mercoledì 30 luglio 2014

Dobos al caffè

- Cinque!
- Sette!
- Dai, Leppagorre, facciamo cinque, come i sensi e le dita d'una mano.
- Di voi umani, forse. No, no, meglio sette, come i colori, i nani e le stagioni!
- Ma le stagioni...
- È vero, è vero, sono undici, scusa. Comunque, ho detto sette!
- E io ho detto cinque! O non se ne fa niente!
- Sette, o nemmeno m'affaccio in cucina!
- E capirai che angoscia!... Cinque non di più!
- Sette!
- Sì, morra! Uffa... Facciamo sei e non se ne parla più?
- Mhhh... va bene. Però col cioccolato!
- No, niente cioccolato!
- E lo strato di caramello, ovvio!
- Meno che mai!
- Allora me ne vado!
- Bene, ti preparo la valigia. Dov'è, nel mio duodeno?
- Sei ridicolo, col tuo spirito di patata!
- Tanto saresti ghiotto anche di quello, figurati!
- Come fai a saperlo?
- Zeppa!
- Cafone!
- Ignorante senza rimedio!
- Cattivo!
Dopo un'estenuante trattativa - di quelle che farebbero tremare le vene dei polsi anche a un navigato mercante marocchino - decidiamo di metterci all'opera e provare a fare la torta Dobos (1).
Ma la "nostra" Dobos, ovviamente.
Tutta la cagnara - se così si può dire, riferendosi anche a un gattodemone - è sorta sul numero di strati della torta, manco a dirlo: cinque ne prevede la ricetta di Mastro Dobos, e tanti ero intenzionato a farne.
Ma lui no, lui che adesso sa leggere, "s'è informato" e sostiene che sono, senza ombra di dubbio, sette.
Com'è che non ha s'è inventato la fandonia d'essere stato ospite della panza di Cecco Beppe e d'aver assaggiato lui in primis, la vera, originale e inconfondibile Dobos.
Ma tutta la filologia dolciaria non conta un tubo, quando poi si decide di modificare a proprio gusto una ricetta.
Infatti invece della crema al burro e cioccolato ho - abbiamo?... - usato una crema al burro e caffè.
Sì, sempre di burro si tratta, ma tant'è.
Vogliamo forse fare una Dobos con la crema pasticcera?
Giammai!

Dobos al caffè
150 g    farina
150 g    zucchero
6    uova
80 g    burro
Un pizzico di sale e una bustina di vanillina.
Per prima cosa occorre preparare i sei dischi di pandispagna.
Separare i tuorli dagli albumi.
Montare i primi con 3/4 dello zucchero, il sale e la vanillina.
Iniziare a lavorare gli albumi, con un po' di succo di limone e quando il composto inizia a diventare spumoso versare il rimanente zucchero e frustare senza pietà fino ad ottenere un meringaggio sodo e compatto.
Unire ai tuorli la farina setacciata e gli albumi, alternandoli e lavorando con la marisa (2) con delicatezza per non smontare l'impasto.
Ora, la procedura classica prevede di cuocere separatamente sei dischi di pasta utilizzando una teglia, meglio se a cerniera, versando due o tre cucchiai d'impasto alla volta su un foglio di carta forno ritagliato della stesso diametro della teglia utilizzata e immargarinato (3).
Livellare con la spatola l'impasto e cuocere a 200° per una decina di minuti.
Ripetete la cottura con le altre 5 porzioni, ottenendo 6 dischi sottili che, una volta pronti, si faranno raffreddare bene prima del montaggio del dolce.


Un uccellino però (o, meglio, un vecchio testo di cucina) m'ha suggerito però di sfruttare un altro metodo, forse più macchinoso, non saprei, ma che sono stato curioso di provare.
Si preparano sei dischi di carta forno tagliati allo stesso diametro della teglia, si immargarinano da entrambi i lati, quindi si pone un primo disco nella teglia a cerniera, si versa una dose d'impasto ab libitum, quindi si pone un secondo disco di carta e si procede con il secondo strato d'impasto, fino a esaurimento.
Ovvio che la teglia deve essere d'altezza adeguata, almeno 6 cm.

Per la farcia, ho deciso di riprovare una diversa crema al burro, soprattutto dopo aver letto che si può rendere meno stucchevole di quella che solitamente si prepara.
In genere si lavora una quantità X di burro pomata aggiungendo mano a mano zucchero a velo fino ad ottenere una crema liscia e spumosa. E burrosa.
SI può invece aggiungere a una quantità x di crema burro una quantità x/2 di crema pasticcera, oppure di meringa italiana, o anche di pâte a bombe.
Usiamo la pastabbomba, ovvero la pâte a bombe, con cui avremo molto a che fare...
250 g    burro
120 g    zucchero
60 ml    acqua
4          tuorli
un cucchiaio di glucosio (o di miele)
Preparare lo sciroppo versando  in un pentolino lo zucchero e l'acqua e portando ad ebollizione a fuoco moderato fino alla temperatura di 121° C, allo stadio di cottura detto della "piccola bolla".
Infatti, perché prendendo una piccola quantità di sciroppo tra le dita bagnate d'acqua - gelata! - si deve formare una pallina morbida e cedevole al tatto.
Se non si ha un termometro e non si vuol rischiare di perdere le impronte digitali, anche solo per una pastabbomba, calcolare circa 5-6 minuti dall'inizio del bollore dello sciroppo.
Nel frattempo lavorare i tuorli con la frusta e quando lo sciroppo sarà pronto versarlo a filo sui tuorli continuando a lavorare.
Lavorare ad oltranza, fintanto che il composto avrà raggiunto la temperatura ambiente.
I tuorli diventeranno gonfi e spumosi.
A questo punto aggiungere il burro pomata a pezzetti, lavorando per incorporarlo alla crema.
Nel mio caso ho aggiunto un paio di cucchiaini di caffè solubile nei tuorli.


Comporre ora il dolce.
Sul primo disco alla base spalmare un paio di cucchiai di crema al burro bombata, disporre il secondo disco di pandispagna e procedere col secondo piano della nostra deliziosa babele, che farà una fine più meritata di quella storica, già si sa.
Una volta arrivati all'ultimo disco spalmare la crema rimanente lungo le pareti del dolce, lavorando con la spatola.
Mentre la crema è ancora morbida si possono applicare decorazioni lungo il perimetro del dolce: nocciole tritate, confettini o, come nel mio caso, cioccolato grattugiato.
Nella Dobos classica l'ultimo disco è spalmato di caramello e diviso in dodici spicchi prima che questo si raffreddi, ma ho preferito preparare della glassa all'acqua e distribuirla con la sac-à-poche.
In due ciotoline ho diviso 125 g di zucchero a velo, in una ho versato un cucchiaio d'acqua e nell'altra uno di caffè e un pizzico di cacao amaro.
Ho quindi scatafrombolato (4) la glassa bianca e ricoperto con successiva scatafrombolata di glassa al caffè.
Poi in frigo, in castigo.


- Ma com'è possibile che tu ti sia fissato così su questo dolce?
- È uno dei pochi dolci che non sia figlio di N.N. 
- Ma che diamine dici...
- Sì, pensa che gran parte delle ricette di torte tradizionali sono d'autore ignoto.
- Magari perché nei secoli hanno avuto più d'un autore, che dici?
- Sì, ma per esempio la Sacher di padri ne ha avuti anche due, a parte i processi e gli appelli che l'hanno poi attribuita solo a uno.
- D'accordo ma...
- Invece mi sai dire chi ha inventato la crostata? e la brioscia? e il ciambellone della nonna?
- Magari qualche nonna, no? Magari pure in carrozza...

- La smetti di prendermi in giro?
- Come sei suscettibile... Da quando sai leggere non ti si tiene più! E togli quegli occhiali, non fare il ridicolo!
- Non mi danno un tono professorale?
- No, specie se indossi i Dior. Sembri la sorella psicopatica di Bette Davis!
- E chi era?...
- Cercatelo su internet. Sai leggere ormai, no?


Detto romano del giorno
Né donna né tela, se guardeno a llume de cannéla.

Né la donna né la tela si guardano - e si scelgono... - a lume di candela

Oggi ascoltiamo
Kim Carnes - Bette Davis Eyes

https://www.youtube.com/watch?v=EPOIS5taqA8 

NOTE
1) La torta Dobos (in ungherese dobos torta /doboʃ tortɒ/) è una torta inventata dal pasticciere ungherese József C. Dobos (1847 - 1924) nell'anno 1884. È composta di cinque strati di pan di Spagna, su cui è spalmata una crema di cioccolato e burro, mentre sulla cima della torta è presente uno strato sottile di caramello.
La torta fu presentata all'esibizione nazionale generale di Budapest del 1885. I primi ospiti a poter provare la nuova delizia furono Francesco Giuseppe e la consorte Elisabetta. La torta assunse presto fama in tutta Europa, grazie anche alla promozione fatta da Dobos, che viaggiò a lungo presentando la propria torta. Il caramello serviva a mantenerla più a lungo ed evitare si seccasse, in un periodo in cui la refrigerazione non era ancora di uso comune. La ricetta rimase segreta fino a quando Dobos si ritirò e la regalò alla Camera dei Pasticcieri di Budapest.

fonte Wiki
2) Il leccapentole, la spatolina di gomma, sì, insomma, lei: la marisa!
3) Che uso se ne può fare della margarina, se non quello d'ungervi le teglie e gli stampi al posto del burro? Non ne vedo altri...
4) Rovesciato rovinosamente. Gettato su una superficie, spesso riferito a terra.

venerdì 25 luglio 2014

Patina Urticarum - Sformato di ortiche


Spesso in natura il primo approccio con l'Altro è fastidioso, se non proprio doloroso.
Non parlo dei predatori, i canidi, i felidi o i selachimorfi; ovvero quelle belve talmente ben attrezzate da millenni d'evoluzione da risultare vere e proprie macchine da guerra.
Parlo degli esseri che senza la loro corazza, gli aculei, gli strumenti di dissimulazione o un aspetto esagerato e spaventoso, sarebbero inermi e in balia delle prime fauci di passaggio.
Tutti gli ammenicoli che rendono un mucchietto di pelle e occhi un complicato marchingegno medievale si sono sviluppati solo per proteggere una creatura delicata, un esserino che altrimenti soccomberebbe all'istante.
Le tartarughe, i ricci, l'istrice, l'echidna...
l'elenco potrebbe andare avanti per pagine intere.
E nel mondo vegetale, guarda un po', è sempre la favolosità ad essere protetta da corazze o spine aguzze e pericolose.

Ah, le noci d'oro oleoso...
Ah, le rose di velluto inebriante...
Ah le more dal sapore di sole...
L'ortica, invece, così umile e scontrosa da sembrare quasi perniciosa, è spesso ingiustamente vituperata solo perché s'ostina a proteggere con le sue fastidiose vescichette - appunto... urticanti - un tesoro apparentemente inesistente.
Apparentemente, però...
Se nella medicina popolare le proprietà stimolanti delle sue foglie sono da sempre state usate nei casi in cui servisse un "controirritante" (1), in cucina sono presenti in molte preparazioni.
È una pianta spontanea, che ha bisogno davvero di poco per crescere e moltiplicarsi.
C'è poi chi se la ritrova nel terrazzo, e invece di trattarla come pianta infestante la coltiva con dedizione.
Anche perché è l'unica che resiste egregiamente a qualsivoglia pollice grigio...
Ah, un consiglio: passeggiata in campagna con annesso pranzetto "al sacco" o all'osteria fuori porta?
Portarsi sempre dietro un bustone e dei guanti da giardinaggio (o anche un paio di quelli in lattice), per poter così raccogliere agevolmente la nostra amata piantina e farsene una sporta.

Questa è una ricetta tratta da De re coquinaria di Apicio, il Gran Ghiottone Magno dell'antica Roma.
Chi meglio di lui?
La ricetta originale dice:
Prendi le ortiche, lavale, scolale, falle asciugare su una tavola e poi tagliale a pezzetti. 
Trita 10 scupoli di pepe, bagna con il liquamen e frega bene contro le pareti di mortaio il composto. 
Poi aggiungi 2 ciati di liquamen e sei once d’olio e fa bollire in pentola. 
Dopo che ha bollito mettila a raffreddare. 
Ungi d’olio una teglia, sbatti 8 uova e aggiungi le ortiche. Si sistema nella teglia e si pone con cenere calda sia sotto che sopra (il coperchio).
Apicio - De re coquinaria

Bene, e... che d'è 'sto liquamen?
Non sarà mica...? Ebbene sì...
Liquamen era la parola comune per "salamoia", e poteva essere realizzata utilizzando diversi aromi.
Era considerato liquamen anche il famigerato garum (2), la poltiglia di pesce macerato che i Romani usavano come la salsa Worchester, se non di più. 


Patina Urticarum - Sformato di ortiche
È un piatto che si può realizzare anche con la bieta e con gli spinaci, anche se questi non erano conosciuti dai Romani.
500 g  ortiche
4         uova
5 g      pepe
2 acciughe, anche in pasta, oppure 4 cucchiai di nuoc-nam (3)
4 cucchiai d’olio
Per una teglia da 20 centimetri possono bastare anche 300 g di ortiche e 3-4 uova.
Preparare la salamoia: sciogliere le acciughe in poco olio e pochissimo aceto.
Non sarà lo stesso liquamen dei Romani, ma non credo che se ne adonterebbero...
Scegliere le foglie meno coriacee della pianta, lavarle, scolarle e tagliarle a pezzi, unire il pepe, la salamoia, e far bollire.
Una volta freddate unirle alle uova sbattute, e versare il composto in una teglia unta d'olio.
Si può cuocere in forno o sulla brace, coprendo con le braci anche il coperchio del testo, alla maniera antica.
L'ideale è però cuocerla in forno a bagnomaria, come per la crême caramel, mettendo la teglia parzialmente  immersa in acqua in un recipiente più grande.
In tal caso ci vorrà circa un'ora a 150°.

Detto romano del giorno
A 'sto monno tutto pò stà forché l'omo gravido.

Oggi ascoltiamo
Jeff Buckley & Elizabeth Fraser - All Flowers In Time Bend Towards The Sun 

https://www.youtube.com/watch?v=JnPvnIKCJYA

NOTE
1) Da Wiki: "Nella medicina popolare queste piante hanno trovato impiego sin dagli antichi Egizi. Le applicazioni sfruttano le proprietà stimolanti e irritanti dei peli, e includono il trattamento di anemie, reumatismi, artriti, eczemi, asma, infezioni della pelle e dolori intestinali, oppure tradizionalmente impiegate come shampoo o contro le emorroidi. L'uso medicinale di U. dioica e U. urens è stato scientificamente comprovato contro artriti, reumatismi, riniti allergiche e per il trattamento dell'ipertrofia prostatica benigna."
2)  Il garum era una salsa ottenuta dalle interiora di pesce, mescolate con sale e spezie (fino a 16 spezie diverse) e messe a macerare al sole per 65 giorni. Il liquido ottenuto si filtrava, ottenendo la parte migliore e cioè il garum, mentre la rimanente parte solida era l'allec, una salsa secondaria.
All'epoca esistevano diversi tipi di garum, e non si condiva impunemente ogni cosa con la prima salsa che si avesse sotto mano. Per l'insalata, infatti, se ne usava un tipo molto delicato e che, secondo Plinio il Vecchio, aveva "il calore del miele ed è così buono che può essere bevuto in bicchierini".
3) Il nuoc-nam è una salsa indocinese molto simile al garum.

giovedì 17 luglio 2014

Orecchiette affumicate

Bisogna festeggiare, ogni volta.
Ogni volta che succede qualcosa di bello, anche se non è imprevisto.
Anzi, proprio per quello.
Ogni volta che s'aggiunge un piccolo segno positivo sul tornaconto della vita.
Ogni volta che dobbiamo dar man forte a quella parte di noi che vuole vivere con gioia, nonostante le brutture del mondo, la follia dilagante e l'assenza di senso.
Non serve molto, eh? Quel tanto che ci riconfermi la gioia d'esser vivi.
Una mezz'ora al parco, a piedi nudi sull'erba.
Una bevuta d'acqua fresca a uno dei tanti "nasoni" che costellano le vie di Roma.



Un assaggio a qualcosa che ci incuriosce. Magari dei sapori nuovi.
Cambiare la solita strada fatta tutti i giorni, anche solo di pochi passi.
Piccoli gesti quotidiani di manutenzione dello spirito.

E a pranzo qualcosa di semplice, tanto per non fare il solito piatto di pasta a tirar via, in fretta e furia, mangiato con l'imbuto.
Magari delle...


Orecchiette affumicate
Per due (sì, magari!...)
250 g    orecchiette
200 g    pomodorini ciliegino, magari quelli piccini piccini
30 g ca.    salmone affumicato
1 generoso spicchio d'aglio
olio, sale, pepe e timo q.b.
Mentre le orecchiette cuociono (di solito ci vogliono 12-15 minuti) preparare il condimento.
Tritare l'aglio e farlo imbiondire in un tegame un paio di cucchiai d'olio.
Aggiungere i pomodorini tagliati a metà, o in quattro se sono un po' grossotti, e cuocerli per qualche minuto.
Non troppo, però: devono solo appassire.
Salare, aggiungere una spolverata di timo e spegnere la fiamma.
Quando le orecchiette saranno cotte scolarle e versarle nel tegame, aggiungere il salmone tagliato a striscioline sottili e mescolare bene.
Il salmone non deve cuocere, ma solo saldarsi col calore della pasta.
L'ingrediente di questo piatto è, senza alcun dubbio, l'aglio.
È lui il sole sulfureo attorno al quale ruotano come pianeti i sapori degli altri ingredienti.
C'è infatti il pianeta Ciliegino, dolce, aspro e terroso, che ricorda la Sicilia e il profumo del Mediterraneo in un giorno d'estate.
C'è il pianeta Salmone, snob e sfacciato come una foto di Robert Mapplethorpe, all'inizio discreto e poi quasi sguaiato, uno che, come si dice a Napoli "Trase e spighette e se mette 'e chiatto" (Entra di fianco e poi s'allarga bello comodo).
Poi c'è il pianeta Timo, dalla costellazione di Origano, che con i suoi due satelliti, Salvia e Maggiorana, riesce a rendere fantascientifico il piatto più scialbo e banale.
E la Cintura Untuosa, segnalata nelle carte come OEVO, avvolge serenamente tutto questo sistema.
Il tempo di sparire in un attimo in quel famelico buco nero detto Gargarozzomio, da cui ben pochi sistemi del genere, anzi nessuno, a dire il vero, si sono mai salvati...


Versione proletaria
Sostituire il salmone affumicato con una scatola da 160 g di tonno in scatola, che andrà a sposare l'aglio appena imbiondito nel tegame, seguito da due alici sminuzzate.
Far insaporire un paio di minuti quindi aggiungere i pomodorini, c.s.

Aforisma del giorno
La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo.
Fernando Pessoa

Oggi ascoltiamo

4 Non Blondes - Whats Up
https://www.youtube.com/watch?v=6NXnxTNIWkc

martedì 8 luglio 2014

Conchiglie pesca e gorgonzola

Pandora, l’improvvida fanciulla che scoperchiò il vaso liberando tutti i mali del mondo, fu ben poca cosa.

Pandora in un dipinto Kirk Richards

Eva, madre nostra - che per un lapsus di scrittura avevo scritto “mostra” e quasi quasi lo lasciavo così com’era... - così ingenua ma pur così ghiotta di mele - e spesso ricordata solo negli improperi in associazione a una femmina d’animale - fu davvero poca cosa.
Insomma, avessi mai insegnato a leggere a quel mostro duodenale dalle fattezze feline!
Da quando Leppagorre sa leggere la situazione è precipitata.
Si dirà: “Ma allora cos’è quest’iperbole nel raffrontarlo alle nostre sventurate progenitrici? Al massimo ne soffrirà la tua digestione, mica ne verrà sconvolto l’assetto dell’intera umanità!”
Certo, vero, tutto vero, ma il fatto è che se anche mi beffo della sua ingordigia un po’ ne temo ancora l’aspetto “demoniaco”.
È come fare amicizia con una tenia: sì, bella, simpatica, affascinante conversatrice, ma poi, a ben vedere, sempre una tenia è.
Così il mio caro ospite, che sempre demone è, e hai voglia a nascondere pubblicazioni e togliere i link ai siti più compromettenti: non c’è verso, una volta assaggiato il sapore della vita non si torna più indietro.
Vivendo la materia attraverso di me mi “costringe” spesso,  anzi sempre, a fare due più due anche quando a sommarsi non sono numeri tra loro "omogenei".
Ho in casa un cetriolo e della marmellata di ciliegie? Il lampo verde d’una interiore aurora boreale mi dice, senza parole, “Prova un po’ a sentire come stanno bene assieme?...”, presupponendo che l'esito debba dare, per chissà quale strana alchimia, sempre esito positivo.
Finora sono riuscito a dire di no soltanto ad alici e zabajone, e non è detto che non me lo riproponga...
Che demone sarebbe, altrimenti, mica è un compagnuccio di giochi. Un tormento è.
Ma a volte anche un gioioso tormento, devo ammettere.
Come quando ha scoperto che la dolcezza di molti frutti si sposa alla perfezione con la sapidità di cibi di cui non penseresti mai di mettere assieme sullo stesso piatto.
Se il cacio con le pere è diventato un proverbiale monito alla prudenza - più che altro per il fatto che il contadino potrebbe farsi furbo e aumentare i prezzi... - tutto il resto è ormai terreno quotidiano della cucina moderna.
Per stupire, sì, perché spesso prevale il gesto in sé, come nell’arte contemporanea.
Quindi piatti arditi che mai sarebbero accolti nelle tavole domenicali di qualsivoglia popolazione del mondo, come pure nessuno metterebbe sul tinello l’ormai putrolento barattolino di Manzoni... (1)
Ma anche per scoprire nuove associazioni, i nuovi prosciutto&melone che aspirino a farsi classici.
Quindi ben venga la curiosità malsana del mostro interiore, come d’ogni qualsiasi altro mostro.
In fondo siamo qui mica per avere delle risposte ma per farci delle domande.


Conchiglie pesca e gorgonzola
200 g    conchiglie, o altra pasta corta
2           pesche, non troppo mature
100 g    gorgonzola piccante
Una noce di burro, olio, sale e timo q.b
Far fondere metà del burro in un tegamino, tuffarvi le pesche sbucciate e tagliate a dadini.
Rigirare spesso.
Mentre stanno per farsi trasparenti ai bordi, aggiungere una spruzzata di timo, girare e spegnere.
Meglio che non perdano del tutto la loro consistenza.
L'altra metà del burro servirà a sciogliere il gorgonzola, nel quale tuffare la pasta una volta cotta aggiungendo, se aggrada, una spruzzata di parmigiano grattugiato.
Unire le pesche trifolate e mescolare velocemente.
Da mangiare belle calde.

NOTE
1) L'arte contemporanea ha avuto anche il merito - c'è chi dice il solo... - d'aver scardinato l'idea tutta borghese che l'Opera d'Arte (mi raccomando alle maiuscole) debba essere un oggetto da appendere alla parete del salotto, possibilmente dopo averlo pagato un occhio della testa.

Detto romano del giorno
Nun se crede er santo insino che nun se vede er miracolo.

Non si crede al santo fincé non si vede il miracolo.


Oggi ascoltiamo
The Rolling Stones - Sympathy For The Devil

https://www.youtube.com/watch?v=vBecM3CQVD8

venerdì 4 luglio 2014

Gattosarda, una Gattoparda in bianco

«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.»
La frase di Tancredi, il nipote del principe Salina, è quello che oggi, nell'era del potere - e strapotere - dei media, si sarebbe potuto chiamare un "tormentone".
Con la differenza che dopo qualche mese, come ogni moda passeggera, il tormentone passa, come la "hit del momento" nella radio generalista, mentre le perle di saggezza come questa restano, eccome se restano.
L'indolenza, la rassegnazione cronica, lo sguardo cinico e disincantato verso ogni situazione fanno sì che ogni mutazione, anche la più drammatica e radicale - il cambio dello status-quo e il declino di una classe dirigente - non sia mai veramente tale.  
La Sicilia non è un'isola, è un mare.
All'occhio imbevuto di sicilianità (1) tutto quello che accade sopra è come una burrasca, che non muta nulla della struttura profonda del fondale. (2)
E quanto quest'atteggiamento sia vicino all'indolenza cinica dei romani, cresciuti per secoli sotto l'immobilità di uno stato assolutista, è comprensibile e riesce a far sentire vicini, a pelle, certi atteggiamenti tipicamente "isolani".
Di un'isola che d'invasioni e di padroni ne ha visti venire da ogni parte d'Europa.
Del Gattopardo s'è detto molto, come pure del suo eccentrico autore - un uomo davvero d'altri tempi - e non è il caso di aggiungere altro se non che, agli occhi d'un ghiottone, non può sfuggire il rimando culinario, con il pantagruelico banchetto in cui viene servito ogni bendiddio (3).
La cucina siciliana è opulenta (4), eccessiva - ah, i dolci siciliani così dolci da sfiorare lo stucchevole - ma, allo stesso tempo, molto "italiana", con l'attenzione per la genuinità e il rispetto del cibo.
E tra le portate del pranzo - è il caso di dirlo - principesco, spicca la presenza del timballo di maccheroni, una leccornia che da solo al pensiero fa scattare la reazione di Pavlov.
"L'oro brunito dell'involucro, la fraganza di zucchero e di cannella che ne emanava, non era che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall'interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un fumo carico di aromi e si scorgevano poi i fegatini di pollo, le ovette dure, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroni corti, cui l'estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio."
Vogliamo andare avanti? No di certo, grazie.
La ricetta più vicina a quella del testo di Tomasi di Lampedusa la riporta un articolo sul sito Taccuini Storici, e da sola vale una domenica con parenti e/o amici attorno a un tavolo, con tanto di Nero d'Avola e Corvo di Salaparuta.
Questa è invece una versione in bianco, con i tortellini al posto dei maccheroni - o degli ziti, secondo alcune scuole di pensiero - e la besciamella e ragù di fegatini al posto del ricco ragù siciliano.
Versione sobria ma comunque di bell'effetto.


Gattosarda, la Gattoparda in bianco

Per la "coccia"
Una dose di pasta frolla da 400 g di farina, quindi:
400 g    farina
200 g    burro
100 g    zucchero (dolce ma non troppo)
3           tuorli
un pizzico di sale

Per il ripieno
400 g     tortellini
250 g     macinato di vitello
50 g       burro
150 g     fegatini
50 g       parmigiano grattugiato
2    spicchi d'aglio
1    cipolla media
1    costa di sedano
1    carota piccola
500 ml  di  besciamella, quindi:
    500 ml     latte
    50 g    burro
    50 g    farina
    sale e pepe q.b.
1/2 bicchiere di vino rosso
olio, sale e pepe q.b.
Fare un soffritto con aglio, cipolla, sedano e carota tritati nel burro, a cui sarà stato aggiunto un paio di cucchiai d'olio evo.
Aggiungere il macinato di vitello e far insaporire, quindi unire il vino rosso, facendolo evaporare.
Far cuocere 40 minuti circa unendo due, tre mestoli d'acqua.
Nel frattempo trifolare in padella i fegatini tagliati grossolanamente, in poco burro.
Una volta cotti unirli alla carne e far cuocere altri 10 minuti.
Preparare la besciamella: in un pentolino far sciogliere il burro, unire la farina, far cuocere qualche minuto sempre mescolando, quindi unire il latte, amalgamandolo con la frusta per evitare il formarsi dei grumi.
Portare a bollore e cuocere 5 minuti almeno, per addensare la salsa.
Farla raffreddare.
Cuocere i tortellini in abbondante acqua salata e tirarli su al dente, fermandone la cottura in acqua fredda.
Scolarli e farli intiepidire, quindi unirli al ragù e alla besciamella.
Stendere 3/4 della pasta frolla in uno stampo (meglio se a cerniera) d'altezza non inferiore ai 6 cm, ricoprendone la base e i bordi.
Versare il ripieno di tortellini al ragù nel guscio di frolla, quindi chiudere con il resto della pasta da cui avremo ricavato il coperchio.
Se avanza della frolla usarla per decorare la superficie della Gattoparda.


Nel mio caso, visto che la mente sta sempre lì, ho composto una Gattosarda.
Quando penso all'insularità la mia mente e il mio cuore go west... 


Spennellare la superficie con tuorlo e far cuocere mezz'ora a 180°.


Detto siciliano del giorno
Ovu d'un'ura, pani d'un jurnu, vinu d'un annu, nun ficiri mai dannu

Uovo d'un'ora, pane d'un giorno, vino d'un anno, non fecero mai danno


Oggi ascoltiamo
Pet Shop Boys - Go West

https://www.youtube.com/watch?v=SezoGW_z9w0

NOTE
1) Non vituperiamo l'utilissima Wiki, che permette a ognuno di pretendere - nel senso inglese di fingersi - una cultura che non si ha. Riguardo alla sicilianità, poi...
2) Immancabile s'impone la "Teoria della Sicilia" di Manlio Sgalambro. Che "ogni isola attenda inesorabile d'inabissarsi" ha echi da tragedia antica. La declama l'autore qui, in poco più di due minuti che paiono eterni.
3) La casa editrice Il Leone Verde ha pubblicato una serie d'interessanti libriccini che raccontano il nesso tra cucina e letteratura. Ed Elena Carcano ha appunto scritto "Il banchetto del Gattopardo. A tavola con l'aristocrazia siciliana".
4) Un'occhiata ai Taccuini Storici per un esauriente articolo.