
170 g  zucca
100 g  noci (già sgusciate)
1 punta di cannella in polvere
un pizzico di zafferano
olio evo e sale q.b.
Rosolare in una padella la zucca a pezzettoni con poco olio, fino a farla dorare mantenendone però la consistenza.
Sgranare la  melagrana e spremere il succo di 3/4 dei chicchi con uno spremiagrumi o uno schiacciapatate, facendo attenzione a non decorare di carminio le pareti.
Tritare finemente le noci, unirvi il succo di melagrana e aggiungere anche la cannella e lo zafferano.
Affettare finemente la cipolla e farla appassire in un tegame con poco olio, a fuoco bassissimo.
Incidere il bordo degli ossibuchi o praticare dei tagli con le forbici, così da non farli arricciare in cottura.
Unire alla cipolla gli ossobuchi e farli rosolare, quindi unire la zucca e la pastella di noci e melograna e un pizzico di zucchero qualora questa risultasse troppo aspra.
Salare leggermente, coprire il tegame  con un coperchio, abbassare la fiamma al minimo e cuocere per almeno 90 minuti, mescolando la carne ogni tanto e controllando che non si asciughi, nel qual caso aggiungere un paio di cucchiai di acqua calda.
Dopo l'ora e mezza di passione - ci è voluto senz'altro meno a uccidere il Toro Celeste - spegnere e lasciar riposare una decina di minuti coperto.
Disporre la carne sul piatto e cospargerla con i chicchi di melograno tenuti da parte.


Non sembra forse la faccia der poro Enkidu che guarda il suo amato Gilgameš dalle profondità senza ritorno degli Inferi?...

Detto sumerico del giorno
L'uomo, per quanto alto egli sia, non può raggiungere il cielo.

Oggi ascoltiamo 
Nazem El Ghazali - Fog el Nakhal
https://www.youtube.com/watch?v=4dcFvxXV6l8

NOTE
1) Jean Bottéro, "La cucina più antica del mondo" ed. Orme (2013); "Textes Culinaires Mesopotamiens" ed. Eisenbrauns (1995).
2) ed. Ponte alle Grazie (2011. Collana, manco a dirlo: "Il lettore goloso")