sabato 13 dicembre 2014

Koresh, lo stufato sumerico

- Insomma, Leppagorre, no, no e no! Non voglio mettermi a far cose poco chiare o disoneste solo per la tua curiosità!
- Guarda che non c’è niente di male, sai? Abbiamo visto quell’oggetto, nessuno se ne curava da anni, nessuno ne avrebbe mai sentito la mancanza, e invece a noi serve!
- A noi, e perché? Io non conosco la lingua in cui è scritto! E quel poveraccio del libraio adesso ha un volume in meno...
- Non è un volume, è un quaderno d’appunti. Che nessuno gli avrebbe mai comprato, mentre a noi serve.
- A noi serve, dici? Ma allora avremmo potuto comprarlo noi, no? Ragiona...
- Sì, certo, come no! Hai visto il prezzo scritto a matita sulla quarta di copertina? Solo perché è di quasi due secoli fa costa il triplo d’un tuo stipendio. E nessuno, ti ripeto, nessuno, ne sentirà affatto la mancanza.
- Dici?...
- Fidati.
- È questo il punto...


- Io non ci capisco niente. C'è una parte in inglese, e va bene, ma sono solo indicazioni di luoghi e strane diciture. È un diario di viaggio forse? E questi segni, poi? Caratteri cuneiformi?
- Proprio loro.
- Ah, e così conosci anche il sumerico? Magari ti ci cantava le ninne nanne tua zia Bastet, vero?
- Beh, no, io non ero ancora nato, ma da quando so leggere mi sono messo a studiare e...
- Tu... proprio tu, con quel muso da luna piena pieno di baffi e peli, ti sei messo a studiare? E cosa ne avresti ricavato dai tuoi studi “matti e disperatissimi”?
- Né matti né disperatissimi, anzi. Dovevo pur prepararmi a capire quello che ci troviamo davanti.
- Ma perché, fammi capire, questa trascrizione cosa riporta? Qualche archivio di derrate alimentari, qualche enumerazione di quante vacche avesse il signore di Ur?
- Non proprio... Vedi questo segno qui?
- Questo che sembra il cinque di spade?
- Poi il cafone sono io, eh?... Sai che vuol dire?
- Se l’avessi saputo mi sarei forse messo a perder tempo con un gattodemone imbroglione, ghiottone e, da oggi, pure ladro?
- Insomma qui dice:
amĝu\ [lu]-ĝu IM /MA\ [NI TA … šu nu-ri-bar-re] 
dgilgameš /IM\ [MA NI TA … šu nu-ri-bar-re] 
e-an-na-ĝu di [kud-de šu nu-ri-bar-re]...
- Ah, interessante... E che dice?
- Come che dice? parla di Gilgameš, il re di Uruk, quello che...
- So chi è Gilgameš. E di che parlerebbe questo testo?
- È semplicemente la versione più antica del testo conosciuto come quello della Sesta Tavoletta...
- Non ti seguo.
- Allora, Gilgameš è re, un re spocchioso che vessa i suoi sudditi i quali, stufi della sua boria si rivolgono agli dèi...
- Che commissionano Enkidu, l’uomo dei boschi...
- Sì, il quale è l’unico che possa stargli alla pari. I due lottano e quando Gilgameš riconosce di non essere onnipotente i due diventano amici e per siglare il loro sodalizio decidono di andare a sconfiggere il temibile Ḫubaba, guardiano della Foresta dei Cedri, così da conquistarsi una fama immortale.
- Sì, lo ricordo, è il punto che i due tornano a Uruk e Ištar, la dea della voluttà cerca di sedurre Gilgameš, che la rifiuta. Capirai, una donna rifiutata può diventare una belva, pensa una divinità sumerica...
- E infatti la stronza va su tutte le furie e va a lamentarsi da An, il padre degli dèi, e non esita a minacciarlo: "Aprirò le porte dell’inferno e libererò i morti, che siederanno assieme ai vivi!"
- Immagino An mentre alza gli occhi al cielo...
- Insomma, Ištar è potente e riesce a convincere gli dèi a liberare il Toro Celeste e aizzarlo verso Gilgameš.
- Ricordo. E il testo dice, pressappoco così:
                 Enkidu lo tenne fermo con le sue due mani,
                 e Gilgameš come un eroico macellaio
                 colpì il Toro Celeste con mano ferma e sicura;
                 egli immerse la tua spada tra le corna e i tendini della nuca.
All’anima!...
- Parliamo di Gilgameš, mica di Scortichini Guido, eh?
- E quindi?
- Quindi, questo testo, ricopiato con tanta passione da un archeologo inglese e andato poi perduto a metà dell’Ottocento, è una versione antica, la più antica di questa tavoletta. Quella che viene chiamata la Sesta Tavoletta. Che è diventata polvere 157 anni fa, precisamente.
- Ah... E tu che ne sai?
- Ho i miei informa-Tori. Celesti. Ah ah ah!
- Cretino! E che dice di nuovo rispetto agli altre versioni della Setsa Tavoletta?
- Questa non è una versione. Questa è l’originale...
- ...
- E qui, guarda qui, c’è scritto cosa successe dopo l’uccisione del Toro Celeste.
- L’incazzatura di Ištar?
- Quella dopo, con tutti i problemi che ne seguirono: la morte del fido Enkidu e le peripezie di Gilgameš verso i confini del mondo per conquistare il segreto dell’immortalità.
- Insomma, non tenermi sulle spine!
- Qui, vedi questi segni?
- Sai che non conosco il sumerico, mi prendi in giro? A me sembra la caduta di una confezione di spilli!
- Allora, qui dice, come già si sapeva:
                 Quando essi ebbero abbattuto il Toro Celeste, essi estrassero
                 il suo cuore,
                 e lo deposero davanti a Šamaš. 
                 Essi indietreggiarono pieni di timore, inginocchiandosi
                 davanti a Šamaš;
                 quindi i due amici si sedettero.
Ma il bello viene dopo! Guarda questi segni:


- Ti ripeto, a me non dicono niente. Non tenermi sulle spine!
E dopo che ebbero offerto il cuore a Šamaš
i due sedettero in silenzio
guardando le ormai inerti
membra del Toro Celeste.
E su di loro, su Gilgameš ed Enkidu
subitanea scese la fame;
e decisero di tagliargli le zampe e cibarsene.
Enkidu aprì la sua bocca e disse,
così parlò a Gilgamesh:
"Amico mio, abbiamo ucciso il temibile Toro Celeste,
abbiamo offerto il suo cuore a Šamaš,
abbiamo seduto in silenzio pieni di timore
davanti a Šamaš;
Vogliamo forse aspettare che cali la notte
senz’alcun cibo toccare?
Guarda le corna del Toro, esse fendevano l’aria;
guarda la coda del Toro, essa frustava il vento;
guarda le zampe del Toro, che facevano tremare la terra.”
E Gilgameš aprì la sua bocca e disse,
così parlò a Enkidu:
"Amico diletto, quel che dici è verità;
abbiamo ucciso il temibile Toro Celeste,
abbiamo offerto il suo cuore a Šamaš,
abbiamo seduto in silenzio pieni di timore
davanti a Šamaš;
E l’immensa fatica della nostra impresa
m’ha fatto venir un certo languorino.”
Così i due amici presero le zampe del temibile Toro Celeste,
le zampe che facevano tremare la terra,
le portarono a Uruk e così parlò Gilgameš:
“Guardate, sudditi: queste sono le zampe del temibile Toro Celeste; 
le zampe che facevano tremare la terra;
Qualcuno di voi sa forse trarne delizioso cibo?”
- E qui, queste righe che seguono... ecco, proprio queste: qui c’è la ricetta!
- La... ricetta? Del... Toro... Celeste?
- No, mica di tutto, solo delle zampe,
                 le zampe che facevano tremare la terra...
- Ho capito, basta!
- Lo sai che queste narrazioni sono piene di ripetizioni, no?
- Sì, ma vai al sodo, per favore. Vuoi darmi a intendere che queste che seguono sono la... ricetta delle zampe del Toro?...
- Forse non capisci. Questa non è “una” ricetta, anche se delle zampe del Toro Celeste. Questa è “la” ricetta. La prima ricetta scritta dalla vostra razza da quand’è comparsa su questo pianeta. Hai capito ora? Ma che fai? Ahó! Sveglia, su! Sveglia, dài! Su, che la dobbiamo rifare!


Certo, non è detto che questa, proprio questa sia la ricetta più antica del mondo, ma è vero che da una serie di tavolette scritte in sumerico siano emerse da oblio secolare una serie di "indicazioni" davvero interessanti.
Ne ha scritto lo storico e orientalista francese Jean Bottéro, che fu il primo traduttore del Codice di Hammurabi (1).
Questa è una ricetta persiana descritta in "Cannella e zafferano" di Lorenza Pliteri (2) e che ho ritrovato anche qui, nello splendido sito "Acquaviva scorre".

Koresh-e fesenjan, lo stufato sumerico
Ovvero: Ossobuco con melagrana, zucca e noci
Per due persone (io, il cialtroscrittore, e un gattodemone cialtrosumerico)
2         ossobuchi di manzo
1         melagrana
1         cipolla
170 g  zucca
100 g  noci (già sgusciate)
1 punta di cannella in polvere
un pizzico di zafferano
olio evo e sale q.b.
Rosolare in una padella la zucca a pezzettoni con poco olio, fino a farla dorare mantenendone però la consistenza.
Sgranare la  melagrana e spremere il succo di 3/4 dei chicchi con uno spremiagrumi o uno schiacciapatate, facendo attenzione a non decorare di carminio le pareti.
Tritare finemente le noci, unirvi il succo di melagrana e aggiungere anche la cannella e lo zafferano.
Affettare finemente la cipolla e farla appassire in un tegame con poco olio, a fuoco bassissimo.
Incidere il bordo degli ossibuchi o praticare dei tagli con le forbici, così da non farli arricciare in cottura.
Unire alla cipolla gli ossobuchi e farli rosolare, quindi unire la zucca e la pastella di noci e melograna e un pizzico di zucchero qualora questa risultasse troppo aspra.
Salare leggermente, coprire il tegame  con un coperchio, abbassare la fiamma al minimo e cuocere per almeno 90 minuti, mescolando la carne ogni tanto e controllando che non si asciughi, nel qual caso aggiungere un paio di cucchiai di acqua calda.
Dopo l'ora e mezza di passione - ci è voluto senz'altro meno a uccidere il Toro Celeste - spegnere e lasciar riposare una decina di minuti coperto.
Disporre la carne sul piatto e cospargerla con i chicchi di melograno tenuti da parte.


Non sembra forse la faccia der poro Enkidu che guarda il suo amato Gilgameš dalle profondità senza ritorno degli Inferi?...

Detto sumerico del giorno
L'uomo, per quanto alto egli sia, non può raggiungere il cielo.

Oggi ascoltiamo 
Nazem El Ghazali - Fog el Nakhal
https://www.youtube.com/watch?v=4dcFvxXV6l8

NOTE
1) Jean Bottéro, "La cucina più antica del mondo" ed. Orme (2013); "Textes Culinaires Mesopotamiens" ed. Eisenbrauns (1995).
2) ed. Ponte alle Grazie (2011. Collana, manco a dirlo: "Il lettore goloso")

mercoledì 10 dicembre 2014

Rigatoni c'a pajata

Siamo deboli, siamo incongruenti, siamo incostanti nei nostri propositi.
Ci inteneriamo per alcuni fatti e lasciamo che altri ci accadano attorno senza colpo ferire.
Siamo ipocriti, siamo opportunisti, siamo lucidamente o inconsapevolmente indifferenti.
Sopportiamo che accadano cose terribili, e qualche volta le fomentiamo anche coi nostri consumi, ripulendoci poi la coscienza con una disinvoltura che a guardarla da fuori, con lucidità, è raccapricciante.
Siamo abitudinari, siamo pavidi, e spesso inamovibili.
Siamo umani.

M'ero ripromesso di non farlo, lo so, lo so bene.
E non basta dirsi: "Non l'ho fatto mica io..."
Qualcuno lo fa, comunque, e io ne ho approfittato.
Lo so.
Ma una volta, una sola volta almeno, volevo farlo, tanto per scriverlo qui sopra e ricordarmelo in futuro.

La pajata è infatti uno degli alimenti eticamente insostenibili, a mio modo di vedere.
Il consumo di carne in sé, per molti, lo è.
Ed è un tema delicatissimo, che tocca nervi ancora scoperti, abitudini inveterate (e/o invereconde), che solletica la nostra memoria collettiva, quasi ancestrale.
Rinunciare alla carne non è semplice, ammiro chi ha fatto questo passo, e ammetto che ancora non sia in grado di decidermi seriamente a farlo, a dispetto di ogni ragione razionale.
Fino a qualche decennio fa che si consumassero anche le interiora, e ogni tipo d'animale, era giustificato dalle condizioni misere del popolino.
La carne era considerata un lusso, e concedersela era un regalo e un sacrificio che si faceva per la propria famiglia, benché poi tutti conoscessero, anche se non scientificamente, le generose proprietà dei legumi.

Per chi ancora non lo sapesse, la pajata (o, in italiano, pagliata) è la parte dell'intestino tenue del vitellino da latte.
Il caro animaletto non ha ancora iniziato a brucare l'erba, e l'unico nutrimento gli viene dal latte materno, quindi il suo intestino non conterrà altro che chimo, ossia latte predigerito.
Ha torto quindi il marchese del Grillo di Monicelli quando dice a Olimpia che la ghiottoneria che sta mangiando "è proprio merda", ma il marchese era un burlone, si sa, e senz'altro avrà voluto prendersi gioco della bella chanteuse.
Comunque, il cosiddetto "morbo della mucca pazza" ha vietato in tutto il territorio comunitario il commercio di questo prodotto, il che ha lasciato basiti molti romani, molti sardi settentrionali - dove è chiamato zimino, e si fa generalmente arrostito sulla brace - e nell'indifferenza più totale altri 150 milioni d'europei.
E il consumo di alimenti alternativi fa ben sperare che non si debba continuare a perpetrare quello che, a vista di molti, è un vero e proprio crimine.

Comunque è andata, stavolta è andata.
Il peccato - perché questo è - è stato consumato.
Me ne assumo le responsabilità col mio karma, se c'è, e cercherò di rimediare in futuro.
Se scrivo tutto questo non è per supplicare indulgenza, ma per ricordarlo a me stesso.
È o no un diario, un "quasi quaderno di ricette"?...

Rigatoni con la Pajata
Per, vediamo... 5xe/√4.25-8.4/π+φ/2... 4? 3? 2 persone? Forse.
500 g     intestini di vitello (scritto così fà più effetto)
200 g     rigatoni
prezzemolo, aglio
700 g    passata di pomodoro
un bicchiere di vino bianco secco
pecorino romano grattugiato a go-go
olio evo (ma lo strutto è meglio), sale e pepe q.b.

opzionali:
1      cipolla
1 costa di sedano
50 g    pancetta, o meglio guanciale
qualche chiodo di garofano
poco aceto

Operazione preliminare è vestirsi da vecchia popolana romana dell'Ottocento, col sinale e il fazzoletto in testa (ma se si è calvi si può anche saltare questo passaggio), senza la quale accortezza la ricetta riesce solo a metà.
E con la televisione accesa d'accompagno la pajata viene amara, non si sa ancora perché...

Se si ha a disposizione la pajata fresca occorre spellarla, togliere cioè la sottile pellicina che la racchiude e che risulterebbe gommosa alla masticazione.
Tagliarla quindi  a pezzi di 20-25 cm circa e con uno spago da cucina legare le estremità formando delle ciambelline ben chiuse.
Ciò eviterà che il chimo, o er latte come diciamo qui, esca completamente in cottura.
Quest'operazione è necessaria se si ha a disposizione la pajata cruda, meno se la si trova precotta in vaschetta al supermercato.
Ricordo che quando qualche volta ho aiutato mia suocera d'allora - un'ottima cuoca di cucina romanesca, ahimé... - a prepararla, la mia fidanzata se ne fuggiva a gambe levate. Beata ignoranza...
Volendo si può lasciarla qualche minuto su un piatto, spruzzandola con poco aceto.
Tritare la cipolla, il sedano, il prezzemolo e, se si vuole, anche la pancetta (o il guanciale).
Usare a tale scopo il battilondo, il bel tagliere di legno dove le romane d'allora facevano il battuto di guanciale e aromi per le paste o le minestre.
Se possibile utilizzare un recipiente di coccio, ma anche una pentola d'acciaio inox col fondo bello alto è adatta allo scopo.
Lasciar soffriggere l'aglio (uno o due spicchi, interi) in poco olio fino a farlo imbiondire, quindi eliminarlo.
Aggiungere la pajata, sale pepe e, se si preferisce, i chiodi di garofano.
Si fa rosolare e insaporire con sale e pepe, quindi irrorare col vino e farlo evaporare completamente prima di aggiungere il pomodoro.
Aggiungere mezzo litro d'acqua calda.
Lasciare cuocere coperto a fuoco basso fino a ottenere un sugo denso e cremoso.
Se la pajata è fresca almeno un'ora e mezzo o due, se non di più. Se è precotta basta una mezz'oretta.
E se nel frattempo dovesse asciugare troppo aggiungere ovviamente altra acqua calda.
Nel frattempo lessare i rigatoni, scolarli al dente, condirli col sugo e versarvi sopra le ciambelline di pajata e, manco a dirlo, tanto tanto pecorino.


Se poi si sta da soli si possono mangiare anche direttamente nella pentola.


Di rigore la canotta a costine due misure più larga e la barba di due giorni,
Chiedo venia...

Detto romano del giorno
L'asino indove c'è cascato una vorta nun ce casca più.

Oggi ascoltiamo 
The Smiths - Meat Is Murder
https://www.youtube.com/watch?v=xacRTqk5QFM

domenica 7 dicembre 2014

Kranz al papavero

Ah, se non ci fosse Internet!
Sarei perso in un deserto d'ignoranza.
Tante volte mi dico: ma come facevo anni fa - A belli, pochi eh? Mica sono una carampana... - a cercare tutte le informazioni che mi servivano?
I principi di narratologia, i lineamenti di linguistica cartvelica, o semplicemente come si fa una pâté a bombe... Come?
Nelle biblioteche, ovvio. Quindi libri e riviste, quando c'erano. E nient'altro.
Il mondo dell'informazione è cresciuto in maniera così esponenziale da lasciare allibiti, tanto che la vita prima della Rete globale sembra impensabile. Abbiamo più informazioni in un mese di quanto nostro nonno ne avesse in vent'anni.
Ah, come faccio con Internet?
Sono sommerso in un oceano di dati, ai quali assegnare una rilevanza è l'operazione più difficile.
Certo, meglio troppo che niente, si dirà, ma spesso è difficile districarsi nella selva delle informazioni discrepanti, se non spesso divergenti.
Ad esempio, riuscire a farsi un'idea di quello che accade in qualche parte "calda" del mondo non è così facile, a dispetto della quantità di notizie disponibili. Propaganda, rumore di fondo, "troll" in azione, tutto contribuisce a non aiutarci ad avere una visione chiara delle cose.
Figuriamoci poi a cercare delle ricette...
Sembra che la Rete sia nata solo per le chiacchiere tra amanti virtuali e le innumerevoli pagine culinarie.
Come scegliere? Dove scegliere?
I motori di ricerca non aiutano, a volte. Sono ancora goffi, stupidi, si basano sul principio che la domanda più digitata sia effettivamente quella cercata da chiunque...
Se uno, per esempio, inserisce Kranz, non appare questo:


... come sarebbe da aspettarsi chiunque abbia un minimo di senso culinario - e in aggiunta anche un gattodemone nella panza, direi...
Spesso appare in prima battuta questo:


Visto che Kranz, in lingua tedesca è effettivamente "corona".
Oppure può anche accadere cha appaia questo:

Karl Kranz

E allora che fai? Alzi gli occhi al cielo e ti metti di buzzo buono, con santa pazienza a falciare i rami secchi dei dati inutili, a svicolare tra i cul-de-sac informativi, a evitare i tranelli delle false indicazioni.
Fino a riprendere la buona vecchia enciclopedia di casa, tanto vituperata, ma che almeno ha, nero su bianco, una parvenza di certezza.
Scherzi a parte, è stata la necessità di utilizzare la quantità industriale di semi di papavero che il mostro m'ha spinto sconsideratamente a comprare che m'ha potrato a cercare ricette in cui fosse presente questo delizioso quanto insolito - per noi mediterranei, almeno - ingrediente.
E quindi finalmente ci sono arrivato, anche se, devo dire, anche il cartaceo ha le sue falle.
Non è così chiaro e limpido. Bisogna interpretare, anche qui.
L'entropia, tesori cari, si nasconde subdola ovunque...

Kranz al papavero

Per l'impasto
300 g farina
50 g zucchero
30 g burro
20 g lievito di birra
1 uovo
un bicchiere di latte
1 pizzico di sale

Per il ripieno
200 g semi di papavero macinati
75 g uvetta
20 g burro
75 g zucchero
1 cucchiaio di rhum
2 cucchiai di miele
1 bustina di zucchero vanigliato
1/2 cucchiaino di cannella
scorza grattugiata di mezzo limone
1 pizzico di sale
farina q.b

In una terrina mettere la farina e formarvi un incavo al centro.
Sciogliete il lievito nel latte intiepidito con un cucchiaino di zucchero - se usiamo quello disidratao va lasciato riposare per un quarto d'ora, almeno fin quando si formerà un'abbondante schiuma, segno che i fermenti del lievito si sono svegliati... - quindi versate il tutto nella farina.
Impastare bene, quindi far riposare una ventina di minuti, in luogo caldo e coperto (anche nel forno con la sola luce accesa).
Riprendere l'impasto, unire lo zucchero, l'uovo, il burro fuso, una presa di sale e impastare bene gli ingredienti.
Lavorare la pasta finché sarà liscia ed elastica e tenderà a staccarsi dalle pareti del recipiente formando una palla.
Farla quindi lievitare al caldo per 30 minuti.

Per il ripieno mi sono infine convinto: è meglio macinare i semi del papavero, sia per una questione di consistenza (i semini sono divertenti da sgranocchiare ma te li ritrovi dappertutto, soprattutto tra i denti...) sia perché il sapore è nettamente migliore.
Un macinino da caffè servirà egregiamente allo scopo.
Come ben sa chi mi segue, io ho Amanda, il macinino storico di casa...
Ma come, mi si chiederà, non odoreranno di caffè 'sti benedetti semi di papavero?
Be', sì, ma basterà far andare nel macinino un paio di cucchiaini di pangrattato, che pulirà gli ingranaggi dalle scorie di caffè.
Operazione che si potrà ripetere alla fine della nostra ricetta, se vogliamo riutilizzare l'Amanda... ops, il macinino, con altri ingredienti.
Mettete i semi di papavero tritati a bagno in una tazza d'acqua bollente per 5 minuti.
Quando si saranno ammorbiditi scolarli in un telo di cotone e strizzarlo un po' per togliere l'acqua in eccesso.
A parte far ammorbidire anche l'uvetta, in poca acqua tiepida, quindi scolarla e asciugarla con della carta da cucina.
In una ciotola mescolare lo zucchero con lo zucchero vanigliato, una presa di sale, la cannella, il miele, la scorza di il limone grattugiata, il rhum e il burro fuso.
Unite i semi di papavero e l'uvetta.
Stendete la pasta in un rettangolo, non troppo sottile come ho fatto io... - diciamo 30 x 50 cm,


e distribuirvi sopra il composto, formando poi  un rotolo che chiuderemo a ciambella.
Trasferire sulla placca del forno coperta dall'apposita carta o imburrata e infarinata, quindi praticare sulla superficie dei tagli - coltello a lama liscia, per favore... - profondi un paio di centimetri circa, e spennellare d'acqua.


Far lievitare ancora almeno venti minuti, al coperto.
Cuocete a 180° per 20 minuti.

Le tempistiche di lievitazione e di cottura, voglio ripetermi, sono sempre indicative.
Le prime dipendono dalla temperatura ambiente della zona di lavoro, le seconde dal tipo di forno.
È bene dirlo perché non bisogna MAI seguire pedissequamente le ricette d'altri.
MAI.
Questa, per esempio riportava, testualmente: "220° per 40 minuti".
Che, nel mio forno avrebbe significato estrarre un tizzone carbonizzato al vago sentore di papavero.
Mai fidarsi ciecamente delle ricette altrui, ma guardarle sempre con occhio disincantato valutando se siano o meno plausibili e/o fattibili.


Se vogliamo glassare il nostro Kranz - no, non Karl... - mescolate 100 g di zucchero al velo con un cucchiaio di rhum e uno di acqua e con questa glassa spennellate il dolce appena sfornato, lasciandolo raffreddare su una gratella.


Molto meglio, detto tra noi, di una corona di fiori, anche se di rose, o d'un "merluzzetto" teutonico senza arte né parte.
O no?...

Detto tedesco del giorno
Man muss die Feste feiern, wie sie fallen.
(lett. "Si deve fare festa come capita")
Bisogna cogliere le buone occasioni come vengono.

Oggi ascoltiamo 
Ute Lemper - Die Moritat von Meckie Messer
https://www.youtube.com/watch?v=SHFXEPYU0FQ

venerdì 5 dicembre 2014

Gricia di Amir

Amir non è di Marrakesh, né di Tripoli, e neppure di Damasco.
Amir è italiano, anzi romano, anzi di Torpignattara (o, più propriamente, Tor Pignattara), una delle tante "Tor Qualcosa" sparse per la periferia di Roma, il cui nome nasconde sedi di fortilizi, di caserme, ma anche diverse ville patrizie, in gran parte oggi sotto metri di terra...
Periferie dove un tempo si muovevano quei Ninetti tanto cari a Pasolini, che seguiva nelle catapecchie accostate lungo l'antico acquedotto, o aggrappate su qualche "montazorro" dove s'abbarbicavano grappoli di casette abusive dove, in lontananza, già sorgevano palazzoni di sette piani, o affacciate su voragini che con gli acquazzoni di novembre diventavano pozze torbide come marane.


Periferie che poi hanno accolto un'umanità snaturata e devastata dal consumismo, pronta a farsi sedurre dalle sirene del benessere, sfrenato ed egoistico che concede i suoi spazi solo a chi ha modo di essere "produttivo".

In questi spazi marginali sono arrivati i primi "stranieri", e qui hanno costruito le proprie vite.
Alcuni col tempo hanno portato i loro cari qui da noi, li hanno fatti crescere assieme agli indigeni. Con molte difficoltà iniziali, molta diffidenza da entrambe le parti, molte remore.
I nativi, come sempre, hanno accettato chiunque venisse da fuori, come un tempo avevano accettato le orde dei migranti e quindi tutte le altre popolazioni della penisola, torinesi, siciliani e quant'altro.
Poi sono nati quelli che con ironico savoire-faire si sono definiti, da sé - prima che con disprezzo lo facessero altri - "i meticci", gli incroci tra quelle differenze di colore e di costumi che oggi chiamiamo etnie.

E i meticci, a ben vedere, sono i più sinceri frutti del nostro dettame biologico, che impone frequenti e salutari ibridazioni.
Solo quel che è ibrido, meticcio, bastardo è vivo, vitale, sano. La purezza è solo un pericoloso mito, astratto e  concettuale, lontano dalla vita vera, che è caos in movimento, in cerca di una faticosa struttura.
La purezza, se esiste, è vicina piuttosto alla stasi dell'immobilità, alla morte.

Se uno ha il padre egiziano e la madre romana per forza di cose è meticcio.
Lo sarebbe anche se la madre fosse piemontese e il padre pugliese, se non vi fosse quello straccio di sovraidentità nazionale a far tacere le discrepanze identitarie...
E il meticcio, quando si sente tirare dalle sue diverse identità e le sente in conflitto vive in modo quasi schizofrenico la propria vita, sia interiore che esteriore.
Definirsi fa fatica, e se proprio volessimo insistere nell'intento di dire a noi stessi e al mondo cosa siamo - anzi cosa sembriamo e non, piuttosto, cosa facciamo e cosa lasciamo al mondo - dovremmo imparare a considerare l'identità non come un'etichetta ma come un'intersezione di due o più insiemi e, allo stesso tempo, di insiemi e sottoinsiemi sempre inclusivi.
L'essere si forgia per differenze, ma ancor meglio per accumulazioni.
Io sono romano, anzi di Torpignattara, ma romano, e quindi italiano, e poi occidentale, quindi, in definitiva, salendo di grado in grado inclusivo, un essere umano.
È così difficile da concepire?
Farebbe comodo al mondo, anche se le meschinità degli interessi, delle ideologie, - anzi i pregiudizi, nella gran parte dei casi -, e dell'istinto tribale ci fanno credere di essere "solo" romani, "solo" italiani, "solo" occidentali.
E non altro.

Mi ripeto con finta ingenuità, ma la sintesi tra le cucine, il melting-pot culinario, anche se suona ottimistico e buonista, alla fine aiuta a relativizzare gli estremi, a credere proprie e solo proprie alcune caratteristiche ed espressioni culturali, mentre è sempre la nostra bella e variegata umanità a manifestarsi, ad agire nel mondo.
Si potrebbe dire: cosa c'è di più romanesco di un piatto di tonnarelli/ spaghetti/ rigatoni/ bombolotti - e quant'altro - alla Gricia?
È un'amatriciana in bianco, qualcosa che affonda le radici nella cucina dei pastori, in un tempo in cui il pomodoro era al di là dall'arrivare in Europa e, se c'era, era considerato come oggi la begonia, solo una pianta ornamentale.
Ma è un piatto che, come gran parte di quelli della cucina popolare romana, è "forestiero" e come ogni cosa che venga da fuori, prontamente assimilato e fatto proprio.
Perché a dispetto dei fattacci d'ordine pubblico e di coatta convivenza in condizioni pessime, Roma accoglie e fa suo.
Da sempre.
Che la Gricia venga dalla Tuscia, dalla Ciociaria, non è dato dirlo.
Nessuno lo saprà mai, e in fondo nemmeno è importante saperlo.
Quel che conta è che chi nasca qui, e abbia in sé la consapevolezza delle culture che lo formano, impari a conoscerla e ad amarla.
Assieme al cous-cous, ai vermicelli in brodo, al pollo in tandoori...


Amir Issaa è un artista, un rapper, e oggi anche un produttore musicale.
Una persona che ha saputo trovare nella musica, e nell'hip-hop in particolare, un modo per esprimere la propria "alterità", quella stessa che ognuno si potra dentro senza neppure vederla, solo perché non ha gli occhi a mandorla né la pelle scura.
Amir oggi ha raggiunto la notorietà, e se l'è meritata tutta.
Tanti, al suo posto, con le sue difficili premesse - un padre in carcere e una madre che deve crescere da sola un figlio in un "quartiere-ghetto"... -  si sarebbero abbandonati e avrebbero mollato.
Tanti l'hanno fatto, purtroppo.
Amir ha il volto di un'Italia che non vuole soccombere.
Che vuole esserci, nonostante tutto.
Gli dedico questa Gricia, un po' anomala, devo dire, per via delle mandorle filettate messe 'n coppa.
Ma come potevo richiamare il Maghreb senza stravolgere la ricetta se non con le mandorle?
Bella, Amì...


Gricia di Amir
Per prima cosa c'è da dire che nella Gricia, come pure nell'Amatriciana, si usa il guanciale, non la pancetta: sono parti diverse del maiale, con diversa lavorazione e diverso sapore, e la differenza si sente, non è per pedanteria.
Intanto un padellino ben arroventato far tostate un paio di cucchiai di mandorle a filetti, muovendole spesso per non farle bruciare, e una volta pronte toglierle e tenerle da parte.
Nella stessa padella soffriggere del guanciale a pezzetti.
I soliti puristi dicono: 3 x 1 cm e 0,8 cm di altezza, ma l'importante è che friggendo riesca a cuocere fondendo il grasso e rosolarsi senza bruciare. Non serve nemmeno aggiungere olio, basta il grasso della carne.
Aggiungere del vino bianco secco, far svaporare e aggiungere, a piacere, del peperoncino a pezzi.
Nel frattempo fate cuocere la pasta, lunga o corta, a seconda delle preferenze e di come risulti più "maneggevole".
Quando la pasta è cotta, scolarla e versarla in padella per mantecarla con del pecorino,
Anzi, meglio ancora: preparare una cremina col pecorino e l'acqua di cottura della pasta, come perla cacio e pepe, per capirsi, quindi versare nella zuppiera la pasta condita col in padella col guanciale, mescolare ben bene, aggiungendo poca acqua di cottura che avrete avuto l'accortezza di tenere da parte e...
Ah, si, le mandorle a filetti tostate a completare l'opera.
E se non vi sconfinferano le mandorle, beh, allora altra generosa grattata di pecorino.
E come dico sempre: chi s'è visto s'è visto.

Il Mausoleo di Sant'Elena, la "Torre delle Pignatte" che ha dato il nome al quartiere.
Le pignatte, che servivano ad alleggerire la struttura, sono ancora visibili nella parte interna.

Detto romano del giorno
Chi nun è bono pe' se, nun è bono manco pe' l'antri.

Oggi ascoltiamo
Amir Issaa - Ius Music

sabato 29 novembre 2014

Risotto affumicato

Che altro si può dire del riso che non sia stato già detto?
È il cereale più diffuso al mondo, per consumo, e bisogna capirlo: ha tutti i numeri per esserlo.
A differenza del frumento contiene un minimo quantitativo di proteine e di lipidi.
È, insomma, un pasto completo. O quasi.
Tant'è che mangiando solo frumento non si sopravvive mentre a una dieta di riso sì.
Magari male, è vero, ma almeno non si rischia di morire.
Lo sanno bene le popolazioni che da secoli se ne cibano e lo preparano nelle più svariate maniere.
Dall'Oriente, su per la Via della Seta, fino alle regioni più estreme del nostro continente il riso ha saputo imporsi e adattarsi meravigliosamente a tutte le Cucine che ha incontrato, cosa che è successa del resto anche col pomodoro e la melanzana.
Sia lode all'oro in chicchi, allora, e alla millenaria sapienza che ci permette di gustarlo in mille e più maniere diverse, dal salato al dolce, dal fritto alla minestra, e senza stancare mai.
Il risotto, poi, è un piatto eccezionale.
Magari agli Orientali può sembrare scialbo, senza l'uso di almeno venti delle loro amate spezie ad accompagnarlo.
Ma il riso è così, è dignitosamente semplice e modesto nelle premesse ma principesco nei risultati.
Basti pensare a una teglia di verdure ripiene di riso per averne la prova.
È un primo? un secondo? un piatto unico?
Lasciamo scannare tra loro i gastronomi assatanati di tassonomie, e gustiamoci invece un bel risotto.
Magari affumicato.

Questo piatto è preso pari pari dal libricino di Ugo Tognazzi, "L'abbuffone", che così lo commenta, dopo averlo descritto: "Sia lode a Capogna, lo chef milanese che m'ha insegnato questa delicatissima ricetta".
Come non dargli torto?

Risotto affumicato
Per due (pare vero...)
200 g   riso
50 g    burro
un litro di brodo (anche di dado, tanto nessuno se ne adonterà)
una cipolla piccola o mezza media
una scamorzina affumicata
due bicchieri di champagne (o anche di un buono spumante)
parmigiano grattugiato, pepe
Far appassire lentamente la cipolla nel burro, a fuoco molto, ma molto basso.
Aggiungere un bicchiere di champagne per non far prendere colore alla cipolla, quindi buttare il riso e mescolare.
Versare il resto dello champagne e il brodo, fino a coprire completamente il riso.
Far cuocere una decina di minuti, quindi aggiungere la scamorzina tagliata a dadini piiiicoli piccoli piccoli.
Si fonderà rendendo il risotto cremoso e saporito (oltre che affumicato).
Portare a cottura e un paio di minuti prima aggiungere una noce di burro, il parmigiano e il pepe, mescolare bene e coprire per far mantecare.


E mangiare caldo caldo, pensando serenamente, ad occhi chiusi, che aveva ragione, ragionissima, anzi ragionerrima, notre père Anthelme quando disse che...

Detto del giorno
La scoperta di un piatto nuovo è più preziosa per il genere umano che la scoperta di una nuova stella.
 
Anthelme Brillat-Savarin

Oggi ascoltiamo
Randy Crawford - You Might Need Somebody

https://www.youtube.com/watch?v=XTSXPTaOhM4

sabato 22 novembre 2014

Saracini mentaefumo

Una volta che nella dispensa si siano allineate file di pacchi di farina, e sempre a causa di "qualcuno" che ci ha suggerito e/o consigliato caldamente e/o spinto a comprarle, ecco che prima o poi, giocoforza, se ne perderà il conto.
Hai voglia a dire no. Senza alcun pudore "qualcuno" se ne uscirà inevitabilmente con un disinvolto: 
- Questa non ce l'abbiamo! Guarda!
- Ce l'abbiamo - Con gli occhi al cielo, spingendo il carrello verso i surgelati - inutile che mi guardi così.
- Ma poi magari a casa scopriamo che è quasi finita. E non avevi detto, e pure scritto nella cartellina "Ricette da provare" che avresti almeno tre ricette in cui usarla? Mica è colpa mia se scrivi, scrivi e poi non fai nulla...
- Se c'è una cosa che farò, quella sarà chiamare qualche esorcista specializzato in gattodemoni.

- E io farò come la bambina invasata di quel bellissimo film.
- Girerai la testa come una civetta?
- Sì, certo.
- Avrai attacchi di glossolalia demoniaca?
- È il minimo.
- E dolori al piloro che ti faranno vomitare verde?
- Se occorre...

- Puoi anche camminare sul soffitto, nel caso. Basta che non mi sporchi i libri.
- Questo non posso assicurartelo. Quando il piloro chiama c'è poco da fare.
Occhioni da Vanessa Williams e musetto da orfanella.
- Solo 300 g però, non di più...
- Peccato, quello da 500 g costava meno...
- Maledetto, esci da questo corpo.
- Solo quando sarà ora di pranzo.

Saracini mentaefumo
Per due persone
100 g    farina di grano saraceno
100 g    farina 00
1     uovo
1 pizzico di sale
acqua q.b.
Mescolare in una ciotola le due farine, aggiungere l'uovo, il sale e iniziare a mescolare.
Se occorre aggiungere dell'acqua, poca per volta, per rendere la pasta lavorabile.
Passare sulla spianatoia e impastare bene fino ad ottenere...
    Un impasto liscio e omogeneooo...
Bravi.
Lasciar riposare una mezz'ora nella ciotola, coperta da un panno.
Stendere la pasta, non troppo sottile, quindi tagliarla a strisce larghe due dita, e poi a losanghe.
Dei maltagliati, insomma.
Tagliati molto, ma molto male.

Condimento
150 g    pancetta affumicata a dadini
50 ml    panna
1 cucchiaino di mentuccia (anche secca)
pepe q.b.
In un tegamino far rosolare la pancetta affumicata in poco olio, quindi aggiungere la mentuccia, il pepe e la panna.
Portare a bollore e spegnere, in attesa della pasta.
Poscia condire e consumare prima che si raffreddi.
Posso accettare tutti, e tutto, ma non che mi si raffreddi la pasta.

Stornello romano del giorno
Fiore de menta
in mezzo ar petto ancora ciò l'impronta
de la passione mia che me tormenta

Trilussa

Oggi ascoltiamo
Supremes - You Can’t Hurry Love

https://www.youtube.com/watch?v=xlVxEAUqWU0

sabato 15 novembre 2014

Polpettine di pesce alla Nyanko

Ovvero: ミートボールの魚 (Mītobōru no sakana)

Certe cose accadono per caso, o per quella fortunata connessione di coincidenze che er poro Jung chiamava sincronicità, e che nel suo strisciante afflato mistico stentava ad attribuire alla pura concatenazione di eventi accidentali.
Sempre meglio che ci pensi un Caso a tessere l'ordito della vita, per quanto spietato e disumanizzante possa apparire - avrà pensato er sor Gustavo - piuttosto che l'idea insopportabile per noi poveri esseri umani (dis)senzienti che le cose avvengano per pura legge statistica.
Sia come sia, spesso però accadono cose che lasciano davvero a bocca aperta.
Che non sarebbero accadute "se..."
Un po' alla "Sliding doors" maniera, insomma.
Del tipo l'amore della tua vita che tarda alla fila del supermercato e tu così, "per caso", riesci ad incontrarlo...
Del tipo due passi in più e la tegola così, "per caso", si schianta dietro di te...
Del tipo la persona che ti cambia l'esistenza conosciuta in un posto dove quel giorno non saresti di certo andato e sei capitato così, quasi "per caso", ...
Chi di noi non ha collezionato una sequela di eventi che, a posteriori, sembrano avere nella loro "necessità" quasi del miracoloso?
Pochi però hanno questo pregevole oggetto:

Un ciondolo raffigurante un gattone Maneki-neko con boccale di birra nella zampa alzata...
Non è adorabile?
Appena l'ho visto che mi ammiccava dalla vetrina del negozio me ne sono subito innamorato.
Dovevo averlo, a tutti i costi.
Solo che uscendo troppo tardi da lavoro mi ritrovavo sempre là davanti con la vetrina già buia, e da fuori rimanevo a scrutare un mondo di origami, di kimono e altre delizie nipponiche che non vedevo l'ora di vedere e toccare alla luce del sole.
Un bel giorno riesco a passarci in orario decente e oltre alla simpaticissima Yuko scopro tutto un mondo di cose e di eventi di cui nemmeno sospettavo l'esistenza.
Cose che mi cortocircuitano nella mente lasciandomi strabiliato.

Il gattone in questione è infatti il personaggio di un manga (e di un anime che in Italia non è stato ancora trasmesso) dal titolo "Natsume degli spiriti".
E fin qui, tutto normale.

Natsume è un adolescente che ha il dono di vedere gli yōkai , gli spiriti della mitologia giapponese, e che a causa del suo potere che lo rende "strano" agli occhi degli altri, viene affidato da una famiglia all'altra.
È insomma la storia di un outsider in cerca di stabilità, di una comunità che lo accolga, di fiducia ed affetti.
E fin qui, tutto normale.

Un giorno per errore libera da un sigillo che lo teneva prigionero Madara, un potente demone-cane, che per gli umani ha assunto la forma visibile di un maneki-neko, il gatto che con la zampetta alzata attira la fortuna verso il luogo in cui è ospitato. Madara vuole impossessarsi del libro che Natsume ha ereditato dalla nonna Reiko, anche lei una potente veggente, dove questa aveva scritto i nomi di tutti i demoni che aveva sfidato e sconfitto e che per questo erano divenuti suoi servitori. Visto che il ragazzo è un medium troppo potente da affrontare il demone decide di fargli da guardia del corpo, diventando suo amico e salvandolo spesso da situzioni pericolose e anche dalle mire di altri yōkai.
E fin qui, tutto normale.

La cosa assurda, o meravigliosa, che poi è lo stesso, è che Madara, chiamato da Natsume "Nyanko-sensei" (1) ama bere e mangiare smodatamente.
Spesso esce di notte e torna al'alba col muso rubizzo e l'alito che trasuda sake.
E ha sempre fame, sempre...
E dice che non è grasso, ma ha solo di avere la forma tonda...
È un demone, e solo Natsume può vederlo...
Ricorda qualcuno, vero?

Quando ho capito che Madara è un Leppagorre nipponico, una sorta di Giappagorre, non ho resistito: dovevo a tutti i costi farli conoscere.
Figurarsi, uno con il faccione da lottatore di sumo in disarmo e l'altro con l'espressione da Aldo Fabrizi di fronte all'amatriciana!
Pensa che scintille e che faville!
Oppure, chissà, magari tuoni, lampi e saette.
L'incontro tra due demoni non è mai definibile a priori.
Sarebbero diventati amici o si sarebbero sbranati a vicenda?
Costi quel che costi devo rischiare, mi dicevo.
Ma come attirarli entrambi, un gattone italoromano e un nippodemone?
Ma che stupido sono!
Di fronte a un bel piattone di polpettine di pesce quale gatto, seppur demone, e di qualunque latitudine, può resistere?
E quindi, in onore di questi popoli così lontani ma, come tutti gli esseri di questo pianeta, così vicini, ecco una ricetta di polpettine in duplice forma, fritte e al vapore.

- Dōmo arigatō!
- Prego, prego. O che bellezza! [Anna Marchesini direbbe: "Due mostri in una botta sola!"] (2)
- Arigatō! Arigatō!
- Sì, sì, arigatō a te. Nyanko-san, ma non chinarti così spesso che m'imbarazzi. Leppagorre, stai per dire una cattiveria, vero? Te lo vedo dal luccichio verde negli occhi. Quel lampo è una malignità. Sputa la lisca, su!
- Ma no, che cattiveria! Pensavo solo che è una fortuna per me e Nyanko-san che tu abbia una panza così capiente da contenerci entrambi...
- Ah... grazie. Sei sempre così caro, Leppa...
- Figurati, è la verità. Secondo me c'è spazio anche per un altro gastrodemone. Chissà che non ne esista anche uno sudamericano...
- Magari nella mitologia vudù, che dici? Mi informerò e ti farò sapere. Tu però nel frattempo ti farai una doccia di Sambuca coi fiocchi, tesoro della casa, anzi della panza.
- Ma che suscettibile!
- Sì, velo. Tloppo süscettibile.
- Nyanko-san, te ne prego, non iniziare anche tu, eh?
- Ma tu li ümani li magni?
- No, io li faccio magnà e poi mi cibo del loro cibo.
- Che cosa stlana, davvero. Come palassita, ah?
- No, be' diciamo come ospite... [Se continua così me lo magno vivo. E poi magno te! L'hai chiamato tu, vero?]
- [Leppa, su, non essere cafone con il nuovo arrivato...] Nyanko-san, gradisci una tazza di tè? Una birra?
- Arigatō! La seconda che hai detto. Billa plima di cena è salute di panza.
- Anch'io ne voglio!
- Pelò fai bene. Così meno fatica, ah?
- Be' sai, noi romani non siamo molto rinomati per essere degli sgobboni.
- Parla per te, Leppagorre!
- Uffa... Ma dimmi un po', puoi anche rompere un sigillo scritto in un'altra lingua?
- Oh sì, sì. Devi leccale calta su cui è sclitto, Chiüdi li occhi così...
- A-ah.. Non sembra difficile...
- No, pel niente. Adesso te lo insegno..
- Avete finito voi con le cose da demoni? Meglio passare in cucina, va.
- Mejo!
- Mellio!
E in me il tremendo sospetto che certe coincidenze, o sincronicità che dir si voglia, debbano esser lasciate svanire e perdersi nel vuoto cosmico, nel caos entropico che ci circonda senza necessariamente star lì a sfruculiarle.
Ho davvero scatenato due mostri?
Faranno di me polpettine?
Intanto è meglio rabbonire loro, con delle polpettine...

Polpettine di pesce
Per una ventina di polpettine (sufficienti appena appena per due demoni affamati):
400 g   merluzzo (filetto)
80 g     mollica di pane
50 g     parmigiano grattugiato
2          uova
1 spicchio d'aglio
Prezzemolo e timo, due ciuffetti (3)
Sale, pepe, farina per infarinare e olio di semi q.b.
Nell'armadio di Maga Magò, tra le migliaia di spezie a disposizione, ho trovato un barattolino di "ginger and orange", una polverina miracolosa più delle ali di pipistrello. Ovvio che ce l'ho messa, almeno un pizzico.
Sbriciolare la mollica di pane (se occorre ammollarla in acqua e strizzarla bene), quindi frullare i filetti di  pesce e mettere il tutto in una ciotola, dove aggiungeremo il timo, il prezzemolo, l’aglio tritati e il formaggio grattugiato.
Amalgamare il composto con le due uova e regolare di sale e di pepe.
Formare delle piccole palline e passarle nella farina, togliendone quella in eccesso.

Per cucinare quelle al vapore si potrebbe (e si dovrebbe, in realtà) utilizzare una di quelle belle vaporiere di bambù o d'acciaio che si trovano ormai anche a prezzi abbordabili, ma non usandole spesso preferisco un semplice disco traforato da porre su una pentola contenente acqua in ebollizione.
Intanto in una padella far scaldare l'olio di semi per qualche minuto e quando uno stuzzicadenti immerso farà le bollicine, immergervi metà delle polpettine e friggerle, rigirandole spesso.
Le altre disporle sul disco traforato coperto con un dischetto di carta forno leggermente oliato, e farle cuocere coprendo con un coperchio bombato (o in mancanza d'altro anche con una padella...), girandole di tanto in tanto
Quando le polpette fritte saranno dorate estrarle dall’olio e poggiarle su un foglio di carta assorbente per farle perdere l'olio in eccesso.
Quelle al vapore saranno pronte quando saranno rassodate, circa una decina di minuti scarsi, direi.
Volendo si possono anche cuocere in forno, a 180°C per circa un quarto d'ora, rigirandole di tanto in tanto.
Ma qui si richiedeva la gravità del romanaccio e la delicatezza nipponica in un sol colpo, quindi l'esperimento forno lo faremo un'altra volta.

Disporre le polpettine a piacimento su un piatto di portata accompagnandole con pomodorini, champignons crudi e altre deliziose amenità.

 
- Celto che è così wabi-sabi, eh Leppagorre-san?
- Avoja! Ma chiamami Leppagorre-kun, dài.
- Che tlistezza vedere tanto, come dite voi?... scomposto disoldine. Detto tla noi, fa desolazione.
- Si, ma devi capire che lui è pecione.
- Ah?
- Ehm,  è... clumsy... come dite voi?
- Ah, ecco: è  不器用... Bukiyō!
- Sì, quello! Proprio così!
- Se non la smettete voi due mi bevo mezzo litro di anisetta e saionara a tutti quanti, eh?
- Ma birra ce n'è?
- Quella non manca mai.
- Non è che li preferisci col sake, Nyanko-kun?
- Oh, non vollei distulbale, Leppagolle-kun, ma se c'è...
- Mi spiace proprio tanto Nyanko-sensei, ma sake non ne ho!... Oh, come posso essere perdonato per questa terribile mancanza? Che vergogna insopportabile! Vado a fare harakiri in cucina.
- Ma che lo stai a prenne per c**o?
- No, perché, lo vedi sollevato? E tu zitto, mostro! Sei solo capace di fare comunella con questa palla di pelo!
- Sei tu che l'hai chiamato. Vuoi essere scortese tu, adesso?
- No, ma tu esageri, Leppa, come al solito tuo!
- Vuoi sentire  che cosa gli ho insegnato? Attacca, Nyanko-kun!
- Oh, sì, allola...

                     そして我々は言う         Soshite wareware wa iu
                     そして我々はやる        Soshite wareware wa yaru
                     あなたは水を入れ        Anata wa mizu o ire
                     あなたが払っていない  Anata ga haratte inai


- E sarebbe?... Aspetta, questo è...
- Sì proprio quello!
e noi je dimo
e no je famo 
ciài messo l'acqua
nun te pagamooo!

- Leppagorre, ti spelo con le mie mani, tantèveriddìo!
- Cattivo!
- Warui!
Annamo bene, annamo proprio bene!...


NOTE
1) Visto che "nya" in giapponese equivale al nostro "miao" e il suffisso "-ko" è un vezzeggiativo (spesso usato per i nomi femminili) il suo nome significa qualcosa come "er sor miagoletta", come diremmo a Roma.
2) Nell'indimenticabile "In principio era il trio".
3) Vanno bene lo stesso anche secchi o surgelati. Io di solito il prezzemolo lo trito e lo metto in una formina per ghiaccioli e lo lascio nel congelatore. Come tutte le verdure resiste anche per un anno. Sempre che prima non arrivino in casa le vongole...

Detto giapponese del giorno
見ぬが花。
Minu ga hana.

(Non vedere è un fiore. ovvero La bellezza è di quello che ancora non si è visto)

L’attesa è la parte migliore. La realtà non può competere con l’immaginazione.

Oggi ascoltiamo
per la parte al vapore:
中孝介 : 夏夕空
Kōsuke Atari - Natsu yūzora (Cielo serale d'estate)

https://www.youtube.com/watch?v=q6VDA8v7aSo

per la parte fritta:
夏川 りみ : 島唄
Natsukawa Rimi - Shima Uta
(Canzone dell'isola)

https://www.youtube.com/watch?v=xsUKiMfNG4c

mercoledì 12 novembre 2014

Tiramisù classico... e sicuro


Prendere o non prendere? 
Questo il dilemma... 
Se sia più nobile resistere alle venature insipide d'una foglia di lattuga o cedere alla setosa corposità d'una cucchiata di mascarpone? 
Magnare o dormire? Dormire, e di certo sognare una generosa porzione di savoiardi incaffettati e avvinti dal candido manto!
È questo lo scrupolo che dà alla sventura una vita così lunga, e alla vita un'insulsaggine senza lipidi.
Chi porterebbe i fardelli, grugnendo e sudando sotto il peso di una copiosa spesa, se non fosse poi il terrore di affacciarsi sulla superficie livida e spietata della bilancia, malefico artifizio? Così la coscienza ci rende tutti codardi, e l'incoscienza tutti obesi e col colesterolo a vette inarrivabili...

- Ma dài, che vuoi che ti faccia un po' di mascarpone ogni tanto? Con quello che mangi quotidianamente...
Il tutto detto con studiata nonchalance mentre si rifila le unghie sul grattaformaggio come fosse la cosa più naturale del mondo. Ma io dico: almeno gli altri gatti si attaccano alle tappezzerie dei divani o delle pareti. Lui no, lui deve sempre evidenziare il fatto che, in fondo, non è "un vero e proprio" gatto. Ci mancherebbe! Non l'avessimo capito!...
- Grazie a te, Leppagorre mio, sono abbondantemente "fuori con l'accuso", come si dice nel gergo dei giocatori di carte.
- Uffa! La prossima volta che mi distraggo e t'ingozzi ti porchetta t'apparirò come lo Stregatto, tutto azzurro e fumante e ti riderò in faccia per queste tue ardite considerazioni, mio caro. Lo giuro!
- Senti, ardito, mi pare proprio che su questi temi tu non ti distragga mai. E poi non toccarmi la porchetta o divento una belva. Allora sì che t'apparirò io, ma come Shere Khan però, e ti farò tutto a righe trasversali che neppure tua zia Bastet ti riconoscerà!
- Ma come sei irascibile!... Senti a me, qui ti ci vuole una bella porzioncina di Tiramisù per rimetterti in pace col mondo intero. Prendilo su, è fatto col latte, in fondo...
Esco dal supermercato con la confezione di mascarpone in mano e la sensazione d'essere stato, ancora una volta, raggirato.
Dimentico sempre che, fondamentalmente, è un demone, altro che gatto.
Ma non è che sono troppo debole di fronte a questi argomenti?...

Tiramisù
Per una teglia da 18 x 22 cm (4 porzioni) occorrono 200 g di savoiardi (24 biscotti ca.); per una da 14 x 21 cm (3 porzioni) bastano 140 g di biscotti (20 ca.)
 
2         tuorli
100 g   zucchero
250 g   mascarpone
300 ml caffè (5 tazzine ca.)
100 ml acqua
1 cucchiaio di liquore a piacere (l'amaretto ci sta n'amooore, lo devo dire?)
Montare i tuorli con lo zucchero, unire il mascarpone.
Sul fondo della teglia mettere uno strato di savoiardi imbevuti nella miscela di caffè, acqua e amaretto, distribuire uno strato di crema, e via col secondo giro.
Coprire con un foglio d’alluminio e far riposare in frigo.
Al momento di servire spolverare con cacao in polvere.

Ora, spero che nessuno qui sia così fiscale da stare a sindacare cosa sia e soprattutto come sia fatto "il vero" Tiramisù o finanche a sviscerare chi sia l'artefice della prima teglia del delicato (sifapperdire!) dessert, del favoleggiato tiramisù primigenio che serviva a rinvigorire le membra di qualche galioffo rinascimentale.
Queste disquisizioni mi lasciano sempre un po' algido, come se si stesse discutendo del sesso degli angeli. Che, si sa, erano maschi e mangiavano enormi porzioni di fagioli.
Insomma, non è importante fare i fondamentalisti quando non esistono le fondamenta, ma solo un'arzigogolata architettura, o gli integralisti quando di integrale nel mascarpone non c'è niente. Sarebbe una contraddizione in termini, un ossimoro come si dice.
- A noi poi questi piatti non piacciono, vero?
- Quali, Leppa?
- Quelli con gli ossi... A noi piace la ciccia succosa, con tanta salsa attorno, sopra e sotto!
- Mi arrendo...


Dicevo, non importa stabilire come debba essere fatto, nei termini di legge, un Tiramisù.
Importa fantasticare, divertirsi, provare, e soprattutto far godere le papille gustative.
Quindi sbizzarriamoci nelle varianti, che sono tante quante sono le possibili associazioni tra gli alimenti.
Variante 1, Tiramisu_Leggerodipiù. Alla crema di tuorli aggiungere anche gli albumi montati a neve.
Variante 2, Zuppamisù. Invece della montata di uova crude aggiungere una dose di crema pasticcera.
Variante 3, Callamiunpo'. Niente uova: al mascarpone aggiungere solo un paio di cucchiai di latte condensato. Anche tre, va.
...
Variante n, Porcamisù. Ai savoiardi sostituire pizza bianca romana, al mascarpone dell'ottima porchetta e... Fermi! Scherzavo! Forse...

Quello su cui non si scherza è la sicurezza del cibo. Senza se e senza ma.
Mangereste qualcosa preso da terra senza esservi lavati le mani?
Ecco, questo nella nostra cultura è ormai un fatto assodato tanto che spesso (e parlo di noi snaturati cittadini delle metropoli declorofillizzate) non ci si ricorda "da dove" vengono i cibi che ci portiamo in casa dal supermercato.
Le uova confezionate, per esempio, ci arrivano da allevamenti per i quali, nella grande maggioranza dei casi, sono preivisti controlli scrupolosi. Basterebbe infatti che solo una gallina si ammalasse di salmonella per tornare agli incubi di quei mali dimenticati in un mondo che si vuole civile (1).
Se non si è sicuri della provenienza delle uova, e se si vuole evitare di gettare al secchio l'ovetto di zio che le galline le tiene in cortile, l'unica sarebbe pastorizzare le uova, almeno nelle preparazioni in cui non ne è prevista la cottura.

Finora non m'ero mai posto il problema.
Donne incinte in famiglia ancora non ce n'erano, e neppure bambini piccoli.
Ma anche senza puerpere o fanciulli il sistema di semi rendere sicure le uova per i semifreddi e i dolci al cucchiaio ne rende di certo più tranquillo il consumo.
Senza mai dimenticare che la completa sterilità d’un cibo non esiste che in laboratorio. (2)
L'operazione consiste nell'aggiungere a una montata d'uova uno sciroppo portato a 121° C.
Se si usano albumi si avrà la Meringa italiana, mentre usando i tuorli una Pâte à bombe.
La meringa italiana si usa per semifreddi contenenti panna e anche crema pasticcera, mentre la pastabbomba s'usa di preferenza nei preparati cremosi, ma qualche volta anche insieme alla stessa meringa italiana.
Nel nostro caso, quindi avremo una:

Pâte à bombe (ovvero, la Pastabbomba)
2         tuorli
60 g    zucchero
20 ml  acqua
Si prepara uno sciroppo d'acqua e zucchero a fuoco moderato, così da non farlo caramellare ai bordi, arrivando a 121°, ossia a quella fase di cottura dello zucchero detta "piccola palla".
Montare a bassa velocità i tuorli in una ciotola d'acciaio o di vetro, quindi versare a filo lo sciroppo, velocemente per non farlo raffreddare e facendo attenzione che non vada sui bordi del recipiente, o tenderà a cristallizzare e rimanere attaccato, né sulla frusta, o schizzerà via.
Aumentare al massimo la velocità delle fruste e continuare a montare fino a raffreddamento completo, ovvero finché la temperatura esterna della ciotola sarà tiepida.
Occorreranno pochi minuti.
Tra l’altro, l'uso dello sciroppo a 121° elimina anche il sapore di uovo crudo, che non risulta sempre gradevole a tutti.

Come al mio solito, per ricavare la ricetta "media" ho dovuto confrontarne decine.
Dal che ho ricavato che il rapporto tuorli - zucchero va da 1,5 a 1,8.
Se quindi un tuorlo pesa mediamente 18-20 g si avrà bisogno di 30 g ca. di zucchero.
Invece il rapporto tra acqua e zucchero nello sciroppo va da 3,2 a 3,6.
Quindi, con una media di 3,4: ogni 30 g di zucchero richiederà 20 g ca. di acqua.
Una cosa: ovviamente la pasticceria è una scienza esatta, almeno così si dice.
Questa mia libertà coi decimali è solo perché in ambito casalingo si opera per quantità davvero minime rispetto a quelle di produzione. Se invece di 2 tuorli se ne usassero 20 i calcoli dovrebbero essere fatti con molta meno approssimazione.

Per la semipastorizzazione dei tuorli si può anche procedere nella preparazione di una crema inglese (latte, zucchero e tuorli) o d'una miscela di tuorli e sciroppo d'acqua e zucchero, portando il tutto a 85°, quando il composto vela il cucchiaio. Si dice anche "alla rosa", perchè soffiando sul cucchiaio la crema forma dei "petali di rosa" che si aprono in direzione opposta al soffio.
Quando il composto diventa gonfio e spumoso si toglie dal fuoco e si monta con la frusta.

E provaci, dài, tirami su se ce la fai!
...
Ahó, ce la fa davvero!
La glucoterapia ha funzionato anche stavolta.
Di fronte alla forza del caffè, la morbidezza della crema al mascarpone e la cedevolezza del biscotto inzuppato ogni lacrima diventa dolce.
Ma non è che sono troppo sensibile alla forza di questi rimedi?...

Detto romano del giorno
Chi se veste co' la robba de l'antri presto se spoja.

Oggi ascoltiamo
Electric Light Orchestra - Moment In Paradise

https://www.youtube.com/watch?v=hZuohs83XtM

NOTE
1) La Salmonella si combatte in primis negli allevamenti (la legislazione italiana prevede delle norme rigide) e quindi nella fase di conservazione (tenendo le uova in frigo, senza lavarle); durante la manipolazione (prima della cottura occorre lavare il guscio, e poi le mani); durante la cottura (che deve superare 57° C); infine nella conservazione dopo la cottura (a una temperatura minore di 5° C, o superiore a 70° C).
2) La pastorizzazione prevede il riscaldamento dell’alimento fino a temperature comprese fra i 65° C gli 80° C circa per tempi variabili fino a 3-4 minuti.
Questo fa sì che la carica batterica si riduca, ma questo non elimina tutti i microrganismi presenti. Non è  quindi da ritenersi una sterilizzazione, che consiste nel riscaldare l’alimento ad una temperatura superiore a 100° C (anche fino a 121°C) per un tempo brevissimo, e prevede la sua conservazione in ambiente sterile ed ermetico.
Per eliminare il maggior numero di virus della Salmonella bisogna arrivare almeno a 57°C.
I protocolli stabiliti dal FSIS (Food Safety and Ispection Service), prevedono queste temperature:
> Uova intere : 210 secondi a 60°C
> Albumi       : 210 secondi a 57°C
> Tuorli         : 210 secondi a 62°C
Tali temperature possono variano leggermente qualora si aggiunga sale o zucchero.
Per la maionese, per esempio, riscaldare a bagnomaria i tuorli aggiungendovi un po' d'acqua ed il succo di limone, mescolando continuamente fino a raggiungere i 71°C. Passare quindi la ciotola in un bagno d'acqua fredda, continuando a mescolare per far scendere la temperatura. Una volta che il composto è completamente freddo, si procede a emulsionare con l'olio.
L’uso dello sciroppo a 121° in un composto a base d’uovo a temperatura ambiente (mediamente i soliti 20° C) permette quindi di ottenere, nella media, la temperatura adatta alla  pastorizzazione.

domenica 9 novembre 2014

Krapfen boemi al papavero

Ovvero: Bochánky s mákem

Quando penso a Praga non vedo la città.
Penso ai tetti spioventi a tegole rosse di Malà Strana e rivedo quel tenero barbaro di Bohumil Hrabal, già mezzo ciucco, che passeggia per i vicoli con due secchi di birra verso casa, verso la sua solitudine troppo rumorosa.
Penso al coloratissimo Vicolo dell'Oro e non riesco a non associarlo all'angoscia asfittica di Franz Kafka, che pure vi abitò e immaginò qui l'incubo glaciale e terribile di risvegliarsi trasformato in un mostro.
Scruto i lugubri pinnacoli del castello e mi rivengono in mente le leggende medievali della Città d'Oro che Angelo Maria Ripellino ha raccontato così bene, con gli esseri fantastici che si mescolano naturalmente agli umani, con re Rodolfo II che invita a corte John Dee, il mago che parla enochiano con gli angeli, ma anche il suo compagno cialtrone, John Keely.
Penso agli scorci della Staré Město, e nella mente i muri a mattoni delle case medievali e le lapidi consunte del cimitero ebraico diventano gli scenari espressionistici e allucinati dove passeggiava il golem di Gustav Meyrink.
Insomma, Praga è davvero magica...
- Io quando penso a Praga mi vengono in mente questi:


- Sì, Leppagorre, fanno tanto Boemia d'altri tempi, con la contadinella col viso rubizzo e il grembiule ricamato. Ma non farti illusioni, qui i semi di papavero costano un occhio e non mi va di assecondare tutte le tue voglie strampalate, anzi stramparlone, come direbbe er sor Bohumil.
- Vieni, vieni...
- Non tirarmi per la manica, che mi prendono per matto.
- Come se già non lo facessero.
- Grazie, eh? E dove mi porti?... Ah, però... Quasi quasi...
- Eh? E poi non dire che non ti sono utile.
- E come hai saputo che qui li vendono?
- Me l'ha detto Recchiamozza, il gattone di Largo Argentina.

 

- Se, vabbè... Bonanotte!
- Aspetta! Dove vai?
- A comprarne due confezioni, no?

Krapfen boemi al papavero
500 g   farina
25 g     lievito di birra (fresco o secco)
un cucchiaino di zucchero
250 ml latte
50 g     burro
50 g     zucchero
1          uovo
1          tuorlo
Sciogliere il lievito in poco latte tiepido per farlo attivare.
Quello secco in grani va sciolto in poca acqua tiepida e un cucchiaino di zucchero e lasciato riposare finché si formi una densa schiuma in superficie.
Impastarlo quindi con poca farina il latte sufficiente a formare una pastella sostenuta, o un panetto morbido, e farlo lievitare al calduccio per un quarto d'ora, una ventina di minuti, mezz'ora.
Al raddoppio, insomma.
In una terrina versare la farina restante, il lievito, il burro pomata, lo zucchero e un pizzico di sale. Lavorare dapprima col cucchiaio di legno e quando avrà poi preso un minimo di consistenza scatafrombolare il tutto sulla spianatoia e lavorare energicamente per almeno dieci minuti.
"E tricchete e tracchete, e su e giù la monica annaaava"
    oppure
"If I can only reach you, If I could make you smiiile"
A scelta.
Far riposare il panetto, così provato da tanto sbattimento muscolare, ma soprattutto da così pessimo accompagnamento musicale, al riparo nella nostra terrina, coperta da un piatto o da un canovaccio.
Tempi? Lo devo dire? Al raddoppio!
Quindi da 20 minuti, mez'ora se fa caldo fino a un'ora e passa se la temperatura è sotto i 25° C.
Intanto preparare il ripieno
150 g   semi di papavero
1         uovo
buccia grattugiata d'un limone
3 cucchiai di miele
Far rinvenire i semi di papavero in un bicchiere d'acqua calda per almeno un quarto d'ora. (1)
Colarli quindi attraverso un panno pulito, strizzandolo un po' per eliminare il liquido in eccesso.
Versare in una terrina e aggiungere il miele, l'uovo e la buccia di limone.
Mescolare l'immondo pappone e passare alla lavorazione dei craffen:
Smaneggiare la pasta e ricavarne un rotolo, che andrà diviso in 16 parti uguali.
Sul piano infarinato stendere col mattarello ogni pezzo in un disco di circa una decina di centimetri di diametro ed alto più o meno mezzo centimetro.
Versare al centro del disco di pasta un cucchiaio di ripieno, quindi richiuderlo, inumidendo leggermente il bordo, ricavandone una palletta, che verrà spennellata di burro fuso e disposta su una teglia imburrata o coperta di carta forno.
Far rilievitare i craffen almeno una ventina di minuti, qunidi cuocere per meno di mezz'ora a 180° C.
Almeno fin tanto che la superficie sia bella dorata.
Appena usciti dal forno spolverizzarli con dello zucchero a velo.


Et voilà, il craffen boemo è servito.


E con con gli occhi chiusi, tra un sorso di tè e un morso di craffen rivengono in mente le piroette linguistiche del maestro Hrabal, quel suo:
Da trentacinque anni lavoro alla carta vecchia ed è la mia love story. Da trentacinque anni presso carta vecchia e libri, da trentacinque anni mi imbratto con i caratteri, sicché assomiglio alle enciclopedie, delle quali in quegli anni avrò pressato sicuramente trenta quintali, sono una brocca piena di acqua viva e morta, basta inclinarsi un poco e da me scorrono pensieri tutti belli, contro la mia volontà sono istruito e così in realtà neppure so quali pensieri sono miei e provengono da me e quali li ho letti, e così in questi trentacinque anni mi sono connesso con me stesso e col mondo intorno a me, perché io quando leggo in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio e la succhio come una caramella, come se sorseggiarsi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcool, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene fino alle radicine dei capillari.

Verrebbe quasi da piangere.
Di contentezza.

NOTE
1) La ricetta originale prevede di tritare finemente i semi di papavero. Ora, a parte che non sempre si ha a disposizione un macinino da caffè da usare per i semi di papavero, e frantumarli nel mortaio è comunque una vera e propria pena del purgatorio, credo che non sarebbe male lasciarli così come sono.
È piacevole schiacciarli nel morso, e la loro consistenza granulare contrasta con la morbidezza della pasta brioche. E se anche tra i denti ne rimanesse annidato qualcuno a tradimento, suvvia, non è che la cosa sia poi così disdicevole. Credo lo sia di più scaracchiare a terra o frugarsi attentamente le narici in cerca di chissà quali tesori nascosti. O no?...

Detto ceco del giorno
Zakázané ovoce chutná nejlépe

Il frutto proibito ha il sapore più dolce


Oggi ascoltiamo
Queen - Bohemian Rhapsody

https://www.youtube.com/watch?v=fJ9rUzIMcZQ

sabato 1 novembre 2014

Suppa malcuada alla picchiapò

Anche quest’anno è finalmente arrivato Halloween.
E anche quest’anno mi tocca sorbire gli ennesimi borborigmi dei soliti codini, dei baciapile, delle perpetue - o semplicemente degli ignoranti - che si sentono minacciati da una festività troppo, troppo smaccatamente yankee.
E star lì con gli occhi verso i cirri a ripetere che l’usanza di ricordare i defunti e di scacciare gli spiriti maligni non è americana ma pre-cristiana, e che in tutta Europa vi sono - o almeno vi sono state - usanze simili per la notte tra il 31 ottobre e il primo novembre.
Come l’uso di offrire ai propri morti del cibo, perché in questa notte fatata le barriere tra questo e l’altro mondo si assottigliano e ogni tipo di essere proveniente “di là” può agevolmente mettere piede nel nostro.
Si sa, da sempre l’umanità ha nostalgia ma anche paura dei morti.
Hai visto mai che oltre a pora nonna possano tornare a calcare la terra degli spiriti malevoli?
E poi, se tornano, non sarà mica solo per il rimpianto della vita passata, magari arrivano e si portano via qualcun altro in famiglia... In tempi dove si poteva morire per un’infiammazione mal curata questo era un timore reale.
Meglio allora ingraziarseli, accendere gentilmente un lume che li guidi verso qualcosa di buono preparato per loro e augurarsi poi che ritornino nell’aldilà il prima possibile...


- Sia come sia, io sono pronto.
- Cioè? Esci così?
- Be’? Che c’è di male? Non sembro forse un bambino umano mascherato?
- E dove s’è mai visto un gatto di due metri e passa che se ne vada in giro per le case a chiedere dolci?
- Non ti piace il mio cappello, vero?
- Fosse solo quello... Ma si può?
- Ecco, solo perché non puoi vestirti da “Corsara sei Sette Mari” o da “Agnetha la Barbuta” non vuol dire che me lo debba impedire anche a me, no?
- A parte che non ti vederebbe nessuno tranne me, purtroppo, e poi no, mascherarmi non è certo la mia aspirazione più grande.
- Sarà. Io comunque un giretto me lo faccio. Magari qualche dolcetto lo rimedio.
- Bada a non rimediare qualche scherzetto, invece. Tipo una scarpata sul muso o una secchiata d’acqua. Magari trovi anche chi oltre a vederti ti scaccia verso l'altro mondo!
- Cattivo!

Insomma, l’uso di mascherarsi per spaventare gli spiriti maligni ed esorcizzarne la presenza è un uso antico, come pure offrire del cibo ai propri morti.
In Sardegna, per esempio, l’usanza è un po’ affievolita ma ancora resiste, e con l’affermarsi di Halloween sta pian piano riprendendo vigore, per un comprenibile senso di orgoglio per le proprie usanze.
Che sia Festa de Is Animeddas a sud o Su Mortu Mortu a nord, è pur sempre la stessa cosa.
Il primo novembre i bambini girano per le case chiedendo qualcosa pro sas animas, pro su bene 'e is animas, o pro su mortu mortu (o li molti molti, in Gallura).
Invece di "dolcetto o scherzetto" si esordiva con "Seus benius po is animeddas, mi das fait po praxeri is animeddas" o "Seu su mortu mortu, carchi cosa po sas ànimas" oppure "O tzia Maria, mi dhu ona su prugadoriu?” - Zia Maria, mi dai qualcosa per le anime del purgatorio? - come a Seui, in Barbagia.
La notte del primo novembre, poi, veniva preparata una cena per i propri morti, un piatto di pasta fatta in casa e un bicchiere di vino, che nessuno in casa s'azzardava a toccare.
E se anticamente venivano esposti dei teschi - sas concas 'e mortos - per propiziare le piogge d'autunno, successivamente vennero usate proprio delle zucche, scavate e illuminate dall'interno con una candela...
Comunque sia, non certo per rivendicare delle antiche usanze ma solo per rispetto al ricordo dei nostri cari, credo sia bello preparare qualcosa pensando a loro.
Qualcosa che gli sarebbe piaciuto assaggiare.
Qualcosa di diverso, anche, perché fare qualcosa di diverso per qualcuno, anche se non c'è più, è anch'esso una forma d'amore.

Suppa malcuada alla picchiapò
Unisco quindi il mio amore per s'isola 'e su bentu e per la mia romanità unendo due ricette in una: la Suppa cuada e il Lesso alla picchiapò.
Solo che la suppa, lasciata così sul tavolo, in bellavista, ha poco di cuadu - di nascosto - ma è offerta al mondo.
A questo e all'altro, se c'è.


Per il brodo:
500 g  manzo (muscolo)
1        cipolla media
5-6     chiodi di garofano
1        carota media
1        costa di sedano
La cipolla va garofolata, ovvero infilzata con i chiodi di garofano e lasciata così, intera, a pendant della carne da brodo.
Cuocere il brodo nel solito modo (due ore a fuoco lento o 40 minuti nella PaP) e quindi procedere come segue...

Far andare in un tegame con poco olio il lesso spezzettato.
Aggiungere:
1    spicchio d'aglio tritato
1    porro
1    mazzetto di prezzemolo
Tagliare il porro a rondelle di 1/2 cm e aggiungere, dal brodo, la carota, il sedano e la cipolla (a cui saranno stati tolti i chiodi di garofano).
Unire quindi il prezzemolo, sminuzzato con la mezzaluna.

Per comporre la Suppa malcuada occorrono ancora:
300 g    pecorino fresco, tagliato a fettine sottili
100 g    pecorino stagionato grattugiato
300 g    pane carasau
Queste dosi sono sufficienti per 2 teglie da 4 porzioni (20x15 cm) oppure una teglia da 8 porzioni (20x30 cm).
Ungere il fondo della teglia con poco olio, mettere uno strato di carasau ammollato nel brodo, il pecorino fresco a fettine, altro strato di carasau ammollato, il lesso sbriciolato, il pecorino grattugiato, strato  di carasau ammollato...
E passa la viola, come diciamo qui.

Detto sardo del giorno
Amare et non esser amadu est tempus ingannadu. 

Amare e non essere amati è tempo perduto.

Oggi ascoltiamo
Portishead - Roads

https://www.youtube.com/watch?v=WQYsGWh_vpE