domenica 29 dicembre 2013

Pane frattau

Certe volte le notizie che si trovano in Rete non sono poi così affidabili.
Chiunque abbia cercato per qualche disturbo di salute (suo o di qualche persona cara) se non conforto almeno un'esposizione chiara della faccenda si è di certo ritrovato a collegare all'emicrania una qualche forma tumorale maligna.
Molti ne hanno anche ironizzato, ovviamente, ma la tentazione di vedere Internet non come un'immensa bacheca globale ma come la "Summa del Sapere" è sempre in agguato.
Per quel che riguarda poi l'origine delle ricette di cucina, ci sarebbe da aprire un capitolo a parte.
Per esempio, sul Pane Frattau, Wikipedia dice:

"Il pane frattau, noto talvolta anche con la variante pane vrattau, è un piatto tradizionale della Sardegna, preparato specialmente nella regione della Barbagia, e nella parte centrale dell'isola.

Origine
Il pane frattau, è una pietanza composta da ingredienti semplici quali le uova, il pane carasau, tipico pane sardo detto anche carta da musica, la salsa di pomodoro, l'olio d'oliva e il pecorino (...)
Due sono le tradizioni sull'origine di questo piatto:
*    Nacque con l'arrivo della II Guerra Mondiale; a seguito dello scarseggiare di cibo, i contadini, specialmente, utilizzavano i pochi ingredienti che avevano a disposizione.
 *   Una leggenda dice che venne inventato come piatto da presentare al re Umberto I: due donne per la fretta e per il ritardo, durante una visita del re in Sardegna, cercarono di arrangiarsi con ciò che trovarono per dare forma ad un piatto da porgere al monarca. Corsero a prendere della conserva di pomodoro, due uova nel pollaio, del basilico e della cipolla dall'orto e infine presero del pane dalla credenza. Prepararono in fretta e furia il tutto, disponendo il piatto in maniera frettolosa. Offertolo al sovrano, a quanto narra la leggenda, quest'ultimo gradì particolarmente la pietanza. Il nome "frattau", quindi, deriverebbe dalla parola "fretta" o dalla parola "nel frattempo, frattanto".
(...) Questa preparazione molto semplice (ed ancora oggi attuale) poteva essere arricchita con un uovo fatto cuocere nella stessa acqua e adagiato in cima al pane ormai ammorbidito (questo però solo in tempi molto più recenti)".

Ecco, mi dispiace per i redattori di questo elefantiaco progetto ma purtroppo, stavolta, hanno preso na toppa, come diciamo qui, ossia un grosso abbaglio. E anche più di uno.
Di vero c'è solo che è un piatto tipico sardo, il resto invece sembra messo lì per colmare una lacuna che da anni fa parte di quell'immenso gruviera che è la storia della cucina.
Ma è anche comprensibile, visto che non sono in molti a conoscere gli aspetti più reconditi della storia de s'isola e su entu (l'isola del vento).
Quello sardo venne tacciato in passato per uno dei popoli più concreti d'Europa, la cui lingua non sarebbe riuscita ad esprimere alcun concetto astratto, legata com'era al ciclo della vita rurale, con l'agricoltura e la pastorizia a farla da padrone.
Niente di tutto questo, ovviamente, è vero ma, piuttosto, è stato per secoli un crudele stereotipo creato e utilizzato dall'invasore di turno. E interiorizzato dai Sardi stessi.
Che c'è di meglio, per assoggettare qualcuno, che farlo sentire inadeguato, incivile, arcaico?
Ma chi oserebbe dire la stessa cosa dei Latini, che avevano lo stesso tipo di vita e d'economia e che avrebbero dominato tutto il mondo allora conosciuto?
Siamo campagnoli ma la nostra lingua è piena di metafore; e anche pecorari, sì, ma con tanta e tanta fantasia.
Basta leggere uno qualsiasi dei volumi che raccontano le leggende sarde (1) per rendersi conto della moltitudine di esseri fantastici che popolano l'immaginario di questa gente, ritenuta a torto "semplice", se non addirittura sempliciotta.
Ci sono le janas (le fate sarde, sia benevole che malevoli), sa mama e su sole (che rapiva i bambini che solo s'azzardassero a sfidare la calura estiva), e con lei sa mama e su entu (quella del vento furioso) e sa mama e sa funtana (che puniva chi si fosse avvicinato troppo ai pozzi).
E poi s'iscultone (il basilisco, dallo sguardo velenoso), s'erchitu (il bue mannaro), sa surbile (la donna vampiro), sas panas (donne condannate a lavare per secoli i panni dei loro figli morti per incuria), sa musca macedda (la mosca che avrebbe infestato il mondo qualora qualche sprovveduto avesse avuto la sconsideratezza di liberarla per appropriarsi del tesoro che questa custodiva).  
Insomma, un'infinità di esseri più o meno pericolosi, ma pure tutti legati ai quattro elementi naturali.
Solo uno non è riportato da alcun mitografo e non compare in nessun testo di etnologia e di folklore sardo.
Lui:
Su Marmuthone

Si sa, in Sardegna non vi sono le marmotte, dato che il simpatico animaletto nel nostro paese vive solo sulle Alpi.
Ma questa non è una semplice marmotta, ma piuttosto un marmuthone.
Est una bestia fea a beru!... All'anima se è brutta, 'sta bestia, verrebbe da dire.
Eppure, come sempre, anche qui è solo l'apparenza che inganna.
Il marmuthone è un essere pacifico e bonario, anche se molto schivo, che preferisce vivere al riparo dagli sguardi degli uomini.
Porta sulle spalle un grappolo di campanacci di varie dimensioni che le janas caciarone - fate che sono, oltre a ottime bevitrici anche ottime fabbre - amano forgiare e poi distribuire nelle notti di luna tra il bestiame degli uomini e gli esseri dei boschi.
E visto che spesso e volentieri le janas caciarone sono talmente ubriache di idromele da non essere certo consapevoli di come distribuire i loro doni, le povere marmotte sarde si sono ritrovate con nugoli di campanacci e campanelli da far invidia a suonatori ambulanti d'una volta.
Nessuno s'azzarderebbe mai a togliere dal collo d'una bestia il campanaccio forgiato da una jana caciarona.
Sarebbe la sua morte immediata.
Per attutire il frastuono di tanto armamentario le janas tessidoras, le tessitrici,  hanno preparato per loro dei fazzolettoni (solitamente di color viola, e comunque scuri) con cui essi fermano un cappellino (o una scoppola) che ben calcato sulle orecchie fa loro sopportare il rumore infernale di tutto quell'ambaradam.
Chi l'ha avvistato dice che è talmente carico di campanacci da avere un'andatura tentennante e malferma, e che ogni passo faccia risuonare un coro metallico udibile a chilometri di distanza.
Ma si tratta di oggetti dall'origine magica, e gli uomini spesso non ne possono sentire il rumore se non in particolari condizioni: se ubriachi fradici, per esempio, o innamorati folli, che è - a ben vedere - la stessa cosa.
È da quest'essere che ha origine il mamuthone, la tipica maschera del folklore sardo, le cui fattezze sono celate da una scorza lignea nera come la pece, a significare l'inconoscibilità di questo essere fantastico.
Ed è proprio a un marmuthone che si deve attribuire la nascita della nostra ricetta del giorno.
Fu infatti uno di loro a crearla molti secoli fa, con pochi e semplici ingredienti.

Narra la leggenda che un tempo una marmottina curiosa cercò di togliere dalle spalle del suo compagno il pesante carico di campanacci. Bisogna sapere infatti che solo le marmotte alle maschio vengono appesi simili doni delle janas, ma nessuno ne ha mai compreso ancora la ragione.
La povera marmottina, ignara del pericolo che avrebbe corso, decise a tutti i costi di sfidare la regola e di alleggerire la schiena del suo amato, e di farlo quando questi si fosse addormentato, per non essere ostacolata dal suo diniego.
Così una notte di luna, dopo aver fatto mangiare al suo marmuthone una bacca di passiflora fatta passare per albicocca, tolse uno ad uno tutti i campanacci che gli avevano curvato il collo e assordato le orecchie.
Ma appena che ebbe tolto l'ultimo, un piccolo campanello d'ottone di squisita fattura, la marmotta cadde a terra stecchita.
Ripresosi dal torpore il marmuthone capì subito cos'era successo e disperato girò in lungo e in largo tutta l'isola per cercare qualcuno che potesse annullare quel tremendo maleficio.
Ma nessuno poteva o sapeva aiutarlo.
Solo un cavallo verde (2) gli disse quello che nessuno avrebbe avuto il coraggio di dirgli.
- Solo il diavolo in persona può aiutarti...
E così il marmuthone decise di evocare Lusbè, Lucifero, per chiedergli che gli fosse data indietro la sua amata marmottina.
A quel tempo bisognava stare attenti perché il diavolo, o almeno l'essere che presiedeva l'Oltretomba, poteva essere evocato anche solo nominandolo, e ognuno faceva ben attenzione che ciò non avvenisse.
Appena il marmuthone ne fece il nome sentì, dietro di sé lo scalpiccio di un cavallo.
Un uomo molto elegante e vestito di nero stava avvicinandoglisi in sella ad un bellissimo purosangue anch'esso tutto nero e lucido. Giunto che fu a pochi passi da lui si fermò e lo guardò senza parlare.
Non sappiamo cosa si dissero esattamente i due, e con che tono il marmuthone cercò di nascondere il suo appello accorato.
Il diavolo chiese soltanto una cosa: un piatto che fosse semplice e buono, e se quel sapore l'avesse fatto sorridere la marmottina sarebbe tornata sana e salva sulla terra.
Di semplice - pensò il marmuthone - c'è solo il cibo dei nostri pastori, ed è solo da loro che otterrò gli ingredienti di questo piatto che conquisterà anche il diavolo.
Per prima cosa pensò al pane carasau, la carta musica che accompagnava ogni giorno i custodi del bestiame.
Uno di loro, impietosito dalla sua storia, gli donò una sporta di grandi fogli rotondi di pane, fragili e leggeri.
Un altro, reso ubriaco da un paio di litri di idromele, gli diede dei pomodori e del pecorino bello stagionato che formavano il suo companatico.
Un altro, che aveva con sé solo un uovo, fu felice di regalarglielo.
Quella notte il marmuthone si apprestò a lavorare alacremente per preparare quello che sperava fosse il piatto della salvezza.
Le sue zampe però erano troppo piccole e le sue unghie troppo aguzze per poter maneggiare quegli ingredienti così delicati.
La carta musica? L'uovo? No, no, avrebbe di certo rovinato tutto.
Cercando di accendere il fuoco, per esempio, s'era bruciato i baffi e adesso piangeva di dolore, di rabbia e d'umiliazione. Cercando di tagliare a pezzi i pomodori si schiacciò una zampa con un sasso appuntito e quasi perse i sensi alla vista del suo sangue. Lo scoramento fu tanto che sospirò pensando alla sua marmottina, persa per sempre.
Fu allora che le sue lacrime, il suo sangue e il suo sospiro evocarono la presenza delle janas caciarone.
Strano che fossero ancora sobrie, ma probabilmente ciò dipendeva dal fatto che la luna era ancora al primo quarto, e in quel periodo erano quindi tutte intente nella forgiatura dei metalli.
Quando lo videro chino su se stesso ebbero pietà di lui e ognuna di loro fece in modo di far qualcosa per rimediare a quello che avevano combinato in stato d'ebbrezza.
Recipienti di metallo e strumenti d'ogni foggia non mancavano di certo nel laboratorio di queste fabbre provette, e pentolame, coltelli e mestoli d'ogni tipo facevano parte del corredo tipico d'ogni jana che si dicesse tale.
Da brave lavoratrici di metalli poi, il fuoco era l'elemento d'ogni giorno.
Il marmuthone non fece quindi tutto da solo. Come avrebbe potuto?
Una di loro raccolse in una pentola dell'acqua e ci mise delle erbe aromatiche per farne un saporito brodo vegetale.
Un'altra tritò i pomodori e ne cucinò la polpa in un tegame.
Un'altra ancora in una pentolina più piccola cosse l'uovo direttamente fuori dal guscio nell'acqua bollente.
In camicia, diceva lei, e ancor oggi si dice così.
Appena il brodo fu pronto la prima delle janas lesse negli occhi del marmuthone la sua intenzione di ammorbidire e insaporire il pane nel brodo.
Bastò un istante e il foglio di friabile carasau divenne un morbido lembo di pasta.
La seconda condì ogni foglio di pane con un mestolo di salsa di pomodoro.
La terza, che aveva grattugiato il pecorino, ne spargeva manciate - le janas erano sì fate, ma anche piuttosto rudi - su ogni strato di sugo.

E così le tre fate, alternandosi, prepararono una torre di carta musica ben condita di sugo e formaggio.
L'ultima, sempre distratta si guardò attorno, cercò qualcosa e quindi, dandosi un colpo sulla fronte, prese l'uovo in camicia e lo poggiò in cima al timballo di pane.

- Fatto! - Fece l'ultima jana con un gridolino. Aveva una voce a metà tra un camionista e una transessuale.
- Non è stato difficile, no? - Disse la seconda.
- Certo, se ci avesse provato lui, con quelle zampe che si ritrova, il pane l'avrebbe tottu frattatu!...(3)
- E adesso... - Pensò il marmuthone intimorito - Non mi resta che chiamare Lutziferru e via, senza perdere altro tempo! Lusbé! - Esclamò a gran voce.
L'uomo  comparve all'istante facendolo sussultare. Non ci si poteva mica abituare così, su due zampe, alla vista del diavolo...
- Allora, cos'è che mi hai preparato con quelle zampine delicate? - Gli fece quello in tono ironico.
Il marmuthone si guardò gli artigli che, tutt'al più potevano servire solo a frattare il pane e, con un sospiro, porse al diavolo il timballo di pane.
- Vediamo un po' cosa c'è qui - Fece serio serio l'uomo, con lampi di luce rossa, come lingue di fuoco negli occhi.
Tolse dalla tasca dell'elegante giacca nera una forchetta d'argento e prese un pezzo di pane imbevuto di brodo, sugo e formaggio.
Come iniziò a masticare ai lati della sua bocca comparve l'ombra d'un sorriso, ma al marmuthone impietrito dalla tensione sembrava il riflesso del fuoco sulle pareti di un camino.

Quando la forchetta ruppe la tenera pellicola dell'uovo e un po' di tuorlo cremoso si versò sulla superficie del timballo l'uomo sorrise.
Un altro boccone e il sorriso divenne un fuoco caldo e corroborante.
Un altro boccone ancora e il fuoco divenne un vento dell'ora mala, un'incontrollata e rovinosa forza della natura.
- Marmuthone, m'hai convinto. Questo è proprio quello che cercavo. Vai, oltre quella collinetta c'è una radura e là troverai quel che cerchi tu.
Il povero esserino si precipitò nella direzione indicatagli da Lusbé, poi si voltò un istante per ringraziarlo, ma dell'uomo elegante in nero non c'era più traccia.
E s'era portato via anche tutto il pane frattau...
Il marmuthone raggiunse la collinetta, la superò, col cuore in gola.
Laggiù, in una piccola radura c'era un campo di trifoglio e sul prato era distesa una figura.
Sembrava dormisse. O forse era morta...
La marmotta corse  a perdifiato, favorito dal fatto di non portare più sulla groppa quel mucchio di pesanti campanacci metallici, e raggiunse la sua compagna.
Si chinò su di lei e s'accorse con un salto in gola che stava respirando.
Era profondamente addormentata.
La prese tra le zampe e la strinse a sé. In quel mentre lei aprì gli occhietti neri e lo guardò tramortita.
- Ehi, non stringermi così!... E come mai piangi?... La sai una cosa? Ho fatto un sogno stranissimo...
- Vieni qui, con me. Te lo racconterò io... - Le fece il marmuthone, felice.

NOTE
1) Le fonti utilizzate sono i volumi: "Leggende e tradizioni di Sardegna" di Gino Bottiglioni (ed Ilisso, un classico del folklore sardo), "Leggende sarde" di Grazia Deledda (versione ebook di Liber Liber) e "Creature fantastiche in Sardegna" di Claudia Zedda (ed Davide Zedda). Oltre a, naturalmente, decine di pagine web sull'argomento.
2) Nonostante ci sia chi crede che siano esistiti davvero cavalli il cui pelo, infestato da una specie di lichene del sottobosco, avesse un colore verdognolo, i caddos birdes sono delle creature di fantasia, dei cavalli di piccola statura (un po' come i cadeddos, questi sì reali, dell'altopiano di Giara ma dal pelame verde).
Il loro nome è usato per antonomasia a designare un qualcosa difficile da trovare o molto raro.Un proverbio sardo dice infatti: Homine affortunadu pius raru chi sos caddos birdes,  ovvero: un uomo fortunato è più raro dei cavalli verdi.
Queste creature leggendarie avevano dei poteri magici e benefici, ma erano anche fonte di guerre e sciagure scatenate dalla smania del loro possesso.
A Suni, presso la chiesa di San Pancrazio, si dice che vi fosse un pozzo la cui acqua, se fatta bere alle cavalle pregne il giorno del santo e nel momento in cui veniva alzata l'ostia, pare facesse nascere dei puledri dal pelame verde.
Il re di Monteleone e quello di Bisarcio pare ne possedessero uno, e questo fu causa dell'invidia e della guerra tra di loro, come anche della scomparsa di alcune città: Barace e Sant’Antioco di Bisarcio.
Nel paese di Villanova Monteleone, nel sassarese, nei pressi di una Domus de jana (delle necropoli paleolitiche che si credeva fossero de dimore delle fate, da cui il nome) presso Monte Germinu c'è Sa urmina de su caddu 'irde, l'orma del cavallo verde, impressa nella roccia. La gente del luogo consiglia di osservarla a debita distanza. Passarci sopra a piedi o a cavallo sarebbe segno di eterna malasorte.
A Borore si mettevano invece come segno benaugurante dei cavallini verdi sui tetti delle case.
Non sono quindi questi esseri a portare sfortuna, quanto l’insipienza degli uomini che pretendono di possederli o di usarli in funzione del proprio risentimento.
A questa storia ne fa eco un’altra che ebbe inizio quando Castel Sardo si chiamava ancora Castel Doria. I misteriosi cavalli verdi non sarebbero altro che il frutto della maledizione di una strega che, nell’arco di una notte, avrebbe trasformato ogni pianta in un cavaliere e in un cavallo verde.
Sos caddos virdes appaiono all'improvviso e tanto improvvisamente scompaiono.
Impossibili da domare, non sono mai stati montati da nessuno, sono quindi simbolo d'una libertà di cui i Sardi non hanno mai goduto.
Si narra anche che uno di loro si farà cavalcare il giorno in cui verrà il Re Pastore, che verrà in un giorno a portare pace e armonia tra l'uomo e la natura.
In passato durante la festa di S. Giovanni  (il solstizio d’estate) a Lodé, si teneva palio dei cavalli verdi in onore del santo. Non erano di certo cavalli dal pelo verde ma i migliori cavalli dell'isola, che venivano fatti correre ricoperti di un drappo verde.
Il cavallo nel mondo agrario è sempre associato al rigenerarsi della natura col suo ciclo di nascita, morte e rinascita. Queste corse erano forse un rituale di fertilità e abbondanza, visto che il cavallo conosceva i segreti percorsi sotterranei delle acque e contribuiva al rigenerarsi della natura dopo la morte dell'inverno.
3) frattatu, fratta(d)u - Fatto in piccoli pezzi, grattugiato; da frattare, grattugiare (da Massimo Pittau – Nuovo vocabolario della lingua sarda, vers. web)

Detto sardo del giorno
Non totu si podet narrare.

Non tutto può essere raccontato.

Oggi ascoltiamo
Tazenda - Bon Nadale

http://www.youtube.com/watch?v=OtQdvjbjRG0

sabato 21 dicembre 2013

El Panetùn (fatto a mano...)

Ovvero: come complicarsi felicemente la vita per raggiungere un obiettivo e ingrassare di tre chili per far fuori tutte le prove in corso d'opera


La prima volta è stato un successone: è venuto alto circa sette centimetri, non di più, e aveva la densità di una nana bianca e il peso specifico del plutonio.
Il sapore, in compenso, era quello, e gli abitanti di Nettuno hanno gradito molto questo delizioso dolcetto che sembrava preparato apposta per loro.
Lo hanno chiamato Utskn - trad. "dolce confusione ai canditi" - e pare che stessero anche votando per farlo diventare dolce nazionale.
Sì, i nettuniani hanno un alto senso della democrazia e votano per ogni minima decisione da prendere...
La ragione però era molto più terrena - o terrestre, che dir si voglia - : il mio BB non era abbastanza forte da sopportare una quindicina d'ore di lievitazione, ed è miseramente collassato in un buco nero, nel quale fortunosamente io non potrò mai cadere, visto il notevole giropanza che mi ritrovo.
La seconda volta mi sono fatto furbo: appostandomi furtivamente vicino a BB gli ho iniettato una pozione dopante  - trattasi di vulgaris mollica di lievito di birra, na caccoletta... - e l'ho visto subito alzare la schiena e pedalare lesto fino alla vetta.
Una meraviglia, anche se questa volta i nettuniani hanno deciso di escludermi dal Campionato Interstellare di Pasticceria Cosmica. A loro piaceva la prima versione.
La gravità del loro pianeta li rende molto ancorati alle loro abitudini e poi, come si dice: De gustibus non est disputandum.
E così via, di prova in prova, allegro e sereno come Sisifo col macigno - quello di Camus, s'intende - ho voluto sperimentare diverse possibilità.
E non avendo macchinari di supporto, tutte rigorosamente a mano.
Dopo aver confrontato la solita ventina di varianti ho deciso di concentrare gli sforzi sulla ricetta delle Sorelle Simili, che in sé è una garanzia.
E poi la bonaria pacatezza, la professionalità e la chiarezza che trasmettono queste signore del lievito ha qualcosa di magnetico.
Loro prevedono l'uso del Lievito, rinforzato all'uopo con ben cinque rinfreschi cinque - di cui uno anche sadomaso - per un totale di almeno una giornata di prima lievitazione.
Cercando un'alternativa meno masochista ho scoperto che è possibile ottenere lo stesso risultato - e che i puristi si tappino le orecchie intonando lo yuyu - con il lievito di birra.
Quindi ho adattato la stessa ricetta delle Simili a una preparazione che fosse più semplice e meno traumatica, e soprattutto che utilizzasse il solo lievito di birra.
E come diceva anche il buon dott. Frankenstein (quello Junior):


Iniziamo con la prima fase, la preparazione del lievito cui seguiranno, come in tutti i lievitati, due successivi impasti.

I Fase. Preparazione della biga)
Per completezza riporto entrambi i procedimenti, che differiscono nella fase iniziale, quella della preparazione della biga, e nei tempi di lievitazione, che nel caso del Lievito saranno decisamente più lunghi.

Preparazione del Lievito 
("madre", "naturale", "biologico"; comunque vogliate chiamarlo è IL Lievito)

I giorno
I rinfresco orario consigliato:
ore 17 (o 19)
50 g   pasta madre
100 g farina Manitoba
50 g   acqua tiepida
Si impasta bene, quindi si mette lievitare al caldo (basta il riparo del forno spento con la luce accesa) per 3 ore, quindi un'ora a temperatura ambiente.
II rinfresco
stile sadomaso
orario consigliato:
ore 21 (o 23)
100 g lievito precedente
100 g farina Manitoba
50 g   acqua tiepida
Si lavora a lungo (almeno una decina di minuti), quindi si avvolge il panetto in un panno di cotone e si lega ben stretto con uno spago, come un salame (tranquilli, a lui piace così...), e si mette in un recipiente che lo contenga appena, in modo che stia un po' compresso, e si lascia lievitare per 8-10 ore, in pratica sino alla mattina seguente.
Io ho usato questo:
II giorno
Si apre la tela e si preleva la parte più interna del Lievito, che sarà rimasta più morbida, mentre la parte esterna si sarà seccata. Spesso il lievito, così compresso forza talmente i legacci da strappare la tela che lo avvolge.
Che forza, il ragazzo!
III rinfresco orario consigliato:
ore 7 (o 9)
50 g   lievito precedente
100 g farina Manitoba
50 g   acqua tiepida
Si impasta bene e si mette lievitare al caldo (forno spento con luce accesa) per 3 ore, poi per un'ora a temperatura ambiente.
IV rinfresco orario consigliato:
ore 11 (o 13)
100 g lievito precedente
100 g farina Manitoba
50 g   acqua tiepida
Si impasta e si mette lievitare al caldo (forno spento con luce accesa) per 3 ore, poi per un'ora a temperatura ambiente.
V rinfresco orario consigliato:
ore 15 (o 17)
100 g lievito precedente
100 g farina Manitoba
50 g   acqua tiepida
Si impasta bene e si mette lievitare al caldo (forno spento con luce accesa) per 3 ore, poi per un'ora a temperatura ambiente.

Dopo questa sfibrante maratona si è pronti per il I impasto, quindi saltare il paragrafo successivo, che riguarda l'uso del solo lievito di birra.

Preparazione della biga con lievito di birra
La differenza sostanziale col procedimento precedente è che si deve far fermentare a lungo il lievito di birra per ottenere la stessa forza lievitante del Lievito.
Basteranno dalle otto alle dieci ore. Una notte, quindi. 
Il mio fido aiutante s'è valorosamente prestato a supportare questa delicata fase della lavorazione.

- Leppagorreee! Hai preparato la biga?
- Sanno gli dèi…


- Ma che ti sei scemunito? Non sei mica Marcantonio, sai?
- E tu chi sei, gaglioffo?
- Come chi sono, Muccardo tuo, no? Dài, non scherzare, su. Hai preparato tutto per bene?
- Si dissolva pur Roma nel suo Tevere/ e crolli pure dalle fondamenta/ l’arco immenso dell’ordinato impero!
- Vuoi dire "Certo che sì", forse?...
- Non offendermi con codesti dubbi.
- Sì, vabbè...

Ecco, meglio soprassedere e raccontare quello che il demone ha - speriamo correttamente - preparato.
Per un panettone del peso che va da 750 g a 1 kg:
80 g   farina (1)
40 ml acqua tiepida
13 g   lievito di birra fresco
Si impasta bene il tutto, quindi si mette in un recipiente coperto, al riparo del forno spento con la luce accesa, per un lasso di tempo che va dalle 8 alle 10 ore.
Se lo si preparerà verso le 23.00 la mattina alle 9.00 si potrà tranquillamente iniziare col I impasto.


II Fase - I impasto)
ore 19 (o 21.00) col Lievito
ore 9 con la biga al lievito di birra
Riporto qui le dosi per un panettone da 800 g circa.
Le prove conviene farle singolarmente e, nel caso tutto vada cose deve, si possono adattare le dosi alla quantità desiderata.

- Leppagorre, sei pronto?
- Dammi la mano, e porta a compimento/ questa graziosa impresa; e d’ora innanzi/ un cuore di fratelli ci governi/ e sia guida alle nostre grandi imprese.
- Sì, vabbè...

I impasto 
[75 g della biga a base di Lievito, oppure tutta la biga a base di lievito di birra
180 g farina (1)
45 g   zucchero
50 g   burro morbido
80 g   acqua tiepida
2        tuorli
In una ciotola si mette la farina e la biga.
Si uniscono i tuorli leggermente sbattuti assieme all'acqua e allo zucchero.
Si amalgama il tutto, lavorando con la mano "a paletta" e tanta, tanta pazienza.
Il procedimento è simile a quello della focaccia faticosa.
Appena l'impasto tende a "prendere", cioè inizia a staccarsi dalla ciotola - ci vorranno pochi minuti - si può iniziare a inserire il burro pomata, poco alla volta, delicatamente.
Si rilavora per rendere omogeneo il composto e quindi si trasferisce il tutto sulla spianatoia per la fase di incordatura.

Incordare un impasto a mano non è impossibile, e se si segue la giusta tattica si può ottenere un buon risultato senza troppa fatica.

Il metodo che ho seguito è quello di questo simpatico cuoco francese che consiste nel battere ripetutamente l'impasto sul piano di lavoro fino a sviluppare una maglia glutinica sufficiente a ottenere un impasto ben incordato.
I miei vicini - sopratutto quelli del piano sottostante  - sono stati molto partecipi del mio sforzo.....
- Ma Riccardo sta facendo dei lavori a casa?
- Che io sappia no...
- Ma che si batte, allora? Non è che... Non è che è diventato un serial killer? UNo di quelli che fa a pezzi le sue vittime con la mannaia? Oddiosanto!
- Ecco perché sta ingrassando a vista d'occhio! Li mangia! Fa i ravioli con la carne dei poveri sventurati che gli capitano sotto mano!...
...
- Buongiorno!
- ...Buongiorno...
- Ciao Marzio, come stai?
- Via, su, Marzio, che andiamo di fretta! Scusa, sai, ma si va sempre si corsa!... Muoviti, perdio, muoviti!
Ecco, il consiglio che posso dare è: fatelo in orari consoni e con un tappetino di silicone tra la spianatoia e il tavolo. Non elimina i rumori ma un po' li attenua...

Si prende l'impasto con una mano e lo si batte sul piano di lavoro, quindi si avvolge su se stesso, si solleva e si ripete l'operazione, ruotando l'impasto di 90°.
Il procedimento è un continuo sbattimento (in tutti i sensi) con relative pieghe del primo tipo (quelle a libretto, o ad avvolgimento dell'impasto).
Lo scopo è quello di incamerare aria e sviluppare il glutine grazie all'energia meccanica e, quindi, con la rotazione, formare una forte maglia glutinica.
Per i destrimani, si impugna l'impasto con la mano destra e con la sinistra si usa una spatola con cui accompagnare la lavorazione del composto e liberarlo dal piano di lavoro.
Nella prima fase della lavorazione tenderà infatti ad essere un po' appiccicoso, ma con lo sviluppo del glutine si farà sempre più liscio e compatto.


Dopo circa una ventina di minuti di lavoro - e qui aiuta una musica rock ben ritmata d'accompagno - l'impasto è incordato, ovvero compatto e lucido, quasi gommoso per via della maglia glutinica.
Sembra quasi di toccare una tetta di silicone... Quasi.
Per esemplificare il procedimento mi sono sbizzarrito in un piccolo video, in cui mostro come procedere:


La musica rock che avevo scelto era Breakthrough dei Queen, ma ho dovuto sostituirla...

Bisogna ora far lievitare l'impasto: nel caso della biga a base di Lievito occorrono 2 ore in luogo caldo, e 10-12 ore circa a temperatura ambiente; per una biga al lievito di birra basteranno dalle 2 alle 4 ore.


Lo scalmanato scalpita cercando la via d'uscita, freme di espandersi e perpetuarsi, magari facendo fuori tutta la farina in dispensa, a pochi passi da lui...

III Fase - II impasto)
Si procede senza indugio alla fase successiva:

II impasto
Si aggiungono al primo impasto:
90 g   farina (1)
30 ml latte
20 g   zucchero
2       tuorli
3 g    sale
20 g  miele
50 g  burro morbido
Una bustina (o una fiala) di vanillina (oppure i semi di un baccello di vaniglia)
La buccia di un'arancia e quella d'un limone, grattugiate. O anche gli aromi già pronti in fialetta.
E infine:
120 g uvetta sultanina
70 g   canditi (cedro e scorze d'arancia, oppure madedonia o gocce di cioccolato - In tal caso aumentare il doppio della dose ed eliminare l'uvetta)
Come per il primo impasto lavorare nella ciotola con la farina, il primo impasto, i tuorli leggermente sbattuti con il latte, lo zucchero, il sale, la vanillina e il miele.
Amalgamare il tutto lavorando con la mano "a paletta", quindi unire il burro e farlo assorbire nel composto.
Trasferire sul piano di lavoro e incordare nuovamente.
Altri venti minuti di musica rock e passa la paura.
Quando l'impasto sarà compatto, gommoso e ben omogeneo unire i canditi.
Nel far questo consiglio di spianare leggermente l'impasto, versare una prima tranche di frutta secca, quindi piegare l'impasto e procedere con un'altra quantità di canditi.
In questo modo si eviterà di stracciare la maglia glutinica che ci è costata tanta fatica e tanti decibel.
Mettere a riposare su un piano infarinato al caldo per venti minuti, mezz'ora.
L'impasto avrà tempo di rilassarsi e riprendersi da tanto strapazzo.

Qui sorge un altro problema...
- La fortuna sa bene/ che tanto più ci beffiamo di lei/ quanto più s’accanisce coi suoi colpi.
- Leppagorre, per favore, non ce la posso fà...
- Smettiamola con questi battibecchi!
- E non scrollarti la farina di dosso così, che mi mandi i peli nell'impasto!
- Non offendermi con codesti dubbi.
- Sì, vabbè...

Dicevo, non sempre è facile trovare gli stampi di carta da panettone


E vale la pena di comprare un costoso stampo alto a cerniera o in silicone per un dolce che si farà sì e no una volta all'anno?
La soluzione sta nel farseli da sé, usando carta forno e spillatrice, come ci insegna il buon Adriano sul suo blog.
Si taglia un foglio di carta forno abbondantemente lungo da avvolgere la circonferenza del panettone e si ripiega su se stesso in base all'altezza che deve avere lo stampo. Si taglia l'eccedenza.


Da un foglio lungo circa 60 cm, ripiegato e tagliato a metà per la lunghezza e poi per la larghezza, si ricavano quattro strisce strette e lunghe che, disposte a stella e spillate al centro, costituiranno la base dello stampo.
Per sicurezza aggiungo sempre anche un dischetto, sempre di carta forno, del diametro previsto dalla grandezza dello stampo, da sovrapporre alla "stella"e su cui poggiare l'impasto.


La tabella seguente riporta le misure degli stampi da panettone più usati e le dimensioni utili per ricavarle dal foglio di carta forno.

Misure stampi per 
panettone in carta forno
altezza diametro lunghezza striscia 
carta forno  
1 kg 13 18 60
750 g 11 16 53
500 g 10 14 47
300 g 9 12 41
100 g 5 7 25

Quando l'impasto avrà finito il meritato riposino prenderlo con delicatezza, dargli un paio di pieghe del secondo tipo.
Avvolgerlo quindi su se stesso a palla, portando i bordi dell'impasto verso il centro della massa. Tale operazione forza ulteriormente la maglia glutinica e aiuterà l'impasto a lievitare con più facilità.
Sembra quasi di caricare una molla, e si "sentono" i filamenti del glutine tesi come elastici, pronti a scattare verso l'alto e rendere soffice e vaporoso il nostro bel panetùn.
Mettere l'impasto nello stampo, oppure sulla base a stella e quindi nel cilindro di carta forno (spillando lungo le pareti del cilindro le strisce di carta sovrastanti) e lasciar lievitare al riparo del forno a luce accesa.
Nel caso dell'impasto con Lievito occorreranno almeno tre ore, mentre con lievito di birra basterà un'ora e mezzo, due ore al massimo.


Quando l'impasto avrà raggiunto il bordo dello stampo si potrà infornare, non prima però di aver inciso con una lametta o un taglierino la superficie del panettone ed aver posto del burro morbido all'interno della fenditura. Con delicatezza, per non vanificare il lavoro della lievitazione.


- Il forno è arrivato ai suoi abituali 180°. Siamo pronti a infornare, Leppagorre, che dici?
- Perciò affrettati a far quello che dici,/ se vuoi che il desiderio tuo s’avveri.
- Sì, vabbè...

Una volta tolto dal forno il panettone va fatto raffreddare capovolto.
Si possono quindi infilzare con degli spiedini di legno o di metallo ed appendere a testa in giù.
O tra due sedie o all'interno di una pentola abbastanza capiente da contenerli.


Una volta raffreddato si deve mettere in una busta di plastica per alimenti, dove va fatto riposare per qualche giorno.
In questo modo pare si conservino per 10-15 giorni senza colpo ferire, come direbbe Leppagorre preso dal suo furore scespiriano...

- Potremmo quasi assaggiarli, che dici, Leppa?
- Su, tutti a cena! E abbasso i mali auguri!
- Ancora?
- Suvvia, prendiamoci tutti per mano,/ fino a tanto che il vino vincitore/ non abbia sprofondato i nostri sensi/ in un dolcissimo e morbido Lete.
- Sì, vabbè...

Aforisma teatrale del giorno
Oh, quando il nostro fertile intelletto s’intorpidisce, siamo come un prato che non produce altra erba che gramigna.

William Shakespeare - Antonio e Cleopatra, atto I, scena II

Oggi ascoltiamo
The Supreme Fabulettes - You Ruined My Xmas
http://www.youtube.com/watch?v=lDfd3QnQKPQ

NOTE
1) Le Sorelle Simili consigliano di usare un mix tra farina 00 e farina Manitoba, quest'ultima pari al 30% del totale. In rete c'è chi usa solo Manitoba e chi invece preferisce la 00 per evitare una possibile "gommosità" dell'impasto dovuta all'alta percentuale di glutine presente nella farina canadese. Per andare sul sicuro ho pouto sperimentare che funziona egregiamente un mix di farina 00 e di Manitoba al 60%.

mercoledì 18 dicembre 2013

Torta al cioccolato e sale (magari alla rosa)

Il mondo dei foodblogger, la cosiddetta blogsfera,  seppur virtuale non è mica uno spazio omogeneo, anzi.
È una paesaggio dove le vette più ardite della cucina si uniscono a piatte, sconfinate pianure.
Non c'è sempre che scriva: "Oggi ho da proporvi questa meravigliosa zuppa di fave tonka, tofu alle cinque spezie e meduse saltate al wasabi".
No, per niente.
E neppure c'è sempre chi fa: "Oggi prepariamo una gustosa pasta e fagioli, proprio come la faceva mia zia Lucilla, che nel 1961..." e giù di colpo con una sequela di episodi degni del signor Stica.(1)
C'è poi chi ci prova, sbandando clamorosamente nel tentattivo di mantenere un equilibrio tra diario culinario e appunti di sperimentazioni alimentari.
Non è sempre facile.
Prendiamo, per esempio, un accostamento che da anni è ormai consolidato: cioccolato e sale.
La cioccolateria S.A.I.D. a Roma, nel cuore del popolare quartiere di San Lorenzo - sì, quello dei bombardamenti alleati su Roma città aperta -  sono anni che propone tra le sue specialità delle tavolette di cioccolato fondente col sale dell'Himalaya.
Che poi, io mi chiedo: ma a forza di grattarne via il sale di questo povero Himalaya che ne rimarrà?
Diventerà piatto come la Pianura Padana?...
Quindi sale e cioccolato è sì qualcosa di insolito, ma anche ben conosciuto, e anche da un bel po'.
Ora, non è che io viva a Cecafumo (2), ma son cresciuto e mi son formato in un quartiere dove alle parole "cioccolato" più "sale" ne segue, prevedibilmente, la scena seguente:

"Ines! Ineseee!"
"Che d'è, Jole, ch'è successo?"
"Cori, va a chiamà er sor Agusto, che c'è Riccardo che stà male!"
"Oddio, e che ha fatto stavorta, poro fijo?"
"Sta a mischià a cioccolata cor sale!..."
"O madonna santa! Lo sapevo che succedeva! S'è finito de beve er cervello! Agustooo! Agù! Coriii!"
Con conseguente scalpiccìo e chiacchiericcio mentre l'ambulanza mi porta via soffocando il mio flebile: "Spegnete er fornooo!"
Ecco, questo per dire che tante cose non sono poi così scontate, e tante che lo sono riservano sempre qualche deliziosa sopresa.

Torta cioccosale (magari alla rosa)
Per uno stampo da 15 cm di diametro. Per uno "regolare" da 24 cm triplicare le dosi.
60 g cioccolato fondente
40 g zucchero
60 g burro
60 g farina
1 uovo (60 g, pesato con il guscio)
1 cucchiaino di sale (5 g ca.)
Si lavora a crema il burro - lasciato ammorbidire a temperatura ambiente - con lo zucchero per formare un composto spumoso.
Si aggiunge l'uovo - anch'esso tenuto a temperatura ambiente per almeno un'oretta - e si fa assorbire bene nel composto.
L'avete riconosciuta vero?
È una Quattro-quarti, ma modificata con cioccolato e sale.
Una volta che si conoscano le proporzioni tra gli ingredienti si può anche capire dove vada a parare una qualsiasi ricetta che ci viene data o che cerchiamo di escogitare noi stessi.
Si aggiunge quindi il cioccolato fuso a bagnomaria (o al microonde) e si mescola con cura.
Quindi il sale, e ben tritato se non si sopporta la presenza nel dolce di granelli, altrimenti tritato alla bell'e meglio.
Ultima la farina, lavorando bene il composto, che deve risultare spumoso e soffice.
Come ogni Quattro-quarti che si rispetti non prevede il lievito. Non serve.
Ma se proprio non si resiste a doparlo ne basterà mezzo cucchiaino, quel tanto che gli dia una spinta in più...
Ah, benedetti fermentofili!
Volendo si possono aggiungere dei canditi (magari dello zenzero, che ormai si trova in tutte le forme commestibili). 

 
Quello che ho utilizzato io è un sale marino con petali di rosa.
Di uso alimentare s'intende, quindi senza alcun prodotto chimico tipico dei sali da bagno.
Semplicemente sale e rose, che si può usare per aromatizzare impasti o delle creme, come riportato qui.
Volendo lo si può anche preparare in casa: alla quantità di sale marino, grosso, va aggiunto il 30% di petali di rosa (rosa e rossa, i più profumati) non trattati (visto che, appunto, se ne farà un uso alimentare).
Si lasciano essiccare completamente le rose - il sale ne assorbità l'umidtà e gli aromi - et voilà!

Ma... dove?... 
sciàf... sciàf...
- Leppagorreee! hai visto il mio sale alla rosa?
- L'oro e l'argento e le sale da tèèè. Paese che non ha più campanelli!
- Ma che fai in vasca? E quest'odore...


- Oggi prigione tu...Prigioniera iooo!
- Lo riconosco! Maledetto! Mi hai finito tutto il sale!
- Sì, ma guarda che pelo bello lucido!  Concerto di viole e mondanità... Profumo tuo di vacanze romaneee!
- Adesso tolgo il tappo alla vasca e ti faccio fare la fine di Stanlio!



Detto romano del giorno
Chi ha raggione paga la piggione, e ddorme pe' le scale.

Quindi non serve a niente...

Oggi ascoltiamo
Matia Bazar - Vacanze romane

http://www.youtube.com/watch?v=ZrGxc93AkPc

NOTE
1) Si intende "'Sti cavoli!"
2) Immaginario paesino lontano dai grandi centri urbani dove la vita è semplice e la gente ingenua ma qualche volta anche sprovveduta.

domenica 15 dicembre 2013

Sformato di polenta con fegatini

- Hai visto quanta gente, Leppagorre? Poi dicono che non si visitano più i musei.
- Già...
- E che meraviglia ogni volta trovarsi di fronte a una di queste opere!
- Già...
- Ma dimmi un po', ti stai annoiando, forse?
- Mah, a me 'sta roba pare tutta uguale. Una volta dipinto un albero cos'altro vuoi aggiungere dipingendone un altro?
- Sei proprio un buzzurro, sai. A me invece ogni volta che torno in un museo che pure conosco bene pare che ci sia sempre  qualcosa di nuovo, che non avevo visto prima, qualcosa di inaspettato. Mi succede anche quando passeggio per le vie di Roma. Magari alzo gli occhi e vedo una decorazione, un fregio o una cariatide di cui non m'ero mai accorto prima.
- Mi sa che sei distratto, e basta, ecco perché.
- Mi sa che assomigli a certi mariti, caro Leppa. Non è che hai da qualche parte la radiolina per seguire le partite? Fa' vedere un po' se qui c'è l'auricolare...
- E lascia, che mi stropicci tutto il pelo. Uff... con queste mani da scaricatore di porto!...
- Ha parlato l'aristogatto!

- Mamma, mamma, hai visto quel signore? È...
- Fermo, Matteo, non si indicano le persone. Vieni, su... E non ti voltare o ti do un ceffone che te lo ricordi fino a Pasqua!

- Ma cosa si guardano questi qui?
- Boh, ti avranno scambiato per qualche personaggio televisivo. Magari uno di quei venditori di anelli o di tappeti, chissà.
- Che spiritoso! Però, guarda... strano, mi passano vicino ed è come se mi scrutassero...
- Non è che ti sta venendo quella malattia mentale per cui...
- No, no, non sono mai stato paranoico... finora. Eppure, che strano, mi sento un po' osservato...
- Vieni, usciamo, sarà ora di andarcene, no?
- Mah, che vuoi che ti dica... Ma cos'è laggiù? È una sala dove non ci sono nuovi dipinti, la conosco bene. Ci saranno almeno trenta persone... E perché mi guardano così?
- Su, dài, andiamo a casa, che ho fame. Non volevi fare quella pasta insolita che...
- Sì, ma aspetta, qui c'è qualcosa di strano... Non è che c'entra forse il tuo zampino demoniaco, forse?
- Io? Me possino acciaccà! Ma se sono sempre stato vicino a te, non te ne sei accorto, forse?
- Sì, però... fammi andare a vedere un po', sono curioso.
- E dài, su, andiamo a casa, cosa vuoi che sia un dipinto che già avrai visto mille e mille volte!
- Aspetta, aspetta, adesso che tentenni voglio proprio andare a vedere!
- Ho fame! Voglio le trenette con gorgonzola e noci! Voglio il petto di pollo all'orientale! Voglio...
- Oh, che importuno che sei! Fammi un po' vedere che cosa stanno vedendo queste pers...

La Sora Jole col Babboncino
 Leonardo da Vinci, 1488 ca.
- Ho fame!
- No!
- Ma sto morendo di fame! Mi farai diventare piccolo come un nutrino!
- Neutrino, si dice, e poi hai abbastanza grasso da sopportare un po' di digiuno, gattaccio malefico!
- Ma hai visto come ti guardavano tutti? Quei tre giapponesi t'hanno persino fotografato!
- Figurati, quelli si fotografano tra loro con tanto di sfondo di secchi dell'immondizia, cosa vuoi che capiscano...
- Secondo me però stavi bene.
- Hai rimesso tutto a posto?
- Sì, è la centesima volta che me lo chiedi. Al posto tuo è ritornata Victoria Cabello, come prima.
- Ma non era... Oh, ma che ti sto a dire a te? Andiamo a mangiare, va, è capace che così ti calmi.
- Finalmente! Era ora!

Quando i tempi si fanno difficili... E QUELLI CHE CREDI AMICI NON SOLO NON T'AIUTANO MA T'AFFOSSANO...
- Guarda che è inutile che urli, ci sento, eh? E poi a chi ti riferisci?
- Che c'è sei paranoico, forse? O ti sei forse scordato della Dama Barbuta?
- Dama Barbuta sempre piaciuta, no?
- Vattene o ti tiro un cacciavite a stella!
- E quanto sei fumino! Vado, vado... Chiamami quand'è pronto.
Appunto, altro che croce sul Golgota, con questo qui... Chissà se riesco a sbolognarlo a qualcuno.
Dicevo, quando le cose assumono un color seppia tendente al grigio piombo ci si rifugia nei generi di conforto.
E quale miglior genere di conforto che il cibo? Sembra fatto apposta.
Il capufficio è una carogna dimenticata dagli uomini che puzza de moriammazzato?
Vai con la tavoletta di cioccolato fondente. Pratica, comoda, la porti sempre con te e la magni quando vuoi.
Il tuo ex meriterebbe un caffè corretto con tanto di dose king-size di purga ad effetto immediato o di una trentina di gocce di mitilene che gli farebbero venire la pipì blu con conseguente spavento da ricovero?
Un tiramisù ci sta un amore, ma non al caffè, però. Innervosisce.
Hai attorno a te dei colleghi che sembrano un'accolita d'ubriachi senza vino che non sanno neppure grattarsi le pudenda?
Bavarese all'arancia, fresco fresco. E tutto passa.
Se poi uno preferisce il salato la scelta non manca di certo.
Un parente-serpente ha schizzato più nero d'una seppia impazzita?
Pizza, pizza e sempre pizza. Due pezzi con pomodoro e mozzarella e un supplemento in bianco, magari funghi e gorgonzola.
Un amico si sta comportando da Giuda Excarota (come direbbe la Marini parodiata dalla Guzzanti)?
Kebab al volo. Con tanta tanta tanta cipolla, e piccanterrimo.
È arrivato un pagamento imprevisto per cui dovrai vendere un rene e parte della milza per rimediare il contante?
Carbonara, subito. E con un chilo di pepe sopra, mi raccomando.

Ma se uno si ritrova a casa con il proprio demone, che cattivo non è...
- E direi! Dov'è che lo trovi uno come me, che ti tiene così compagnia?
ANCHE SE ANDREBBE MASSAGGIATO CON UNO SCHIACCIASASSI in prima e retromarcia, ininterrottamente...
- Ho capito, ti girano li zebbedei... Vado.
Ecco, quando uno si trova in questa condizione occorre qualcosa che faccia smuovere le mani, che so un impasto, una crema pasticcera doppia, una...
Una polenta!
- Ma non è ancora aprile! E che la fai col freddo?
- Ti chiudo nel congelatore, eh? Dov'è l'anice, dove l'ho messo?...
- Vado, vado, vado! Uff...

Inutile dare le dosi di una polenta, non lo fa nemmeno l'Artusi figuriamoci se lo farò io.
Dico solo che una parte di farina di mais va bene con 3-4 parti d'acqua.
Circa, e lo scrivo apposta in neretto.
In acqua bollente e salata si getta a pioggia la farina iniziando a mescolare per non formare i grumi e...
...finendo di mescolare dopo almeno mezz'ora.
Sì, lo sappiamo tutti, è una palla al piede che metà basta, ma vuoi mettere star lì a girare e girare e girare, con quella lava gialla che fa plof-plof e rischia di ustionarti la pelle in ogni momento?
Solo così non si pensa ad altro.
Garantito.

La polenta poi è come il pane la pasta e il riso: ci si mette sopra e dentro di tutto.
Quindi, vediamo, ho due vaschette di fegatini di pollo, saranno circa 800 g o giù di lì...
Li trifoliamo come già sappiamo fare, quindi li sminuzziamo e un terzo della padellata li riserviamo per un ragù, il resto ci farciamo il timballo di polenta.
A pranzo una generosa scifa di polenta al ragu, con una dose massiccia di vin rosso.


Sì, lo so, non c'entra, ma a noi barbari piace assai il pecorino sul ragù di fegatini.
E quando si ha l'autocoscienza si ha tutto, signora mia...

Il resto della polenta, visto che nessuno dà mai le dosi e inevitabilmente avanza sempre, ne faremo un timballo.
E poi, io dico: quando uno decide di sobbarcarsi la faticaccia una volta meglio trarne il miglior vantaggio dotandosi di una bella scorta di polenta da fare in tutte le salse, no?
Appena cotta la si stende non troppo spessa sulla spianatoia e si lascia raffreddare, o diacciare, come direbbe Zio Pellegrino.
Si taglia poi in pezzi con cui si comporrà il timballo.
Sul fondo di una pirofila imburrato si forma un primo strato di polenta a fette, poi la farcia scelta e quindi si ripete l'operazione.
La lasagna, o il timballo, sono il perfetto esempio di un algoritmo culinario.
Direi comunque che al gusto marcato dei fegatini non aggiungerei nient'altro che un po' di formaggio...
- Gorgonzola!
- Zitto!
- Pecorino grattugiato a secchiate!
- Ti do una secchiata io, a te, ma di anisetta, così impari!
- Cattivo...
Però magari una scamorzina fresca ce la metterei, ci sta tutta. No?


Si fa gratinare in forno e si gusta bella calda e...
- Ma questo chi è?!

- È Lino, un amico mio, l'ho invitato a cena. Ti piace la polenta coi fegatini Linuccio?
- Non molto, ma non disturbarti, mi sono portato il pranzo. Basta stare in compagnia, no?
- Io esco pazzo, lo so già...
- Ma scusa, eh, mica lo potevo lasciare in braccio alla Cabello, no? Sono cinquecento anni che se lo alliscia, poverino, aveva bisogno di un po' d'aria, no?
- Anch'io, mi sa... Esco, non mi aspettate per cena. E... piacere d'averti conosciuto, Lino. Ogni amico di Leppagorre è mio amico.
- Grazie, molto gentile... Guardi, le lascio questo bocconcino per sdebitarmi del disturbo che le sto arrecando.
- Ma si figuri... lo mangi, lo mangi, che freddo non è più buono. Io vado, allora. Noi due facciamo i conti dopo, capito? E riportalo al museo. Ah, e fagli cambiare la livrea, che nel quadro non c'era la neve...
- Ma non resti nemmeno a cena?
- Ciao Leppa, meglio di no. Di nuovo signor Lino, arrivederci!...
- Arrivederci! Tante cose!...
Altre?... oddiobbono...

Detto romano del giorno
Quanto fa er bon esempio, nun fanno le bbòne parole.

Quello che fa il buon esempio non lo fanno le buone parole.


Oggi ascoltiamo
Al Green - Lean on me

http://www.youtube.com/watch?v=4QzpSeDsHIw

venerdì 13 dicembre 2013

Pampepato alla ciociara

Questo è davvero il dolce tipico natalizio di tutto il Centro Italia.
Fondamentalmente costante negli ingredienti base - pur con piccole differenze regionali e di campanile, se non addirittura familiari... - rimane l'inconfondibile sapore delle feste dal ferrarese al ternano, e poi verso sud, in tutto il Lazio, dalla Sabina alla Ciociaria.
È inoltre un dolce antico e moderno allo stesso tempo.
L'uso del miele e della frutta secca infatti denuncia l'antichità della ricetta, facendola risalire perlomeno al Medioevo, se non prima, visto che si hanno testimonianze di focacce con miele, vino e frutta cotte in forno di cui i Greci erano ghiotti.
L'uso delle spezie ci riporta invece al Quattrocento, quando iniziarono ad essere presenti sulle tavole (dei nobili e del clero, s'intende) le costose spezie orientali.
La presenza del cacao (o del cioccolato) ne rivela inoltre una rielaborazione già più moderna.
A differenza del pangiallo, altro dolce del periodo delle feste cristiane, non prevede l'uso della pasta di pane ma, come dice a proposito wiki:
È composto secondo tradizione da vari ingredienti: mandorle, nocciole, pinoli, pepe, cannella, noce moscata, arancia e cedro canditi, uva passa, il tutto impastato con o senza cacao, cioccolato, caffè, liquore, miele, farina, mosto cotto d'uva.
Prima dell'introduzione dell'uso delle spezie, accadeva che il dolce, deteriorandosi diventasse acido o s'ammuffisse, e da ciò deriva l'antico nome di "panforte".
A questo "pane" venivano inizialmente aggiunte solo noci e altra frutta secca - diffusi in tutto l'Appennino - mescolati con mosto cotto (la sapa o saba, il "miele d'uva" dei Latini).
E mentre il panforte senese, attestato fin dal Medioevo, si trasformò in una "ruota" coperta di zucchero al velo - e in onore della Regina Margherita prese il nome di Panforte Margherita - nel ferrarese lo si ricoprì invece di un sottile strato di cioccolato.
Insomma tante piccole versioni e tanta storia per una bontà, quella sì, costante nel tempo.
Tra le tante versioni ho scelto secondo me più buona e anche più facile a ricordarsi, il che non guasta.


Pampepato alla ciociara
(per 7 pampepati da 350 g ca.)
250 g noci
250 g mandorle
250 g nocciole
100 g pinoli
(il peso è riferito alla frutta secca sgusciata)
150 g macedonia candita (cedro, arancia e zucca)
150 g uva sultanina
60   g cioccolato fondente
40   g cacao
40   g zucchero
300 g di miele
400 ml vino rosso (se dolce è meglio, e se trovate la sapa meglio ancora)
la buccia di 2 mandaranci e di un'arancia (privata della parte bianca)
farina 00  q.b. (ne occorrerà pressappoco 800 g)
3 cucchiaini di pepe macinato
1 cucchiaino di cannella in polvere
1/2 cucchiaino di noce moscata in polvere
5 chiodi di garofano ben pestati
In una pentola portare all'ebollizione il vino rosso con le spezie e il miele.
Far fondere il cioccolato a bagnomaria (o nel microonde).
In una grande ciotola mettere la frutta secca, i canditi, l'uvetta e le bucce degli agrumi tagliata a pezzettini.
I mandarini sono più profumati e andrebbero anche meglio, ma quest'anno non ne ho trovati al mercato.
La gente non ama la frutta coi semi, e i mandarini, poveri e negletti, vengono ingiustamente discriminati.
Unire il cacao e lo zucchero, il cioccolato, e infine il vino con il miele e le spezie, che nel frattempo si sarà leggermente raffreddato.
Mescolare bene il tutto, quindi cominciare ad aggiungere la farina.
Amalgamare con un cucchiaio di legno fino ad ottenere un composto compatto, anche se leggermente appiccicoso.
Con le mani infarinate prendere un pugno del composto, infarinarlo leggermente e riempirvi una coppa (quelle da macedonia sono perfette), che gli darà la forma, pressandola per evitare il più possibile zone d'aria.
Sempre con le mani infarinate modellare poi i bordi della pagnottina (in gergo si dice pirlare, e la cosa mi inquieta alquanto...)
Disporle quindi su una teglia rivestita di carta forno.
Cuocere a 180 ° per una mezz'oretta.
Sorvegliarle dopo i primi venti minuti, per far sì che non si asciughino troppo.
È facile sbagliare la cottura del pampepato, perché sembra sempre crudo e poi, zàcchete! si carbonizza...
Quindi, occhio.


Perché cioccolato e cacao assieme?
È una mia fisima, lo so, e non so se ha ragion d'essere ma scartabellando tra le decine di ricette in Rete mi è capitato di trovare quelle con solo il cacao e altre con solo il cioccolato.
A mio avviso il cioccolato, essendo un elemento grasso, rende più compatto l'impasto, mentre il cacao gli dà quel surplus di sapore che altrimenti si perderebbe un po' tra gli aromi delle spezie.


Questo dolce si può davvero preparare a seconda dei gusti ottenendo sempre qualcosa di buono.
Si possono aumentare o eliminare le spezie, oppure il cioccolato; togliere i canditi, l'uvetta o le scorze degli agrumi.
O anche variare le proporzioni o i tipi di frutta secca utilizzata, scegliendo anche di tostarla prima di inserirla nell'impasto.
Alcune ricette riportano una quantità di noci persino doppia rispetto a quella scritta sopra, altre riducono la quantità di noci e aumentano quella delle mandorle o delle nocciole, ottenendo così un dolce più croccante.
Aggiungo solo che dalla credenza, dove ho riposto i panetti avvolti ognuno nella pellicola per alimenti, sale un profumo di spezie che inebria fa viaggiare nel tempo.
E nello spazio, anche...

Poesia romana del giorno

Carità cristiana

Er Chirichetto d'una sacrestia
sfasciò l'ombrello su la groppa a un gatto
pe castigallo d'una porcheria.
- Che fai? - je strillò er Prete ner vedello -
Ce vò un coraccio nero come er tuo
pe' menaje in quer modo... Poverello!... -
- Che? - fece er Chirichetto - er gatto è suo? -
Er Prete disse: - No... ma è mio l'ombrello!

Trilussa

Oggi ascoltiamo
Queen - Thank God It's Christmas

http://www.youtube.com/watch?v=6V5mtUff6ik

mercoledì 11 dicembre 2013

Storiellina inca

Una coppia sta facendo una passeggiata sulla spiaggia, in una giornata tiepida con un forte sole e senza vento. 
Fino al giorno prima c'èra stata tempesta e ampie mareggiate. 
La spiaggia oceanica è costellata di stelle marine che le onde potenti hanno vomitato sulla battigia. 
La donna prende a un certo punto una stella marina e la ributta in acqua. 
L'uomo le chiede: "che cosa fai?". 
E lei risponde: "E' un animale vivo, anche se invertebrato è pur sempre un animale, fuori dall'acqua sopravvive per almeno due giorni, è ancora vivo. Se ne muoiono tante si spezza l'equilibrio armonico della natura". 
L'uomo non dice nulla. 
Proseguono nella loro passeggiata e ogni tanto lei ne sceglie una e va a rimetterla nell'acqua. 
A un certo punto, l'uomo le dice: "Tu sei matta! Non penserai mica di produrre una qualche differenza per il fatto che rimetti in acqua qualche stella marina! Che differenza fa?".
Lei lo guarda e gli dice: "Prova a chiederglielo a quelle stelle marine se fa o non fa differenza!

E ci ascoltiamo
Violeta Parra - Gracias a la vida
http://www.youtube.com/watch?v=UW3IgDs-NnA

dal post di oggi di Libero Pensiero

lunedì 9 dicembre 2013

Crostata cioccolato e pere

- Be'? Cos'è 'sta faccia, Leppagorre? Anzi, 'sto muso, a esser precisi.
- Niente!...
- È successo qualcosa a quella babbiona di zia Bastet?
- Niente!...
- T'ho fatto qualcosa senza avvedermene?
- Niente!...
- Oh insomma, e che demone!
- Bada, eh?
- Dico: mi stai lì appallottolato come una balla di fieno e con quella faccia appesa, come dicono a Napoli, messa apposta per farmi pesare il tuo silenzio. Insomma: o mi dici che c'è o oggi non mangio nulla, a costo di farmi venire i crampi!
- Non mi vuoi più bene!... Ecco che c'è!
- Oddio, no! Senti: già c'è questo clima che aleggia come una nube di delirio tra luminarie e facce stravolte e che la gente chiama "festività". Non ti ci mettere anche tu con le paranoie, per favore!
- Lo so, tanto. Ti vedo. Ormai prendi il barattolo dello zucchero solo per dolcificare il caffè!
- E cosa pretendi? Ho una panza che fa provincia a sé, tra un po' invece della cintura dovrò usare una corda da alpinista e tu stai lì a lamentarti? Ma guarda te!
- Una volta, almeno piccino piccino un dolcetto me lo facevi! Sei diventato un mostro, ecco, un mostro insensibile! Vuoi vedermi cadere il pelo a ciuffi, eh? Guarda, guarda come sono diventato!...
- Ma se mi sembri largo come una pelle d'orso da sotto camino! Per vederti deperire dovrei fare lo sciopero della fame come Mahatma Gandhi per un anno e mezzo, altro che!
- Oh, insomma! Non hai nemmeno un briciolo di rispetto per chi ti sta così amorevolmente accanto!...
- E che s'ingozza di tutto ciò che è commestibile facendomelo passare per il gargarozzo! Basta, m'hai stufato!
- Che fai, dove vai?
- Tanto lo sai, stai qui dentro, ipocrita che non sei altro! Vado a prendere qualcosa per tapparti la bocca!
- Uno strudel con tante mele e tanta frutta secca?
- No!
- Un pandispagna farcito di crema al cioccolato e mascarpone?
- No!
- Un cracker al rosmarino?...
- No, due pere...
- !...

Crostata cioccolato e pere
(per una crostata da 26 cm di diametro)
una dose da 300 g di farina di pasta frolla
400 g pere (due di media grandezza)
250 g cioccolato fondente
30 g   burro (o margarina)
80 g   zucchero al velo
3        uova
2 cucchiai di fecola
1 cucchiaio di rhum
1/2 bicchiere d'acqua
Mentre il mostro si sfrega le zampe preparare la pasta frolla nel modo che ben sappiamo e lasciamola riposare la consueta mezz'ora in frigo, coperta da un piatto o avvolta da pellicola per alimenti.
Nel frattempo preparare la crema.
Fondere il cioccolato a bagnomaria o al microonde e frullare le uova con lo zucchero al velo.
In una pentola unire le uova, il cioccolato, il burro, la fecola sciolta nell'acqua fredda e il rhum.
Portare a ebollizione a fuoco basso, per far addensare, mescolando continuamente.
Quando inizierà a "tirare" spegnere il fuoco e lasciarla raffreddare.
Rivestire il fondo e le pareti di una teglia da 26 cm con la pasta frolla, quindi disporvi a raggiera le pere pelate e tagliate a fettine non troppo sottili.
Su queste versare la crema al cioccolato e livellarla bene.
Cuocere in forno caldo, i soliti 180°, per almeno 30 minuti.


- E... questa cosetta... cos'è?
- È una crostata al cioccolato e pere, no? Cosa ti sembra?
- Ma è... minuscola! Che ci facciamo in due?
- Dài che basta e avanza. Non è un amooore, come direbbe qualcuno qui vicino?
- Sì ma...
- Insomma, non volevi un dolcino piccino piccino?
- Sì ma...
- Hai visto che ti voglio sempre bene, gattaccio rognoso?
- Sì ma...
- Allora magna e stati zitto, almeno fino al sei gennaio!

P.S. Quella preparata al demone ingordo e assillante è di 15 cm di diametro. Pora stella da'a panza de zio...
In tal caso ho diviso approssimativamente le dosi per tre:
Pasta frolla da 100 g di farina (e quindi 50 g di burro, 30 g di zucchero e un tuorlo);
80 g cioccolato fondente
20 g   burro (o margarina)
30 g   zucchero al velo
1        uovo
1 cucchiaio scarso di fecola
poco rhum (ahimé!...)
4 cucchiai d'acqua
E, ovviamente, una pera. Piccola.

Detto romano del giorno
Per riuscire in amore occorre:
Sgrinfià co l'occhi, pistà co li piedi e parlà co le deta.
Amoreggiare con gli occhi, pestare i piedi e parlare con le dita.


Oggi ascoltiamo
Phoebe Buffay (Lisa Kudrow) - Gatto rognoso

http://www.youtube.com/watch?v=ftX8AS8Te_o

giovedì 5 dicembre 2013

Pane con IL Lievito



Il pane di Riccardo!

Riassunto delle puntate precedenti.
Muccardo, rimasto vedovo del suo amato - seppur acido – Osvaldo decide, dopo anni di doloroso lutto passato a consumare enormi quantità di (lievito di) birra, a tornare a rendersi disponibile a prendersi cura di un nuovo Lievito ed avere così altre occasioni panificatrici.
In una sera di novembre realizzerà finalmente il suo desiderio tanto ambito, quello di riuscire a veder sbocciare ancora una volta la vita nella ciotola del suo cuore.
Incontra infatti un nuovo lievito, tale Boris-Bachis, detto BB, un tipo bizzoso, imprevedibile,  individualista e dedito – almeno all’inizio - al consumo di elementi dopanti (viagra di birra).
Questi, grazie all’indomito carattere da crocerossino di Muccardo, comincia a disintossicarsi dall’uso delle droghe, trovandosi subito a suo agio nel suo nuovo barattolo, dal quale esce soltanto ogni cinque giorni, gonfio e tronfio, per nutrirsi.
Muccardo diventa così il custode di un’intera colonia di saccaromiceti e lattobacilli tutti suoi.
Inizia quindi una nuova storia a due che darà vita a pagnotte, pizze e focacce profumate e saporite.


Dov’eravamo rimasti?
Ah, sì, certamente, alla preparazione del pane con nostro nuovo Lievito (madre, padre, fratello, amico, amante… come lo volete voi).
Dunque, per riepilogare, vediamo uno schema di panificazione, che di sicuro aiuterà a confondere le idee:

Tutto chiaro, no?
No?...
Vediamo un po' ogni fase di questo gioco dell'oca:

Fase A)
Si parte da una quantità di Lievito a temperatura ambiente (p.e. 200 g)
Deve avere infatti una temperatura di almeno 20°C per tornare pienamente in vita.
Va quindi fatto il rinfresco, per rinnovare di nuovi nutrienti (gli zuccheri della farina) il Lievito.
Questa operazione è fondamentale: se il Lievito non mangia non produce, semplicemente.
Per ricordarmelo mi sono fatto un poster e l'ho attaccato in cucina...

 Tu, hai rinfrescato il Lievito?

Quindi si dovrà aggiugere al Lievito lo stesso peso di farina e metà peso di acqua:
(p.e. 200 g Lievito + 200 g farina + 100 ml acqua)

Fase B)
Si impasta per bene e si lascia lievitare, al coperto e al riparo da correnti d'aria, fino al raddoppio del volume.
Generalmente con una temperatura intorno ai 22°C occorreranno almeno due ore, se non tre.

Fase C)
Si preleva quindi la quantità di Lievito da conservare per la panificazione successiva e lo si conserva in un barattolo di vetro, lasciandolo a temperatura ambiente o in frigorifero.
Nel primo caso, abbiamo visto, occorre nutrire di nuovo Mr. Lievito ogni 2-3 giorni, mentre nel secondo caso l'operazione va fatta ogni 4-5 giorni, previa riabilitazione a temperatura ambiente del marmottino in ibernazione criogenica.
(p.e. Si preleva dalla massa totale - 500 g - una quantità da conservare pari a 200 g, la stessa da cui si è partiti)

Fase D)
Alla massa rimanente si aggiungerà la farina, l'acqua, gli eventuali grassi (come olio evo, ma anche burro o strutto) e, quando l'impasto sarà omogeneo, il sale (eventuale, a meno che si voglia ottenere un pane sciocco).

Le proporzioni tra farina e Lievito sono, orientativamente:
Una parte di Lievito per tre parti di farina.
(p.e. Se si hanno 300 g di Lievito vi si potrà unire fino a un chilo di farina).
Se si usa meno lievito rispetto alla farina (Es. 100 g per 1000 g) i tempi di lievitazione si allungheranno in proporzione, col vantaggio però di lasciare al Lievito il tempo di lavorare tutto l'impasto, rendendolo più digeribile e saporito.
L'ideale sarebbe usare una minore quantità di Lievito "forte" (cioè che una volta rinfrescato triplichi il suo volume in tre ore) facendolo maturare per un tempo maggiore.
Generalmente, per 1 kg di farina si può utilizzare:
300 g Lievito            con           3-4  ore di lievitazione
100 g Lievito            con           8-10 ore di lievitazione

La quantità d'acqua è in genere la metà in peso della farina utilizzata.
A meno che, ovviamente, non si segua una ricetta particolare.
(p.e. Se abbiamo unito 300 g di Lievito e 700 g di farina occorreranno, in linea di massima, 350 ml d'acqua ca.)
Non aggiungere subito tutta l'acqua ma regolarsi in base all'assorbimento della farina, che varia a seconda del tipo e dall'età della farina, dalla sua umidità e da quella esterna e persino dalle condizioni di stoccaggio.
Ci sono da considerare poi i fattori di conversione, qualora partissimo da una ricetta concepita per l'uso di lievito di birra (1).

La quantità di  olio o di grassi utilizzati dipende molto dal gusto che si vuole dare al pane.
Di suo non ne avrebbe bisogno, ma un cucchiaio d'olio ogni 500 g di farina utilizzata è una quantità accettabile.
Non eccedere, comunque, visto che le materie grasse non favoriscono la lievitazione a meno di non utilizzare grandi quantità di lievito.

Il sale, a meno che non si voglia fare del pane toscano, dev'essere circa il 1,5-2% della farina utilizzata.

Insomma con il pane, che se vogliamo è soltanto acqua, farina e lievito, non ci si può davvero annoiare.
I fattori che intervengono nella sua preparazione sono diversi e non sempre quantificabili, ecco il perché di tutta questa approssimazione, ma anche della grande varietà di prodotti che si possono ottenere.
Quanti tipi di pane esistono? Qui diciamo: na marea!

Si impasta con energia e costanza fino ad ottenere una pasta "liscia ed omogenea" (e anche oggi siamo a posto) che verrà messa a lievitare con il suo bel taglio a croce (o un buco al centro) al riparo e al coperto.
Fino al raddoppio, ovvio.

Fase E)
L'impasto viene rilavorato brevemente e gli si dà la forma voluta.
Si lascia rilievitare su teglia, o nel recipiente previsto dalla ricetta, per un tempo minore dei precedenti.
Di solito 2/3 del tempo occorrente al raddoppio.
Si inforna quindi a 200° per una decina di minuti, abbassando a 180° per il tempo di cottura rimanente.
Solitamente un totale di 30-40 minuti.
E poi...
Il pane è pronto!
Detto russo del giorno
Век живи - век учись.    

Vivi un secolo - Studia un secolo


Oggi ascoltiamo
Roger Sanchez - Another change

http://www.youtube.com/watch?v=n80kDDgCfQc

NOTE
1) Nel caso di ricette che prevedano l'uso di lievito di birra infatti, occorre ricalcolate le quantità d'acqua e farina in base all'uso del Lievito, tenendo conto che la composizione di quest'ultimo è data da 2/3 del peso in farina e dal restante 1/3 d'acqua.
Se la ricetta che volessimo seguire fosse la seguente:
1 kg farina
500 ml acqua
25 g lievito di birra
si dovrà considerare prima di tutto che la quantità di lievito di birra previsto è equivalente a 200 g ca. di Lievito, che è formato da 2/3 di farina (133 g) e 1/3 di acqua (67 g).
Le dosi della ricetta devono essere quindi ricalcolate nel modo seguente:
Farina: 1000 g - 133 g = 870 g
Acqua: 500 ml - 67 ml = 430 ml
e Lievito, abbiamo visto, 200 g
Anche qui vale lo stesso discorso della quantità di Lievito utilizzabile e dei proprozionali tempi di lievitazione. Qualora volessimo utilizzare metà del Lievito dovremo prevedere un tempo raddoppiato di lievitazione (oltre a ricalcolare le quantità di acqua e farina).