sabato 13 dicembre 2014

Koresh, lo stufato sumerico

- Insomma, Leppagorre, no, no e no! Non voglio mettermi a far cose poco chiare o disoneste solo per la tua curiosità!
- Guarda che non c’è niente di male, sai? Abbiamo visto quell’oggetto, nessuno se ne curava da anni, nessuno ne avrebbe mai sentito la mancanza, e invece a noi serve!
- A noi, e perché? Io non conosco la lingua in cui è scritto! E quel poveraccio del libraio adesso ha un volume in meno...
- Non è un volume, è un quaderno d’appunti. Che nessuno gli avrebbe mai comprato, mentre a noi serve.
- A noi serve, dici? Ma allora avremmo potuto comprarlo noi, no? Ragiona...
- Sì, certo, come no! Hai visto il prezzo scritto a matita sulla quarta di copertina? Solo perché è di quasi due secoli fa costa il triplo d’un tuo stipendio. E nessuno, ti ripeto, nessuno, ne sentirà affatto la mancanza.
- Dici?...
- Fidati.
- È questo il punto...


- Io non ci capisco niente. C'è una parte in inglese, e va bene, ma sono solo indicazioni di luoghi e strane diciture. È un diario di viaggio forse? E questi segni, poi? Caratteri cuneiformi?
- Proprio loro.
- Ah, e così conosci anche il sumerico? Magari ti ci cantava le ninne nanne tua zia Bastet, vero?
- Beh, no, io non ero ancora nato, ma da quando so leggere mi sono messo a studiare e...
- Tu... proprio tu, con quel muso da luna piena pieno di baffi e peli, ti sei messo a studiare? E cosa ne avresti ricavato dai tuoi studi “matti e disperatissimi”?
- Né matti né disperatissimi, anzi. Dovevo pur prepararmi a capire quello che ci troviamo davanti.
- Ma perché, fammi capire, questa trascrizione cosa riporta? Qualche archivio di derrate alimentari, qualche enumerazione di quante vacche avesse il signore di Ur?
- Non proprio... Vedi questo segno qui?
- Questo che sembra il cinque di spade?
- Poi il cafone sono io, eh?... Sai che vuol dire?
- Se l’avessi saputo mi sarei forse messo a perder tempo con un gattodemone imbroglione, ghiottone e, da oggi, pure ladro?
- Insomma qui dice:
amĝu\ [lu]-ĝu IM /MA\ [NI TA … šu nu-ri-bar-re] 
dgilgameš /IM\ [MA NI TA … šu nu-ri-bar-re] 
e-an-na-ĝu di [kud-de šu nu-ri-bar-re]...
- Ah, interessante... E che dice?
- Come che dice? parla di Gilgameš, il re di Uruk, quello che...
- So chi è Gilgameš. E di che parlerebbe questo testo?
- È semplicemente la versione più antica del testo conosciuto come quello della Sesta Tavoletta...
- Non ti seguo.
- Allora, Gilgameš è re, un re spocchioso che vessa i suoi sudditi i quali, stufi della sua boria si rivolgono agli dèi...
- Che commissionano Enkidu, l’uomo dei boschi...
- Sì, il quale è l’unico che possa stargli alla pari. I due lottano e quando Gilgameš riconosce di non essere onnipotente i due diventano amici e per siglare il loro sodalizio decidono di andare a sconfiggere il temibile Ḫubaba, guardiano della Foresta dei Cedri, così da conquistarsi una fama immortale.
- Sì, lo ricordo, è il punto che i due tornano a Uruk e Ištar, la dea della voluttà cerca di sedurre Gilgameš, che la rifiuta. Capirai, una donna rifiutata può diventare una belva, pensa una divinità sumerica...
- E infatti la stronza va su tutte le furie e va a lamentarsi da An, il padre degli dèi, e non esita a minacciarlo: "Aprirò le porte dell’inferno e libererò i morti, che siederanno assieme ai vivi!"
- Immagino An mentre alza gli occhi al cielo...
- Insomma, Ištar è potente e riesce a convincere gli dèi a liberare il Toro Celeste e aizzarlo verso Gilgameš.
- Ricordo. E il testo dice, pressappoco così:
                 Enkidu lo tenne fermo con le sue due mani,
                 e Gilgameš come un eroico macellaio
                 colpì il Toro Celeste con mano ferma e sicura;
                 egli immerse la tua spada tra le corna e i tendini della nuca.
All’anima!...
- Parliamo di Gilgameš, mica di Scortichini Guido, eh?
- E quindi?
- Quindi, questo testo, ricopiato con tanta passione da un archeologo inglese e andato poi perduto a metà dell’Ottocento, è una versione antica, la più antica di questa tavoletta. Quella che viene chiamata la Sesta Tavoletta. Che è diventata polvere 157 anni fa, precisamente.
- Ah... E tu che ne sai?
- Ho i miei informa-Tori. Celesti. Ah ah ah!
- Cretino! E che dice di nuovo rispetto agli altre versioni della Setsa Tavoletta?
- Questa non è una versione. Questa è l’originale...
- ...
- E qui, guarda qui, c’è scritto cosa successe dopo l’uccisione del Toro Celeste.
- L’incazzatura di Ištar?
- Quella dopo, con tutti i problemi che ne seguirono: la morte del fido Enkidu e le peripezie di Gilgameš verso i confini del mondo per conquistare il segreto dell’immortalità.
- Insomma, non tenermi sulle spine!
- Qui, vedi questi segni?
- Sai che non conosco il sumerico, mi prendi in giro? A me sembra la caduta di una confezione di spilli!
- Allora, qui dice, come già si sapeva:
                 Quando essi ebbero abbattuto il Toro Celeste, essi estrassero
                 il suo cuore,
                 e lo deposero davanti a Šamaš. 
                 Essi indietreggiarono pieni di timore, inginocchiandosi
                 davanti a Šamaš;
                 quindi i due amici si sedettero.
Ma il bello viene dopo! Guarda questi segni:


- Ti ripeto, a me non dicono niente. Non tenermi sulle spine!
E dopo che ebbero offerto il cuore a Šamaš
i due sedettero in silenzio
guardando le ormai inerti
membra del Toro Celeste.
E su di loro, su Gilgameš ed Enkidu
subitanea scese la fame;
e decisero di tagliargli le zampe e cibarsene.
Enkidu aprì la sua bocca e disse,
così parlò a Gilgamesh:
"Amico mio, abbiamo ucciso il temibile Toro Celeste,
abbiamo offerto il suo cuore a Šamaš,
abbiamo seduto in silenzio pieni di timore
davanti a Šamaš;
Vogliamo forse aspettare che cali la notte
senz’alcun cibo toccare?
Guarda le corna del Toro, esse fendevano l’aria;
guarda la coda del Toro, essa frustava il vento;
guarda le zampe del Toro, che facevano tremare la terra.”
E Gilgameš aprì la sua bocca e disse,
così parlò a Enkidu:
"Amico diletto, quel che dici è verità;
abbiamo ucciso il temibile Toro Celeste,
abbiamo offerto il suo cuore a Šamaš,
abbiamo seduto in silenzio pieni di timore
davanti a Šamaš;
E l’immensa fatica della nostra impresa
m’ha fatto venir un certo languorino.”
Così i due amici presero le zampe del temibile Toro Celeste,
le zampe che facevano tremare la terra,
le portarono a Uruk e così parlò Gilgameš:
“Guardate, sudditi: queste sono le zampe del temibile Toro Celeste; 
le zampe che facevano tremare la terra;
Qualcuno di voi sa forse trarne delizioso cibo?”
- E qui, queste righe che seguono... ecco, proprio queste: qui c’è la ricetta!
- La... ricetta? Del... Toro... Celeste?
- No, mica di tutto, solo delle zampe,
                 le zampe che facevano tremare la terra...
- Ho capito, basta!
- Lo sai che queste narrazioni sono piene di ripetizioni, no?
- Sì, ma vai al sodo, per favore. Vuoi darmi a intendere che queste che seguono sono la... ricetta delle zampe del Toro?...
- Forse non capisci. Questa non è “una” ricetta, anche se delle zampe del Toro Celeste. Questa è “la” ricetta. La prima ricetta scritta dalla vostra razza da quand’è comparsa su questo pianeta. Hai capito ora? Ma che fai? Ahó! Sveglia, su! Sveglia, dài! Su, che la dobbiamo rifare!


Certo, non è detto che questa, proprio questa sia la ricetta più antica del mondo, ma è vero che da una serie di tavolette scritte in sumerico siano emerse da oblio secolare una serie di "indicazioni" davvero interessanti.
Ne ha scritto lo storico e orientalista francese Jean Bottéro, che fu il primo traduttore del Codice di Hammurabi (1).
Questa è una ricetta persiana descritta in "Cannella e zafferano" di Lorenza Pliteri (2) e che ho ritrovato anche qui, nello splendido sito "Acquaviva scorre".

Koresh-e fesenjan, lo stufato sumerico
Ovvero: Ossobuco con melagrana, zucca e noci
Per due persone (io, il cialtroscrittore, e un gattodemone cialtrosumerico)
2         ossobuchi di manzo
1         melagrana
1         cipolla
170 g  zucca
100 g  noci (già sgusciate)
1 punta di cannella in polvere
un pizzico di zafferano
olio evo e sale q.b.
Rosolare in una padella la zucca a pezzettoni con poco olio, fino a farla dorare mantenendone però la consistenza.
Sgranare la  melagrana e spremere il succo di 3/4 dei chicchi con uno spremiagrumi o uno schiacciapatate, facendo attenzione a non decorare di carminio le pareti.
Tritare finemente le noci, unirvi il succo di melagrana e aggiungere anche la cannella e lo zafferano.
Affettare finemente la cipolla e farla appassire in un tegame con poco olio, a fuoco bassissimo.
Incidere il bordo degli ossibuchi o praticare dei tagli con le forbici, così da non farli arricciare in cottura.
Unire alla cipolla gli ossobuchi e farli rosolare, quindi unire la zucca e la pastella di noci e melograna e un pizzico di zucchero qualora questa risultasse troppo aspra.
Salare leggermente, coprire il tegame  con un coperchio, abbassare la fiamma al minimo e cuocere per almeno 90 minuti, mescolando la carne ogni tanto e controllando che non si asciughi, nel qual caso aggiungere un paio di cucchiai di acqua calda.
Dopo l'ora e mezza di passione - ci è voluto senz'altro meno a uccidere il Toro Celeste - spegnere e lasciar riposare una decina di minuti coperto.
Disporre la carne sul piatto e cospargerla con i chicchi di melograno tenuti da parte.


Non sembra forse la faccia der poro Enkidu che guarda il suo amato Gilgameš dalle profondità senza ritorno degli Inferi?...

Detto sumerico del giorno
L'uomo, per quanto alto egli sia, non può raggiungere il cielo.

Oggi ascoltiamo 
Nazem El Ghazali - Fog el Nakhal
https://www.youtube.com/watch?v=4dcFvxXV6l8

NOTE
1) Jean Bottéro, "La cucina più antica del mondo" ed. Orme (2013); "Textes Culinaires Mesopotamiens" ed. Eisenbrauns (1995).
2) ed. Ponte alle Grazie (2011. Collana, manco a dirlo: "Il lettore goloso")

mercoledì 10 dicembre 2014

Rigatoni c'a pajata

Siamo deboli, siamo incongruenti, siamo incostanti nei nostri propositi.
Ci inteneriamo per alcuni fatti e lasciamo che altri ci accadano attorno senza colpo ferire.
Siamo ipocriti, siamo opportunisti, siamo lucidamente o inconsapevolmente indifferenti.
Sopportiamo che accadano cose terribili, e qualche volta le fomentiamo anche coi nostri consumi, ripulendoci poi la coscienza con una disinvoltura che a guardarla da fuori, con lucidità, è raccapricciante.
Siamo abitudinari, siamo pavidi, e spesso inamovibili.
Siamo umani.

M'ero ripromesso di non farlo, lo so, lo so bene.
E non basta dirsi: "Non l'ho fatto mica io..."
Qualcuno lo fa, comunque, e io ne ho approfittato.
Lo so.
Ma una volta, una sola volta almeno, volevo farlo, tanto per scriverlo qui sopra e ricordarmelo in futuro.

La pajata è infatti uno degli alimenti eticamente insostenibili, a mio modo di vedere.
Il consumo di carne in sé, per molti, lo è.
Ed è un tema delicatissimo, che tocca nervi ancora scoperti, abitudini inveterate (e/o invereconde), che solletica la nostra memoria collettiva, quasi ancestrale.
Rinunciare alla carne non è semplice, ammiro chi ha fatto questo passo, e ammetto che ancora non sia in grado di decidermi seriamente a farlo, a dispetto di ogni ragione razionale.
Fino a qualche decennio fa che si consumassero anche le interiora, e ogni tipo d'animale, era giustificato dalle condizioni misere del popolino.
La carne era considerata un lusso, e concedersela era un regalo e un sacrificio che si faceva per la propria famiglia, benché poi tutti conoscessero, anche se non scientificamente, le generose proprietà dei legumi.

Per chi ancora non lo sapesse, la pajata (o, in italiano, pagliata) è la parte dell'intestino tenue del vitellino da latte.
Il caro animaletto non ha ancora iniziato a brucare l'erba, e l'unico nutrimento gli viene dal latte materno, quindi il suo intestino non conterrà altro che chimo, ossia latte predigerito.
Ha torto quindi il marchese del Grillo di Monicelli quando dice a Olimpia che la ghiottoneria che sta mangiando "è proprio merda", ma il marchese era un burlone, si sa, e senz'altro avrà voluto prendersi gioco della bella chanteuse.
Comunque, il cosiddetto "morbo della mucca pazza" ha vietato in tutto il territorio comunitario il commercio di questo prodotto, il che ha lasciato basiti molti romani, molti sardi settentrionali - dove è chiamato zimino, e si fa generalmente arrostito sulla brace - e nell'indifferenza più totale altri 150 milioni d'europei.
E il consumo di alimenti alternativi fa ben sperare che non si debba continuare a perpetrare quello che, a vista di molti, è un vero e proprio crimine.

Comunque è andata, stavolta è andata.
Il peccato - perché questo è - è stato consumato.
Me ne assumo le responsabilità col mio karma, se c'è, e cercherò di rimediare in futuro.
Se scrivo tutto questo non è per supplicare indulgenza, ma per ricordarlo a me stesso.
È o no un diario, un "quasi quaderno di ricette"?...

Rigatoni con la Pajata
Per, vediamo... 5xe/√4.25-8.4/π+φ/2... 4? 3? 2 persone? Forse.
500 g     intestini di vitello (scritto così fà più effetto)
200 g     rigatoni
prezzemolo, aglio
700 g    passata di pomodoro
un bicchiere di vino bianco secco
pecorino romano grattugiato a go-go
olio evo (ma lo strutto è meglio), sale e pepe q.b.

opzionali:
1      cipolla
1 costa di sedano
50 g    pancetta, o meglio guanciale
qualche chiodo di garofano
poco aceto

Operazione preliminare è vestirsi da vecchia popolana romana dell'Ottocento, col sinale e il fazzoletto in testa (ma se si è calvi si può anche saltare questo passaggio), senza la quale accortezza la ricetta riesce solo a metà.
E con la televisione accesa d'accompagno la pajata viene amara, non si sa ancora perché...

Se si ha a disposizione la pajata fresca occorre spellarla, togliere cioè la sottile pellicina che la racchiude e che risulterebbe gommosa alla masticazione.
Tagliarla quindi  a pezzi di 20-25 cm circa e con uno spago da cucina legare le estremità formando delle ciambelline ben chiuse.
Ciò eviterà che il chimo, o er latte come diciamo qui, esca completamente in cottura.
Quest'operazione è necessaria se si ha a disposizione la pajata cruda, meno se la si trova precotta in vaschetta al supermercato.
Ricordo che quando qualche volta ho aiutato mia suocera d'allora - un'ottima cuoca di cucina romanesca, ahimé... - a prepararla, la mia fidanzata se ne fuggiva a gambe levate. Beata ignoranza...
Volendo si può lasciarla qualche minuto su un piatto, spruzzandola con poco aceto.
Tritare la cipolla, il sedano, il prezzemolo e, se si vuole, anche la pancetta (o il guanciale).
Usare a tale scopo il battilondo, il bel tagliere di legno dove le romane d'allora facevano il battuto di guanciale e aromi per le paste o le minestre.
Se possibile utilizzare un recipiente di coccio, ma anche una pentola d'acciaio inox col fondo bello alto è adatta allo scopo.
Lasciar soffriggere l'aglio (uno o due spicchi, interi) in poco olio fino a farlo imbiondire, quindi eliminarlo.
Aggiungere la pajata, sale pepe e, se si preferisce, i chiodi di garofano.
Si fa rosolare e insaporire con sale e pepe, quindi irrorare col vino e farlo evaporare completamente prima di aggiungere il pomodoro.
Aggiungere mezzo litro d'acqua calda.
Lasciare cuocere coperto a fuoco basso fino a ottenere un sugo denso e cremoso.
Se la pajata è fresca almeno un'ora e mezzo o due, se non di più. Se è precotta basta una mezz'oretta.
E se nel frattempo dovesse asciugare troppo aggiungere ovviamente altra acqua calda.
Nel frattempo lessare i rigatoni, scolarli al dente, condirli col sugo e versarvi sopra le ciambelline di pajata e, manco a dirlo, tanto tanto pecorino.


Se poi si sta da soli si possono mangiare anche direttamente nella pentola.


Di rigore la canotta a costine due misure più larga e la barba di due giorni,
Chiedo venia...

Detto romano del giorno
L'asino indove c'è cascato una vorta nun ce casca più.

Oggi ascoltiamo 
The Smiths - Meat Is Murder
https://www.youtube.com/watch?v=xacRTqk5QFM

domenica 7 dicembre 2014

Kranz al papavero

Ah, se non ci fosse Internet!
Sarei perso in un deserto d'ignoranza.
Tante volte mi dico: ma come facevo anni fa - A belli, pochi eh? Mica sono una carampana... - a cercare tutte le informazioni che mi servivano?
I principi di narratologia, i lineamenti di linguistica cartvelica, o semplicemente come si fa una pâté a bombe... Come?
Nelle biblioteche, ovvio. Quindi libri e riviste, quando c'erano. E nient'altro.
Il mondo dell'informazione è cresciuto in maniera così esponenziale da lasciare allibiti, tanto che la vita prima della Rete globale sembra impensabile. Abbiamo più informazioni in un mese di quanto nostro nonno ne avesse in vent'anni.
Ah, come faccio con Internet?
Sono sommerso in un oceano di dati, ai quali assegnare una rilevanza è l'operazione più difficile.
Certo, meglio troppo che niente, si dirà, ma spesso è difficile districarsi nella selva delle informazioni discrepanti, se non spesso divergenti.
Ad esempio, riuscire a farsi un'idea di quello che accade in qualche parte "calda" del mondo non è così facile, a dispetto della quantità di notizie disponibili. Propaganda, rumore di fondo, "troll" in azione, tutto contribuisce a non aiutarci ad avere una visione chiara delle cose.
Figuriamoci poi a cercare delle ricette...
Sembra che la Rete sia nata solo per le chiacchiere tra amanti virtuali e le innumerevoli pagine culinarie.
Come scegliere? Dove scegliere?
I motori di ricerca non aiutano, a volte. Sono ancora goffi, stupidi, si basano sul principio che la domanda più digitata sia effettivamente quella cercata da chiunque...
Se uno, per esempio, inserisce Kranz, non appare questo:


... come sarebbe da aspettarsi chiunque abbia un minimo di senso culinario - e in aggiunta anche un gattodemone nella panza, direi...
Spesso appare in prima battuta questo:


Visto che Kranz, in lingua tedesca è effettivamente "corona".
Oppure può anche accadere cha appaia questo:

Karl Kranz

E allora che fai? Alzi gli occhi al cielo e ti metti di buzzo buono, con santa pazienza a falciare i rami secchi dei dati inutili, a svicolare tra i cul-de-sac informativi, a evitare i tranelli delle false indicazioni.
Fino a riprendere la buona vecchia enciclopedia di casa, tanto vituperata, ma che almeno ha, nero su bianco, una parvenza di certezza.
Scherzi a parte, è stata la necessità di utilizzare la quantità industriale di semi di papavero che il mostro m'ha spinto sconsideratamente a comprare che m'ha potrato a cercare ricette in cui fosse presente questo delizioso quanto insolito - per noi mediterranei, almeno - ingrediente.
E quindi finalmente ci sono arrivato, anche se, devo dire, anche il cartaceo ha le sue falle.
Non è così chiaro e limpido. Bisogna interpretare, anche qui.
L'entropia, tesori cari, si nasconde subdola ovunque...

Kranz al papavero

Per l'impasto
300 g farina
50 g zucchero
30 g burro
20 g lievito di birra
1 uovo
un bicchiere di latte
1 pizzico di sale

Per il ripieno
200 g semi di papavero macinati
75 g uvetta
20 g burro
75 g zucchero
1 cucchiaio di rhum
2 cucchiai di miele
1 bustina di zucchero vanigliato
1/2 cucchiaino di cannella
scorza grattugiata di mezzo limone
1 pizzico di sale
farina q.b

In una terrina mettere la farina e formarvi un incavo al centro.
Sciogliete il lievito nel latte intiepidito con un cucchiaino di zucchero - se usiamo quello disidratao va lasciato riposare per un quarto d'ora, almeno fin quando si formerà un'abbondante schiuma, segno che i fermenti del lievito si sono svegliati... - quindi versate il tutto nella farina.
Impastare bene, quindi far riposare una ventina di minuti, in luogo caldo e coperto (anche nel forno con la sola luce accesa).
Riprendere l'impasto, unire lo zucchero, l'uovo, il burro fuso, una presa di sale e impastare bene gli ingredienti.
Lavorare la pasta finché sarà liscia ed elastica e tenderà a staccarsi dalle pareti del recipiente formando una palla.
Farla quindi lievitare al caldo per 30 minuti.

Per il ripieno mi sono infine convinto: è meglio macinare i semi del papavero, sia per una questione di consistenza (i semini sono divertenti da sgranocchiare ma te li ritrovi dappertutto, soprattutto tra i denti...) sia perché il sapore è nettamente migliore.
Un macinino da caffè servirà egregiamente allo scopo.
Come ben sa chi mi segue, io ho Amanda, il macinino storico di casa...
Ma come, mi si chiederà, non odoreranno di caffè 'sti benedetti semi di papavero?
Be', sì, ma basterà far andare nel macinino un paio di cucchiaini di pangrattato, che pulirà gli ingranaggi dalle scorie di caffè.
Operazione che si potrà ripetere alla fine della nostra ricetta, se vogliamo riutilizzare l'Amanda... ops, il macinino, con altri ingredienti.
Mettete i semi di papavero tritati a bagno in una tazza d'acqua bollente per 5 minuti.
Quando si saranno ammorbiditi scolarli in un telo di cotone e strizzarlo un po' per togliere l'acqua in eccesso.
A parte far ammorbidire anche l'uvetta, in poca acqua tiepida, quindi scolarla e asciugarla con della carta da cucina.
In una ciotola mescolare lo zucchero con lo zucchero vanigliato, una presa di sale, la cannella, il miele, la scorza di il limone grattugiata, il rhum e il burro fuso.
Unite i semi di papavero e l'uvetta.
Stendete la pasta in un rettangolo, non troppo sottile come ho fatto io... - diciamo 30 x 50 cm,


e distribuirvi sopra il composto, formando poi  un rotolo che chiuderemo a ciambella.
Trasferire sulla placca del forno coperta dall'apposita carta o imburrata e infarinata, quindi praticare sulla superficie dei tagli - coltello a lama liscia, per favore... - profondi un paio di centimetri circa, e spennellare d'acqua.


Far lievitare ancora almeno venti minuti, al coperto.
Cuocete a 180° per 20 minuti.

Le tempistiche di lievitazione e di cottura, voglio ripetermi, sono sempre indicative.
Le prime dipendono dalla temperatura ambiente della zona di lavoro, le seconde dal tipo di forno.
È bene dirlo perché non bisogna MAI seguire pedissequamente le ricette d'altri.
MAI.
Questa, per esempio riportava, testualmente: "220° per 40 minuti".
Che, nel mio forno avrebbe significato estrarre un tizzone carbonizzato al vago sentore di papavero.
Mai fidarsi ciecamente delle ricette altrui, ma guardarle sempre con occhio disincantato valutando se siano o meno plausibili e/o fattibili.


Se vogliamo glassare il nostro Kranz - no, non Karl... - mescolate 100 g di zucchero al velo con un cucchiaio di rhum e uno di acqua e con questa glassa spennellate il dolce appena sfornato, lasciandolo raffreddare su una gratella.


Molto meglio, detto tra noi, di una corona di fiori, anche se di rose, o d'un "merluzzetto" teutonico senza arte né parte.
O no?...

Detto tedesco del giorno
Man muss die Feste feiern, wie sie fallen.
(lett. "Si deve fare festa come capita")
Bisogna cogliere le buone occasioni come vengono.

Oggi ascoltiamo 
Ute Lemper - Die Moritat von Meckie Messer
https://www.youtube.com/watch?v=SHFXEPYU0FQ

venerdì 5 dicembre 2014

Gricia di Amir

Amir non è di Marrakesh, né di Tripoli, e neppure di Damasco.
Amir è italiano, anzi romano, anzi di Torpignattara (o, più propriamente, Tor Pignattara), una delle tante "Tor Qualcosa" sparse per la periferia di Roma, il cui nome nasconde sedi di fortilizi, di caserme, ma anche diverse ville patrizie, in gran parte oggi sotto metri di terra...
Periferie dove un tempo si muovevano quei Ninetti tanto cari a Pasolini, che seguiva nelle catapecchie accostate lungo l'antico acquedotto, o aggrappate su qualche "montazorro" dove s'abbarbicavano grappoli di casette abusive dove, in lontananza, già sorgevano palazzoni di sette piani, o affacciate su voragini che con gli acquazzoni di novembre diventavano pozze torbide come marane.


Periferie che poi hanno accolto un'umanità snaturata e devastata dal consumismo, pronta a farsi sedurre dalle sirene del benessere, sfrenato ed egoistico che concede i suoi spazi solo a chi ha modo di essere "produttivo".

In questi spazi marginali sono arrivati i primi "stranieri", e qui hanno costruito le proprie vite.
Alcuni col tempo hanno portato i loro cari qui da noi, li hanno fatti crescere assieme agli indigeni. Con molte difficoltà iniziali, molta diffidenza da entrambe le parti, molte remore.
I nativi, come sempre, hanno accettato chiunque venisse da fuori, come un tempo avevano accettato le orde dei migranti e quindi tutte le altre popolazioni della penisola, torinesi, siciliani e quant'altro.
Poi sono nati quelli che con ironico savoire-faire si sono definiti, da sé - prima che con disprezzo lo facessero altri - "i meticci", gli incroci tra quelle differenze di colore e di costumi che oggi chiamiamo etnie.

E i meticci, a ben vedere, sono i più sinceri frutti del nostro dettame biologico, che impone frequenti e salutari ibridazioni.
Solo quel che è ibrido, meticcio, bastardo è vivo, vitale, sano. La purezza è solo un pericoloso mito, astratto e  concettuale, lontano dalla vita vera, che è caos in movimento, in cerca di una faticosa struttura.
La purezza, se esiste, è vicina piuttosto alla stasi dell'immobilità, alla morte.

Se uno ha il padre egiziano e la madre romana per forza di cose è meticcio.
Lo sarebbe anche se la madre fosse piemontese e il padre pugliese, se non vi fosse quello straccio di sovraidentità nazionale a far tacere le discrepanze identitarie...
E il meticcio, quando si sente tirare dalle sue diverse identità e le sente in conflitto vive in modo quasi schizofrenico la propria vita, sia interiore che esteriore.
Definirsi fa fatica, e se proprio volessimo insistere nell'intento di dire a noi stessi e al mondo cosa siamo - anzi cosa sembriamo e non, piuttosto, cosa facciamo e cosa lasciamo al mondo - dovremmo imparare a considerare l'identità non come un'etichetta ma come un'intersezione di due o più insiemi e, allo stesso tempo, di insiemi e sottoinsiemi sempre inclusivi.
L'essere si forgia per differenze, ma ancor meglio per accumulazioni.
Io sono romano, anzi di Torpignattara, ma romano, e quindi italiano, e poi occidentale, quindi, in definitiva, salendo di grado in grado inclusivo, un essere umano.
È così difficile da concepire?
Farebbe comodo al mondo, anche se le meschinità degli interessi, delle ideologie, - anzi i pregiudizi, nella gran parte dei casi -, e dell'istinto tribale ci fanno credere di essere "solo" romani, "solo" italiani, "solo" occidentali.
E non altro.

Mi ripeto con finta ingenuità, ma la sintesi tra le cucine, il melting-pot culinario, anche se suona ottimistico e buonista, alla fine aiuta a relativizzare gli estremi, a credere proprie e solo proprie alcune caratteristiche ed espressioni culturali, mentre è sempre la nostra bella e variegata umanità a manifestarsi, ad agire nel mondo.
Si potrebbe dire: cosa c'è di più romanesco di un piatto di tonnarelli/ spaghetti/ rigatoni/ bombolotti - e quant'altro - alla Gricia?
È un'amatriciana in bianco, qualcosa che affonda le radici nella cucina dei pastori, in un tempo in cui il pomodoro era al di là dall'arrivare in Europa e, se c'era, era considerato come oggi la begonia, solo una pianta ornamentale.
Ma è un piatto che, come gran parte di quelli della cucina popolare romana, è "forestiero" e come ogni cosa che venga da fuori, prontamente assimilato e fatto proprio.
Perché a dispetto dei fattacci d'ordine pubblico e di coatta convivenza in condizioni pessime, Roma accoglie e fa suo.
Da sempre.
Che la Gricia venga dalla Tuscia, dalla Ciociaria, non è dato dirlo.
Nessuno lo saprà mai, e in fondo nemmeno è importante saperlo.
Quel che conta è che chi nasca qui, e abbia in sé la consapevolezza delle culture che lo formano, impari a conoscerla e ad amarla.
Assieme al cous-cous, ai vermicelli in brodo, al pollo in tandoori...


Amir Issaa è un artista, un rapper, e oggi anche un produttore musicale.
Una persona che ha saputo trovare nella musica, e nell'hip-hop in particolare, un modo per esprimere la propria "alterità", quella stessa che ognuno si potra dentro senza neppure vederla, solo perché non ha gli occhi a mandorla né la pelle scura.
Amir oggi ha raggiunto la notorietà, e se l'è meritata tutta.
Tanti, al suo posto, con le sue difficili premesse - un padre in carcere e una madre che deve crescere da sola un figlio in un "quartiere-ghetto"... -  si sarebbero abbandonati e avrebbero mollato.
Tanti l'hanno fatto, purtroppo.
Amir ha il volto di un'Italia che non vuole soccombere.
Che vuole esserci, nonostante tutto.
Gli dedico questa Gricia, un po' anomala, devo dire, per via delle mandorle filettate messe 'n coppa.
Ma come potevo richiamare il Maghreb senza stravolgere la ricetta se non con le mandorle?
Bella, Amì...


Gricia di Amir
Per prima cosa c'è da dire che nella Gricia, come pure nell'Amatriciana, si usa il guanciale, non la pancetta: sono parti diverse del maiale, con diversa lavorazione e diverso sapore, e la differenza si sente, non è per pedanteria.
Intanto un padellino ben arroventato far tostate un paio di cucchiai di mandorle a filetti, muovendole spesso per non farle bruciare, e una volta pronte toglierle e tenerle da parte.
Nella stessa padella soffriggere del guanciale a pezzetti.
I soliti puristi dicono: 3 x 1 cm e 0,8 cm di altezza, ma l'importante è che friggendo riesca a cuocere fondendo il grasso e rosolarsi senza bruciare. Non serve nemmeno aggiungere olio, basta il grasso della carne.
Aggiungere del vino bianco secco, far svaporare e aggiungere, a piacere, del peperoncino a pezzi.
Nel frattempo fate cuocere la pasta, lunga o corta, a seconda delle preferenze e di come risulti più "maneggevole".
Quando la pasta è cotta, scolarla e versarla in padella per mantecarla con del pecorino,
Anzi, meglio ancora: preparare una cremina col pecorino e l'acqua di cottura della pasta, come perla cacio e pepe, per capirsi, quindi versare nella zuppiera la pasta condita col in padella col guanciale, mescolare ben bene, aggiungendo poca acqua di cottura che avrete avuto l'accortezza di tenere da parte e...
Ah, si, le mandorle a filetti tostate a completare l'opera.
E se non vi sconfinferano le mandorle, beh, allora altra generosa grattata di pecorino.
E come dico sempre: chi s'è visto s'è visto.

Il Mausoleo di Sant'Elena, la "Torre delle Pignatte" che ha dato il nome al quartiere.
Le pignatte, che servivano ad alleggerire la struttura, sono ancora visibili nella parte interna.

Detto romano del giorno
Chi nun è bono pe' se, nun è bono manco pe' l'antri.

Oggi ascoltiamo
Amir Issaa - Ius Music