martedì 26 febbraio 2013

Pe fa la vita meno amaraaa...

... me sò comprato na chitaraaa...
Così cantava Nino Manfredi nel 1970, facendo diventare un classico della canzone romanesca un brano semidimenticato degli anni Trenta scritto da quel mitico animale da palcoscenico che fu Ettore Petrolini.
Era il 1932, ed evidentemente la vita doveva essere davvero amara dopo dieci anni di dittatura fascista, nonostante la propaganda sbandierata dal regime propalasse una felice e rustica italianità.
E chi faceva spettacolo, come Petrolini, doveva non solo essere un bravo interprete e avere una figura carismatica sul palco, ma doveva anche saper dosare l'ironia (la vera merce rara dell'epoca, figuriamoci poi il sarcasmo...) con la prudenza, in un sottile e delicato esercizio da equilibrista.
Una chitarra per cantare, quindi, e tornare ad essere spensierato come ai bei tempi della giovinezza, quelli del primo amore, e dimenticare così le brutture di un'epoca cupa sul cui orizzonte si profilava l'ombra nera della guerra.
Era un modo velato, come ogni canzone del periodo, per dire: "Ma sì, passerà anche questa", "Non stiamo ad arrovellarci", "Se posso, me ne frego io".
In poche parole, il tanto attuale e declamato Metodo Sticazzi, l'unico vero apporto che la romanità abbia dato alla psico-sociologia mondiale .
Manfredi la ripropose nel pieno d'un altro furore epocale, il '68, che stava scardinando molte certezze ritenute assolute, in un mondo diviso tra potenze criobelligeranti, attanagliato dalla crisi petrolifera a intermittenza e con l'austerity alle porte (chi ricorda l'aumento dell'uso delle biciclette a Roma negli anni a seguire?)
Insomma, una chitarra, un fil di voce e tanta voglia de svagasse e de nun pensà.
E allora a proporre quest'ansia da "disimpegno" ci voleva un personaggio rassicurante, amato dal pubblico per la sua bravura (veniva dall'Accademia nazionale d'arte drammatica, mica cotiche) e dotato naturalmente di una calda e garbata umanità.
Il ciociaro più romano de Roma non pensava certo che quel gioiello petroliniano sarebbe tornato a risplendere, diventando un classico della canzone romana.
Brani anche moderni che diventano subito, per lo spirito dei tempi e per la magia della musica, dei veri e propri classici da repertorio.
Quand'ero (un po' più) piccolo mi stupì molto sapere che "Arrivederci Roma" era stata scritta da Renato Rascel solo nel 1955, e che "Roma nun fa la stupida stasera" (vera chicca del Rugantino di Garinei & Giovannini, musicato dal Maestro Armando Trovaioli) era addirittura del 1962.
Ecco, questo per dire che non sempre occorre fare gli archeologi della cultura e rispolverare armonie semidimenticate (operazione lodevole, tra l'altro).
Spesso si scopre che ciò che fa di una musica (o di un qualsiasi prodotto culturale, come dei versi, un romanzo, ecc.) un classico, o un oggetto cult, è soltanto l'essere "scoperto" e accolto come tale.
È, insomma, rispecchiare nella sua semplicità l'essenza non solo del momento ma quel quid che anima la cultura popolare.
Come "La cura" di Battiato, tanto per fare esempio.
Rugantino è ambientato nell'Ottocento (e, guarda caso, fu proprio Manfredi il primo Rugantino della storia del teatro, quello della prima edizione del '62)  ma si propone in una dimensione volutamente atemporale, e quindi più che un dipinto di Roesler Franz è quasi una cartolina (di ieri, di oggi. o anche di domani) con uno sfondo di muri sbrecciati che sembrano eterni.
Ed è sì romano nella forma (Rugà vuol dire fare lo sbrasone, il fanfarone, da tipico perdigiorno d'altri tempi) ma universale nella sostanza.


Tante canzoni romane invece sembrano quasi scritte in latino da quanto sono datate.
Le canzoni della mala d'Ottocento, per esempio, paiono lontane anni luce dalla mala di Romanzo criminale, per capirci, e non solo per il contesto storico ma per il semplice fatto che la mala "storica" non esiste proprio più.
Insomma, pe fà la vita meno amara me sò comprato na chitara.
Non questa...
...ovviamente, visto che sempre di Muccardo si tratta, e che l'unico strumento che sappia suonare sono i piatti. Quelli di ceramica...
Ma di questa:


Non è una ghironda, o un'arpa abbruzzese.
È proprio una chitarra, anzi unu maccarunàre.
Viene proprio dall'Abruzzo, il sud più a nord della penisola, terra spartana e semidimenticata dagli itinerari tutistici ma ricca di sorprese e di gioielli nascosti.
La gente, innanzi tutto.
Abruzzese forte e gentile, e mica è così per dire.
La scorza rude di chi è abituato, quasi geneticamente, a vivere in modo degno nonostante tutte le difficoltà e, sotto la coccia dura e (quasi) inaccessibile, la generosità e il calore che solo la gente "semplice" sa avere.
Una specie che, a differenza dell'orso marsicano, resiste ancora, e che cerca, quasi inconsapevolmente, di mantenere quello che è il vero patrimonio dell'essere umano.
Proprio quello di cui abbiamo bisogno in tempi dove si viene spinti in tutt'altra direzione.

Avevo trovato quest'attrezzo in un mercatino e visto che stava in ottimo stato l'ho preso, ma più per curiosità che per altro.
L'avrò usato infatti un paio di volte, a dir tanto.
Ma allora ero un impastatore implume, e non sapevo quanto sarebbe stato facile tenerlo a portata di mano e preparare, alla bisogna, una bella (doppia) porzione di maccheroni alla chitarra.
E poi è un oggetto bello di per sé, con quei fili d'acciaio tesi come corde d'arpa che, sfiorati, producono una musica che non ricorda Paradisi ma La sora Cencia.
Usare la chitarra per fare i maccheroni è facilissimo.
In primis la pasta: acqua e farina già bastano, per i maccheroni, ma se si vuole usare l'uovo nell'impasto si potranno avere dei gustosi tonnarelli (da fare cacio e pepe, tanto per dire).
Dopo aver lavorato a lungo la pasta e averla lasciata riposare la classica mezz'ora, la si stende e si formano delle strisce non troppo lunghe, che andranno poggiate sulla chitarra.
Pressando con il matterello la sfoglia di pasta sui fili d'acciaio si ottengono così degli spaghetti a sezione quadrata, che saranno spessi dai due ai tre mm, a seconda del lato della chitarra che verrà usato.


Una pasta così rude e paccuta chiede a gran voce la compagnia di ragù e di sughi di carne.
Se ingentilita con l'uovo si accontenterà anche di cacio e pepe o, col guanciale annesso, di un'amatriciana senza pomodoro, la fatidica gricia (prossimamente su questi post).


E se invece lessassi dei broccoletti e li ripassassi poi in un soffritto di (tanto) aglio e pancetta?
Non è meno rustica e rude, no?


Ovviamente, se durante la cottura della pasta squilla il telefono occcorre non rispondere e far finta di essere partiti  per la Patagonia a cercar conchiglie.
Ci si ritroverebbe infatti con una pasta un po' troppo cotta che si avrebbe la voglia di mettere come cappello sulla testa dell'incauto telefonatore di turno...
Ma il segreto di una serena e placida esistenza è anche accontentarsi e fregarsene, se occorre.
E quindi anche di magnarsela così come viene.
Tanto pe magnà...

Detto romano del giorno
Accosta er pane ar dente che la fame s'arisente.

Ossia, l'appetito vien mangiando.

Oggi ascoltiamo
Nino Manfredi - Tanto pe cantà

http://www.youtube.com/watch?v=tkRW5q0DzVg
e l'esilarante parodia
Ciccio Ingrassia - Canto pe magnà
http://www.youtube.com/watch?v=iwjl29BnfSo

venerdì 22 febbraio 2013

Patatummuš con hamburger

La saga della tahine non ha fine...
Dopo il Mommogammuš (con le melanzane), il  Mhummuš (coi ceci) e persino la Sesanella, che si possiamo ancora fare?...
Ma il Patatammuš, no?
Tanto il principio è sempre quello: un passato di verdura, od d'un ortaggio a scelta, con aggiunta d'aglio, spezie e, ovviamente, la tahine.
E passa la paura.

3    patate
1    spicchio d'aglio
1/2 cucchiaino di cumino in povere
una punta di coriandolo in polvere
2     cucchiai di tahine
olio q.b.
Lessare le patate (nella pentola a pressione bastano 12 minuti, se intere, oppure 5 se fatte a spicchi).
Si schiacciano e vi si aggiunge un soffritto d'aglio ben tritato.
Il cumino è divenuto imprescindibile in questo tipo di contorni, quindi almeno mezzo cucchiaino, fino a uno intero, ce lo metto sempre.
Me ce piace.
Quella nota agra che nel babaganush e nell'hummus veniva data dal limone l'ho sostituita con la freschezza discreta d'un pizzico di coriandolo in polvere.
Veramente veloce, e senza pretese ma, perlomeno, un sapore diverso.

Solo che così, da solo, mi pareva triste, solitario y final.
Allora mi sono cucinato degli hamburger, ma a modo mi.
Ho aggiunto alla carne del prezzemolo tritato, un quarto di cipolla rossa, anch'essa tritata e, come al solito, la coppia che impazza (cumino e coriandolo in polvere).
Ma poco: la punta di un coltello.
E via, a sfrigolare sulla padella antiaderente, senz'altri grassi aggiunti.






Scritta del giorno
Lo scopo della mia vita è far conoscere al mondo i piaceri della carne 

(in una macelleria)

Oggi ascoltiamo
Mario Castelnuovo - Quanto è bella la vita

http://www.youtube.com/watch?v=Xh46Nv1qlTc&feature=youtube_gdata_player

mercoledì 20 febbraio 2013

Basos de janas


Eteree, fugaci, sfuggenti.
Vive nell’immaginazione di ogni popolo, e strettamente legate agli elementi della natura.
Nessuno le ha mai viste davvero, le fate; molti ne parlano, o almeno ne parlavano in passato, e ben pochi sanno come siano fatte.
In s'isula mea amada le fate sono dette janas e ancor oggi le loro dimore, grotte ipogee che furono sepolture preistoriche, vengono chiamate appunto domus de janas.
Il loro nome somiglia alla parola janna, ovvero porta.
Cosa sono infatti le fate se non delle porte che dal nostro mondo si aprono in una dimensione ultraterrena?
Minute e bellissime, vestite di rosso e col capo coperto da un fazzoletto ricamato d’oro e d’argento.
Il corpo evanescente e la pelle talmente delicata che anche il più pallido sole potrebbe rovinarla.
Ecco perché escono solo di notte, e se non c’è la luna sanno diventare luminose come lucciole, per evitare le spine dei rovi lungo i sentieri di campagna.
Passano le notti a sbrigare le loro faccende, soprattutto a tessere senza posa su piccoli telai un ordito di filo d'oro splendente alla luce della luna, cantando bellissime melodie che nelle notti silenziose davano conforto ai viandanti solitari.
Quando di notte è luna piena, stendono i panni sui prati ad asciugare.
Alcuni dicono che tramite i veli stesi alla luce della luna, incantassero di meraviglia il viandante che veniva quindi rapito da nani crudeli.
Si dice anche che chi di notte sentisse chiamare tre volte il proprio nome avrebbe potuto mettere le mani su un cospicuo tesoro, ma solo qualora si fosse data prova d’onestà.
La cupidigia avrebbe infatti trasformato l’oro in cenere e carbone.
Altri sarebbero stati accolti nel loro mondo fatato e se avessero poi avuto voglia di tornare nel loro mondo abituale, magari dopo qualche giorno, avrebbero scoperto che invece di giorni erano passati anni, secoli, e che il dono della ricchezza era stato accompagnato da quello della solitudine.
Ma solitamente sono gentili ed affabili, anche se riservate e timide, e dato che non si sposano in alcune zone sono anche dette birghines (o virghines).
La notte entrano nelle case degli uomini, si accostano alle culle e, cambiando l'intensita della loro luce, decidono il destino del bambino, se fortunato o meno.
Ancora oggi quando si incontra una persona fortunata si dice che è bene fadada, mentre di quella sfortunata si mormora invece che è di certo mala fadada.
In altre regioni sono malevole e sgradevoli come orchesse, e come loro alquanto permalose, tanto che se disturbate da qualche incauto cercatore di tesori, possono vendicarsi in modo esemplare.
Altrove sono delle gigantesse dal seno emorme che vivono nei nuraghi.
Altre ancora ricordano la figura della temuta Surbile, la donna-vampiro che di notte succhia il sangue dei neonati.
Insomma, molteplici aspetti per uno stesso essere.

Pochi però conoscono l'esistenza di altri tipi di janas, tanto che queste non hanno neppure un nome che le designi.
Noi umani, che tanto amiamo catalogare esseri e cose, le potremmo chiamare janas caciarone.
Sono uno strano incrocio tra le fate e i fabbri.
In apparenza leggiadre e delicate come fatine ma, nella sostanza, sguaiate e rozze come maniscalchi d’altri tempi.
Le janas caciarone, così rudi e toste, non sono infatti come quelle fatine dalle ali traslucide che passano gran parte del tempo a cucirsi abitini di foglie e a fare smancerie agli insetti.
Vivono infatti in un’altra dimensione, dove passano il tempo a bere come alcolizzate una mistura di sidro a 90 gradi insaporito da polline di passiflora, ballando e cantando a squarciagola canzonacce da osteria e facendo gare di rutti e di versi improvvisati.
Su quali temi lo si lascia immaginare…
Di notte possono essere viste cavalcare le loro velocissime cavallette mentre si spostano per la campagna per radunarsi nei loro rumorosissimi rave-party.
A loro Easy rider gli fa un baffo!
A tempo perso amano forgiare i metalli, ricavandone fini monili, catene e altri oggetti, soprattutto  capanacci, che nelle notti di plenilunio lasciano appesi alla porta delle case o al collo del bestiame, spaventando ogni volta i destinatari di simili doni.
I poveri pastori, infatti, mai si sognerebbero di staccare quegli oggetti fatati dal collo dei loro animali, dato che quei campanacci hanno poteri sconosciuti, ed ognuno legato alla persona o all’animale a cui sono stati donati.
Sono, senza alcun dubbio, le migliori fabbre dell’universo…
Si dice anche che solo col dolore acuto e il bacio di una lacrima le si può richiamare nel nostro mondo.
Ma chi di noi vorrebbe aver a che fare con la loro tracotante vitalità?

In onore di questi esseri fatati prepariamo dei dolcetti delicati e forti, dal sapore avvolgente ma delicato.
Come solo sanno essere i baci delle janas.

Per il Pandispagna alle mandorle occorrono:
3          uova
180 g   zucchero
150 g   mandorle non pelate
30 g     farina.
Sembra il Pandispagna di Torreblanca, ma lui mette solo mandorle e poi usa quelle pelate ridotte in farina. 
Credo che invece le mandorle non pelate, tritate quindi con la buccia, abbiano tutt'altro sapore.
Montare a nastro le uova con lo zucchero.
Ricordo che la frusta, sollevata sull’impasto, deve “scrivere”.
Aggiungere le mandorle tritate assieme alla farina (così si evita la fuoriuscita d’olio dalla frutta
secca).
Versare il composto in una sac à poche con bocchetta media (da 10, per capirci) e formare sulla placca coperta da carta forno dei mucchietti ben distanziati.
Cuocere una ventina di minuti, a doratura.


Farli raffreddare prima di toglierli dalla placca: sono delicatissimi e si sbriciolerebbero se ancora caldi.

Per la ganache al cioccolato fondente:
50 ml   panna
50 g     cioccolato fondente

Per la ganache al cioccolato bianco:
70 ml   panna
150 g   cioccolato bianco

In entrambe: 2-3 cucchiai di mirto…
Dividere i cioccolati a pezzetti in due ciotoline, quindi portare a bollore la panna totale col mirto.
Quando sta per bollire suddividerla nelle due ciotole e mescolare bene con i cioccolati per farli sciogliere perfettamente.
Una volta freddata far riposare in frigo per almeno un’ora, quindi armarsi di frusta e picchiare il vostro fedigrafo compagno!
No, fermi tutti! 
Montare le ganache…
Basteranno davvero pochissimi minuti (a differenza che col compagno fedigrafo…)
Con una sac à poche o una siringa da pasticceria formare un cuore di ganache fondente su metà dei biscotti, mentre con la ganache bianca formare un anello di crema che lo circondi.


La dolcezza che protegge la forza, proprio come le nostre janas.
Coprire con l’altra metà dei biscotti e… assaggiare.
Ne escono comunque una ventina, quindi si può fare, senza eccedere.
Fermatevi prima di averli finiti tutti e tenere in frigo i superstiti.


Prima di servirli lasciarli a temperatura ambiente per una decina di minuti, per far riammorbidire le ganache.


Detto sardo del giorno
Sa fortuna andat cum sa cura
Alla fortuna bisogna aggiungere diligenza e lavoro.
(Mica bastano le janas...)

Oggi ascoltiamo
Ilaria Porceddu - In Equilibrio

http://www.youtube.com/watch?v=ZJsmT0UH4Hk
Non si sentiva cantare in limba a Sanremo dal '92, coi Pitzinnos in sa gherra.
Che sia un nuovo inizio.

domenica 17 febbraio 2013

Quiche ai cavolini di Bruxelles


- Sedici euri e quaranta... Scusa, te posso chiede che come te li fai 'sti cavoletti de Brusselle? Io nun l'ho mai cucinati...
- Cavoletti... di Bruxelles?...
Arièccoci, il mostro Aniba ha colpito ancora! Non mi posso distrarre un attimo. E adesso?...
- Ehm.... Pamè, ci faccio... una torta rustica...
- Maddài! Fico! Poi me la spieghi, quanno ciài tempo?
Azz... potevo fare il vago? No, devo sempre trovare una giustificazione, razionale o no che sia, e devo sempre star lì ad arrabbattarmi... Già di mio sto sempre escogitare spiegazioni per trovare un filo di senso nel caos. Ci mancava solo il demone cuciniero, maledett'allui!
- Certo, senz'altro. Baci al pupo, Pamè, ciao!
- Ciao ciao!

- Questa adesso me la spieghi, eh?
- Io non so niente...
- Guardami negli occhi... No, meglio di no. Che ti viene in mente? Hai visto quanto costano?
- Poco, stavano pure in offerta!
- Ma... io dico: possibile? Nemmeno i bambini di due anni fanno così! Se continui a comportarti a 'sta maniera giuro che faccio lo sciopero della fame e ti faccio sloggiare per sempre!... E smettila di ridere!
- Tu... sciopero della fame?.... Ahahahahahah.... tu che non mangi.... Ahahahahahah.... Allora... campo tranquillo! Ahahahahahah.
- Adesso mi trovi in quattro e quattr'otto una ricetta di quiche ai cavolini di Bruxelles! E che sia mangiabile, per favore.
- Ah, stava tutto qui il problema? Vai, vai, prepara una pasta brisée, al resto penso io.
- Voglio proprio vedere. E, per favore, niente ricette pseudo-etniche! Non fare come quando m'hai proposto le cozze con la meringa spacciandole per un piatto thai!
-...e salsa al rafano....
- Che?
- C'era pure la salsa al rafano... non te la ricordi? Me la passò il buon Jättebra...
- Ma quale Jättebra e Jättebra! Te la sei inventata tu di sana pianta, altro che no!
- Sì, vabbè, ma è plausibile, no?... No?... Dove sei?...

A preparare la pasta brisée, pur di non seguitare a sentirlo.
Avrei voglia di soffocarlo con una sorsata di bicarbonato, l'unica cosa che riesce a farlo tacere...
Va bene la dose da 300 g di farina, e conseguenti 150 di burro, e acqua q.b.
Ah, anche il sale, ovviamente.

Per il ripieno della quiche seguiamo le indicazioni dell'indisponente.
Quindi:
700 g    cavolini di Bruxelles
500 ml  besciamella
2            tuorli
50 g       parmigiano
q.b.        sale, pepe,
Lessare iin acqua bollente i cavolini di Bruxelles per 15'.
Nel frattempo si prepara la besciamella, come già sappiamo.
Appena s'intiepidisce vanno aggiunti a questa i tuorli e il parmigiano.
Stendere la pasta brisée nello stampo, rivestire il fondo di cavolini di Bruxelles e
ricoprire con la besciamella.
Cuocere a 180° per 30-40'.
A solidificazione e doratura della superficie.



- Allora, come è andata 'sta torta rustica?...
- Bene Pamè, era squisita. Pensa che la ricetta me l'ha un mio conoscente straniero. Si chiama Jättebra.
- Pakistano?
- No.... paraculo!

Detto belga del giorno
Aime moi peu, mais continues.

Amami poco, ma continua.


Oggi ascoltiamo
Portishead - Glory Box

http://www.youtube.com/watch?v=f8AvvaC8sZk

venerdì 15 febbraio 2013

Pane cominista

... o anche cuminista, che dir si voglia.

  - Булочники всех стран, соединяйтесь! -

Panettieri di tutto il mondo, unitevi 

Come a dire: W il Partito della Pagnotta!...
D'altronde sono più di quattro anni che il pane che mangio nasce direttamente a casa mia.
L'ho provato, come si dice, in tutte le salse: usando farine diverse e diversi metodi di lavorazione, unendo a quelli base ingredienti ogni volta più stuzzicanti.
M'ero anche cimentato nell'accudimento del lievito madre ma il piccino, Osvaldo si chiamava, venne a mancare una calda giornata d'agosto...

-Osvaldo buonanima -

Da allora non ho più avuto cuore di ricominciare...
Anche perché stando da solo non è che possa permettermi di panificare in smisurate quantità, e il vorace tamagochi magnava come un forsennato.
Sinceramente, non so se riesco a stargli dietro.
Ma magari un giorno mi partirà la scheggia, come si dice qui, e mi rimetterò a fare Maga Magò al completo.

Intanto oggi propongo un pane che m'ha incuriosito non tanto per gli ingedienti quanto per il metodo di lavorazione, che non avevo mai incontrato nel mio percorso di appassionato d'Arte Bianca.
È un vero e proprio parto in acqua...
Vediamo di cosa si tratta.

Occorrono:
500 g    farina
25 g      lievito di birra
150 ml  latte
2           uova
125 g    burro ammorbidito a temperatura ambiente
2 cucchiai di semi di cumino (o comino, uffa...)
acqua    q.b

Procediamo con le solite fasi di lavorazione dei lievitati ad impasto indiretto, quelli cioè che iniziano con un preimpasto (sia esso il lievitino, la biga o il poolish) che fa sbocciare il lievito, e al quale segue l'impasto vero e proprio di tutti gli ingredienti con le successive lievitazioni.
Abbiamo quindi:

Fase 1) - Lievitino
25 g    lievito di birra
Un cucchiaio di zucchero
farina e acqua tiepida q.b
Si pongono gli ingredienti in una terrina, e si impasta in misura sufficiente a formare un panetto.
Taglietto a croce e si lascia lievitare al coperto e al riparo dalle correnti d'aria per circa 20 o 30', o almeno fino al raddoppio.

Fase 2) - Impasto
In una ciotola si uniscono gli ingredienti al lievitino, partendo da parte del latte, poi le uova, il sale,  il burro e il resto del latte, inglobando la farina indicata
Lavorare con energia fino ad ottenere un composto omogeneo.
Rovesciare quindi sulla spianatoia e lavorare energicamente, fino ad ottenere una pasta liscia ed elastica.
E adesso viene il bello...

Mettere il bambinello in una ciotola capiente, coprendolo interamente d'acqua tiepida.
La superficie dell'acqua deve superare l'impasto di circa 4 cm.
Lasciar lievitare per un quarto d'ora, venti minuti.
Lievitando la pasta svilupperà i gas che faranno emergere dal fondo il panetto.
Eccolo qui, allegro, giocondo e bello lievitato a dovere:



Fase 3) - Lavorazione
Tirar fuori dall'acqua il pupo ed asciugarlo tamponandolo con un canovaccio, quindi trasferirlo sulla spianatoia infarinata e lavorarlo per qualche minuto, aggiungendo un po' di farina se necessario.
Unire un altro cucchiaio di zucchero e i semi di cumino ed impastare ancora, ottenendo una pagnotta omogenea, che verrà fatta rilievitare su teglia, coperta da un panno, per circa 30'.

Fase 4) - Cottura
Infornare a 200° per i primi 20', quindi abbassare a 180° e seguitare per altri 20', circa.
Se il pane dovesse colorirsi troppo, dopo i venti minuti iniziali, coprirlo con un foglio d'alluminio e proseguire la cottura.
Il pane è cotto quando, battendolo sul fondo, produce un suono secco e legnoso.
Se bussando risponde invece un felpato e morbido ciof-ciof proseguite serenamente la cottura per altri 10'.
Quando anche lo spiedino di legno ha confermato la cottura, l'ho messo a prendere aria su una gratella.


A dire il vero l'ho aspettato come un gatto che fa le poste davanti alla tana del topo...
Ancora un po'... È ancora caldo... Ma quanto ci mette?...
Ero troppo, troppo curioso.
E visto che i coministi mangiano i bambini, l'ho presto, sbranato e farcito con pecorino sardo di media stagionatura.


Che è, e mica così per dire, la morte sua!

Aforisma del giorno 
I coministi sono capaci di tutto. I loro avversari di tutto il resto.

Charlie Chaplin
Oggi ascoltiamo
Ivano Fossati - Quello che manca al mondo

http://www.youtube.com/watch?v=1bHEQFU3WmU

giovedì 14 febbraio 2013

Cazzabbubboli all'aglione anti-san valentino

Non basta Halloween, che con la scusa di "dolcetto o scherzetto" fa dimenticare Samhain, il capodanno celta, e fa acquistare quintali di caramelle e dolciumi vari.
Non basta quel babbione (e anche un po' pedofilo, mi sa...) di Babbo Natale che spinge le povere famiglie a tirare la cinghia per acquistare l'ultimo prodigio nel campo delle materie plastiche, a dispetto d'una Befana negletta e quasi emarginata.
Non bastano le feste comandate con il fottìo di panettoni,pandoroni e annessi inutili ammenicoli che ancora si ha il coraggio di scambiarsi.
No, ci dovevano propinare anche sto cazzabbubbolo (1) di san valentino...
Chi gliel'avrebbe detto a Valentino, vescovo d'Interamna (ossia di Terni) e martire nel 273, di diventare, non si sa come, patrono degli innamorati?
Facile da capire, invece: il vescovo secondo il Martyrologium Hieronymianum, perse la testa per mano dei suoi carnefici.
Un po' come accade agli innamorati tutti, da che mondo e mondo.
L'azienda di cioccolatini più famosa d'Italia quest'anno ha lo slogan: "Chi ama, baci!"
Come negli anni Settanta ci dicevano: "Chi 'Vespa' mangia le mele. (Chi non 'Vespa' no)", e tutti giù, ad assillare i propri genitori per farsi comprare un motocilco e non essere, agli occhi dei compagni, dei perfetti sfigati.
Qui però si gioca sporco.
Questi sono colpi bassi, sotto la cintura.
Come osate subdolamente insinuare, o voi o marrani, che chi non baci non ama?
È come chiamare un partito con uno slogan da stadio.
Non si fa.
Come potrete, vili mercanti d'oggetti e di sentimenti, pagare lo scotto di una frase del genere?
E, soprattutto, la dabbenaggine di esservi affidati a un'agenzia di creativi che ancora conia gli spot come trent'anni fa ma si fa pagare invece in (cospicua) valuta corrente?
Ho un'idea...
L'aglio, si sa, ha molteplici proprietà. Ha infatti:
˜ azione ipotensiva e benefica a livello cardiovascolare;
˜ azione antibiotica;
˜ azione antimalarica;
˜ azione antinicotinica;
˜ azione ipoglicemizzante.

Aiuta inoltre a:
- curare mal di gola, laringite, tracheite e tonsillite;
- curare piccole cisti, punture d'insetti, eruzioni cutanee;
- alleviare i dolori dell'artrosi alle mani e ai piedi;
- curare la sinusite;
- combattere cervicale, periatrite, sciatalgia e lombaggine.

Tiè. Nient'altro?
A tutto questo florilegio di virtù unirei anche il fatto che fin dai tempi degli egizi l'aglio tiene alla larga gli spiriti maligni, per non parlare poi delle streghe e dei vampiri.
E ci credo: quale essere, anche se non-morto, si azzarderebbe ad avvicinarsi al collo di un vivente che avesse masticato una testa d'aglio crudo?
Non morti, è vero, ma mica scemi!...
Questa capacità di rendere inavvicinabili le persone che ne fanno un uso massiccio (e anche no...) non è, a ben vedere, un dispregio del prezioso bulbo.
Cosa c'è di meglio dell'aglio, infatti, per esorcizzare questa festa dei cioccolatieri, delle compagnie telefoniche, dei fiorai, e di nient'altro?
E allora che preparo per pranzo: una corona d'aglio?
E chi sò io, Nosferatu?
Magari però ci vorrebbe un bel piatto in cui strafogarsi da soli, alla faccia di tutto il bombardamento mediatico che vuole subdolamente farci credere che se stai da solo sei soltanto un povero mentecatto.
Qui ci vuole proprio un bel piattone di Cazzabbubboli all'aglione.
E con i funghi, certo.

Occorrono:

Per la pasta (da preparare il giorno prima, magari)
200 g     semola di grano duro
acqua e sale q.b.
Formare con acqua e semola un panetto di pasta morbida ed elastica.
Lavorarlo parecchio, dieci minuti almeno, così da renderlo perfettamente cedevole e malleabile.
Farlo riposare per la canonica mezz'ora al coperto in una terrina, quindi rilavorarlo e formare un lungo serpente di pasta, da cui si ricaveranno dei pezzetti spessi un dito.
Stendere con un piccolo mattarello o con le dita la pasta come a formare delle orecchiette schiacciate, dei petali caduti, dei cuori rinsecchiti.
Lasciar riposare la pasta su un canovaccio spolverato di semola e farla asciugare bene.



Sì, a me piacevano col piticozzo, così, per vezzo.
Come la corolla di una bella di notte diventata pietra.

Per la salsa
100 g     funghi champignons
200 g     pomodori pelati (mezza scatola)
3 spicchi d'aglio a persona (quindi, tre...)
una manciatina di funghi porcini secchi
sale, pepe e olio evo q.b.
Mettere in ammollo in mezza tazza d'acqua tiepida i porcini secchi.
Basteranno pochi minuti ridar loro la vita.
Tagliuzzare l'aglio a pezzettini piccini piccini.
No, non gli dovete né togliere l'anima né dovete lasciare loro la camicia.
Li fate invece in tanti pezzetti piccoli, quasi a tritarlo, per poi soffriggerlo a fuoco basso in qualche cucchiaio d'olio evo.
Tagliuzzate i funghi e uniteli all'aglio dorato.
Fate insaporire, quindi aggiungere i funghi secchi, ben sminuzzati.
Lo so che i grandi chef odiano aggiungere l'acqua in cui sono rinvenuti i funghi, ma secondo me qualche cucchiaio, preso a pelo d'acqua, non rischia di farci sentire un eventuale terriccio sotto i denti.
Dopo un paio di minuti unire i pomodori pelati, che avrete tagliuzzato alla bell'e meglio in una terrina, e mezzo bicchiere d'acqua.
Salare, pepare, e far cuocere a fuoco moderato per una decina di minuti.
Intanto portare a bollore una pentola d'acqua salata, dove tufferete i Cazzabbubboli che, asciugandosi, saranno diventati fragili e, cuocendo si spezzereanno come dei maltagliati tagliati davvero male.
Che senso ha allora, stenderli così laboriosamente a mano come delle sottili ostie se poi, a contatto dell'acqua bollente si romperanno inesorabilmente fino a coriandolizzarsi?
Che senso ha allora costruire con fatica, passione e impegno un cuore che poi, a contatto con le vicissitudini della vita, con la noia e con la malafede, può spezzarsi in tanti brani scomposti?
Nessuno, appunto.


Versare in una terrina il sugo bel caldo e scolarvi sopra la pasta.
Mescolare bene e impiattare (come si ama tanto dire oggi) i Cazzabbubboli fumanti che, se si preferisce, possono essere spolverati da una manciatina di prezzemolo tritato.
Anche lui.



(1) Cazzabubbolo = (volgare) ometto sciocco e presuntuoso.
Termine di origine toscana, composto da cazzo e bubbolo che designa un uomo di poco o nessun conto, qualcuno di cui non ci si sforza neppure di esplicare il nome.
Indica anche qualcosa avente lo stesso significato ("Dammi un po' quel cazzabbubolo! Sì, quello sul tavolo.").
Per me però ha un significato particolare, che mi riporta a quel lessico familiare fatto di vezzeggiativi, canzoni e modi di dire, che s'usavano in casa quand'ero piccolo.
(Si parla, quindi, dei tempi dell'inaugurazione del Colosseo, o giù di lì. Era ancora vivo lo sconcerto per l'ingloriosa fine di Pompei e a Roma convergeva, da tutto il mondo conosciuto, ogni bendiddio...)
Una delle frasi con cui mia madre mi faceva ridere da piccolo era:
"Commare Marè, che me lo presti lo catafesso pè fa li cazzabbubboli a maretemo? "
Che avrebbe significato, più o meno: "Commare Maria, mi presti la tavola per stendere la pasta, dato che devo preparare i maccheroncini a mio marito?"
Più Cazzabbubboli di così...

Aforismi del giorno
L'amore è l'egoismo in due.

Stanislas de Boufflers, Pensées, saillies et bons mots, 1816 (postumo)

L'amore è l'attività degli oziosi e l'ozio degli attivi.
Edward Bulwer-Lytton, Rienzi, 1835

La grande, la sola originalità dell'amore è rendere la felicità indistinguibile dall'infelicità.
Emil Cioran, Confessioni e anatemi, 1987

In amore bisogna essere senza scrupoli, non rispettare nessuno. All'occorrenza essere capaci di andare a letto con la propria moglie.
Ennio Flaiano, Taccuino, 1959 (postumo)

In amore gli scritti volano e le parole restano.
Ennio Flaiano, Appunti, 1950/72 (postumo in Diario degli errori)

L'amore è una cosa troppo importante per lasciarla fare agli amanti.
Ennio Flaiano, Appunti, 1950/72 (postumo in Diario degli errori)

L'amore è un desiderio irresistibile di essere irresistibilmente desiderati.
Robert Frost, Comment

L'amore è come la fortuna: non gli piace che gli si corra dietro.
Théophile Gautier, La signorina di Maupin, 1836

Che cosa è tutto quanto gli uomini han pensato in millenni, di fronte a un solo istante di amore?
Friedrich Hölderlin, Iperione, 1797/99

L'amore ha il diritto di essere disonesto e bugiardo. Se è sincero.
Marcello Marchesi, Il malloppo, 1971

Le parole d'amore che sono sempre le stesse, prendono sapore dalle labbra di chi le pronuncia.
Guy de Maupassant, Bel Ami, 1885

L'amore nasce per appetito, dura per fame e muore per sazietà.
Alessandro Morandotti, Minime, 1979/80

L'amore è un'astrazione alla perenne ricerca di una corposità.
Alessandro Morandotti, Minime, 1979/80

L'amore ha la virtù di denudare non i due amanti l'uno di fronte all'altro, ma ciascuno dei due davanti a sé.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 1935/50 (postumo, 1952)

L'amore, sono lo spazio e il tempo resi sensibili al cuore.
Marcel Proust, La prigioniera, 1923 (postumo)

L'amore consiste in questo, che due solitudini si proteggono a vicenda, si toccano, si salutano.
Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, 1903/08

Temere l'amore è temere la vita, e chi teme la vita  è già morto per tre quarti.
Bertrand Russell, Matrimonio e morale, 1929

L’amore è l’appagamento reciproco di un’illusione.
Giovanni Soriano, Finché c'è vita non c'è speranza, 2010 


Oggi ascoltiamo
Hooverphonic - Mad about you

http://www.youtube.com/watch?v=fR9vFEcC7aQ

mercoledì 13 febbraio 2013

Lesso alla picchiapò

Metti che ti accaparri una bella sleppa di muscolo di manzo adocchiata sul banco frigo (e pure a prezzo vantaggioso) e che ti venga voglia di un bel brodo fatto in casa.
Per me è un tutt'uno.
Da quando ci metto 40 minuti invece delle solite tre ore la cosa è non dico una passeggiata, ma quasi.
Sempre grazie a lei, ovviamente:


La terza invenzione più importante della storia dell'umanità.
Le prime due? Mhhh... Direi la lavatrice al primo posto e i profilattici al secondo.
Certo, qualcuno potrebbe invece dire il tiramisù, e altri addirittura  la mascherina per gli occhi ma, si sa, ognuno ha la sua percezione di ciò che è importante per sé e per il resto dell'umanità.
Dopo quindi essermi preparato cinque litri di brodo (si sa, vivendo da soli mica si può lesinare...) s'è insinuato sottile  nella mente, come un lieve ma pernicioso sospetto, il timore che non potessi riuscire a finire la carne lessata, rischiando così di farle fare una fine ingloriosa.
Direttamente dal suo recipiente al secchio della spazzatura.
Sacrilegio! Orrore! Sventura immane!
Altro che scioglimento delle calotte polari, altro che fine del mondo (profezie Maya o meno), altro che aumento di peso coadiuvato dallo spropositato consumo di burro e zucchero dell'ulimo periodo (ma questo non lo si dico certo ad alta voce...)
E che, davero davero?
No, no, nun se pò! Qui nun se butta via niente, altro che!
Meno male che ciò zio Gianni, un'Enciclopedia della Cucina su due gambe.
Con lui non rischi certo di rimanere a corto di idee...

Ora, il lesso si può riciclare in tremila e cinquecento maniere diverse (magari anche su una costata, chissà, fatta in agrodolce, alla mantovana, con crema sciocca di pistacchi...) ma ce n'è uno che m'ha raccontato zio e che m'incuriosisce assai.
Una ricetta oramai semidimenticata che fa parte della cucina romana.
Una cucina, come si sa, storicamente povera, e dove le portate di carne erano in prevalenza tutte le coniugazioni culinarie del quinto quarto.(1)
Ma non per questo meno saporita.
Il lesso alla picchiapò nasce dalla necessità di moltiplicare un solo ingrediente in più piatti .
Per primo il brodo, con la pasta all'uovo o la stracciatella.
Poi il secondo, con un bel piatto di lesso bagnato di salsa verde o anche solo spolverato di prezzemolo.
E se invece ci andasse di ripassarlo in padella?...
È questo «un arzillo piatto romano, quasi divertente», scrive Livio Jannattoni (2).
E per capire appieno la portata di quest'affermazione non si può che armarsi di cipolla e mettersi all'opera.

Occorrono
500 g di muscolo di manzo, già bello e lessato
400 g     pomodori pelati (1 scatola)
1    cipolla (o anche due... Anzi: una bianca e una rossa, va)
Il manzo deve essere stato lessato utilizzando i consueti odori da brodo: Trittico (carota+cipolla+sedano) e spezie a seconda dei gusti (alloro, timo, chiodi di garofano, ecc.)
Si fa rosolare (a fuoco basso...) nell'olio di oliva una o due cipolle a fettine sottili e si aggiungono quindi i pomodori pelati.
A cottura avvenuta si mette il lesso tagliato a fettine e lo si lascia insaporire con sale e pepe.
Appena il condimento si fa un po' asciutto si versa un po' di brodo e una pioggia di prezzemolo tritato.


Se si gradisce si possono aggiungere anche un po' di maggiorana e di basilico.


Gliuliano Malizia (3) scrive: "Un tempo le massaie per saziare meglio i loro commensali aggiungevano dopo il pomodoro patate a spicchi, che si facevano seguire dal lesso per ottenere una pietanza uniformemente insaporita e amalgamata. "
Ah, l'inventiva delle nostre bisavole!...

Versione pre-colombiana
Appena le cipolle saranno appassite nell'olio caldo, si versa la carne a pezzetti e, a insaporimento avvenuto, si bagna con un bicchiere di vino bianco o rosso, lasciando stufare per alcuni minuti.
Se occorre, bagnare con mezzo bicchiere di brodo, superstite del pranzo.



 
E il pomodoro?...
Ecco, se fossimo  seduti a un tavolo d'osteria e fossimo nel 1458,verremmo guardati con un certo sospetto.
Un po' come accadde al pittore danese Carl Heinrich Bloch in un suo quadro famoso:


Ecco come si presentava ai suoi occhi un'osteria romana nel 1866.
- Scusi, signor oste... io l'avrei preferita col pomodoro...
- Cor che?!?
- Col pomodoro...
- E che d'è!?
- Beh, come cos'è. Sa quell'orataggio rosso...
- Senti, a neno, qui quer pommidoro, come dici te, nun ce l'hanno ancora portato. L'unico pomo che conosco è la mela. Che lo voi colla mela, forse?
E gli altri commensali che ti guardano come se stessi minacciando la loro integrità mentale e/o morale con i tuoi sproloqui.
- A Remo, hai sentito? Quello vole la picchiapò co... com'è che ha detto, Niné?
- Co er... pommidoro...me pare... Guardelo com'è rimasto! A me me pare scemo! Ih, ih,ih"
- Ma guarda 'st'impunito!...Che vòi! Limortitua...si continua a guardà co quella faccia je dò na capocciata in mezzo alle corna!

Qualche generazione dopo lo stesso commensale avrebbe potuto chiedere all'oste:
- Scusi, ma in questa coda alla vaccinara c'è anche un pizzico di cacao, vero?
- Eccerto, che c'è! E che nun ce lo metto? Boh, guarda te si sò domanne da fasse!...
E gli altri commensali, i soliti tre del quadro:
- A Remo, hai sentito? Quello stà a inzinuà che er sor Agusto drento alla coda nun ce mette 'a cioccolata. Ma te pare a te, Niné?
- Bè, poca ma un pò ce vole... Guardelo com'è rimasto! A me me pare scemo! Ih, ih,ih"
- Ma guarda 'st'impunito!...Che vòi! Limortitua...si continua a guardà co quella faccia je dò na capocciata in mezzo alle corna!
Appunto...

Niente di che, l'ho detto.
Un piatto d'una semplicità disarmante, una ricetta da riciclo.
Un escamotage sopravvissuto per secoli e secoli ma che, ad assaggiarlo, fa ancora restare a bocca aperta.

Detto romano del giorno
Mejo puzzà de vino che d'acqua santa.


Oggi ascoltiamo
Gabriella Ferri - Sempre

http://www.youtube.com/watch?v=ILqUaUCv16k
Una canzone struggente, con la voce di una grande e indimenticata interprete della romanità.

P.S. Ho barato: nella versione pre-colombiana ho aggiunto qualche pomodorino a spicchi.
Preso fresco fresco con la macchina del tempo: il frigo di casa....

NOTE
1) cioè le interiora o frattaglie e le parti meno nobili, come la testa, la coda e le zampe, dei bovini, degli ovini e dei suini
2) La cucina romana e del Lazio, Newton Compton ed.
3) La cucina romana ed ebraico romanesca, Newton Compton ed.

Er cantuccio de'e spezie

Finalmente ho messo ordine in quel baillamme che era l'angolo delle spezie, semisepolto tra ammenicoli e attrezzi più o meno intonsi.
Pochissimi euro e finalmente ho tutte le cose al loro posto:
 

Certo, non è il massimo, ma non è questo a cui aspiro.Se posso, mi limito cercare il meglio.
Adesso sì che la mia cucina sembra sempre di più la capanna di mad Madame Mim, ovvero...
  

 Maga Magò!...

Peciona (maldestra, brocciona), mercuriale,imprevedibile... 'na matta, insomma.
Ah, fa anche parte dell'associazione "zitelle anonime" ed è amica di Amelia (la strega che ammalia) solo ed unicamente per estorcerle un filtro d'amore che faccia innamorare  di lei lo sfuggente Macchia Nera.
Pover'ammé...
 

venerdì 8 febbraio 2013

Pipe alla zucca (e semmai ricotta)



- Certo, mi sembrano un po' troppo croccanti...
- Leppagorre, ma le pipe che intendo io non sono certo di questo genere!
 - Ah, no? Peccato... Magari con del prosciutto di Praga e degli asparagi saltati in padella avresti potuto esaltare quel certo gusto affumicato...
- Eh sì, ci manca solo che iniziamo a sgranocchiare legno, qui. Non ti basta quello che ti propino ogni giorno? Non sapevo che i demoni fossero senza fondo...
- Eh, molte cose non sai dei demoni, tu...
Quando fa così, con quel lampo verde negli occhi non so se, com'è molto probabile, mi stia prendendo per i fondelli o nasconda, invece, chissà quale arcano segreto.

Comunque, ovviamente, le pipe che intendo io sono queste.
Un formato di pasta irresistibile.
Le fai con la ricotta?
Sembrano fatte apposta per la cremosità del formaggio.
Le salti in padella con delle verdure?
Sembrano non essere mai state da nessun'altra parte.
Le accarezzi con un bel sugo denso e saporito?
(Magari con i fegatini di pollo...)
Loro stavano là, e non aspettavano altro.

Insomma, una pasta "socievole", che va d'accordo con tutto, e che non delude mai.
- Allora ci tuffiamo dentro la zucca che abbiamo preso, no?
- Non aspettavo altro.
Dopo la virulenza di qualche tempo fa la febbre arancione mi ha ripreso con una subdola ricaduta, e adesso mi ritrovo un altro chilo di polpa spugnosa che m'aspetta e mi guarda come a dire: "Embe'? Che stiamo aspettando? Prendimi, frullami, lessami e magnami!"
- Sembra un film horror, detto così.
- Quando le racconti tu mica scherzi, eh?
- Presto, presto, che ho fame!
- E quando mai...

Per due (ovviamente):
80 g    pancetta dolce a dadini
100 g  polpa di zucca tritata
1/2      cipolla rossa
una punta di noce moscata e una di peperoncino in polvere
acqua q.b.
pecorino grattugiato q.b.
Ah, e se proprio ce scappa, aggiungere anche 100 g  di  ricotta romana.

Far soffriggere la cipolla, tagliata a fettine sottilissime.
- Mi devo ripetere?
- A fuoco basso basso basso... (Con gli occhi rivolti al cielo)
- Bravo. Sennó?...
- Diventano amare... (Sempre con gli occhi rivolti al cielo)
- Bene. Andiamo avanti.
Aggiungere la pancetta e farla rosolare, quindi unire la polpa di zucca.
Fa cuocere per una decina di minuti, aggiungendo poca acqua, qualora si asciugasse troppo.
Unire a metà cottura le spezie.
In una terrina lavorare a crema la ricotta e unirvi la zucca.
Mescolare bene e versarvi la pasta.
Tenere sempre da parte un po' d'acqua di cottura: potrebbe servire da unire al condimento qualora questo s'asciugasse troppo.
La pasta scolata, infatti, tende ad assorbire acqua, e se la si lascia in un sugo troppo asciutto, tende a diventare, inevitabilmente, gnucca.
Spolverare con del pecorino grattugiato.
Et voilà.





Detto romano del giorno
Ner fa all'amore un goccio de segreto, quanto è gustoso nun potete crede.


Oggi ascoltiamo
Vangelis - Blade Runner - Love Theme

http://www.youtube.com/watch?v=C9KAqhbIZ7o

martedì 5 febbraio 2013

Suppa Gadduresa

... "Chi sà, magari lu nanu Fumiddu ha sfruttatu li cuccarummeddi di la cunca soia chi, cun li vapori fiacosi, lu fàci muì lestru ill'ària comu unu hoovercraft. Figuremoci … Di seguru è chi si li fiàchi sò li mattessi di li chi pienàni la tana di lu nanu, podemu immagghjnà cali siani l'effetti…Magari ha rasgioni li chi cunta chi, candu appare unu cuccarummeddu bulèndi, tutti cuminciàni a ridì a scaccaddati o a sunnià cosi strani: li scoiàttuli cascani ridèndi da l'alburi e abbracciani alligramenti li mazzoni, divintati stranamenti masedi, li fòlmiculi sunniani d'èsse cilagri e li cilagri di paltizipà a X-factor….Chi sà si è veru…" (1)

- Fine della favola!... Ma che fai, Leppagorre, stai piangendo?
- Io? Uh... Macché!... Come ti salta in mente? Adesso uno di 622 anni si commuove così, per niente?
- Mi pareva... Hai tutto il pelo bagnato.
- Sarà la rugiada...
- Ma se siamo chiusi in casa da ieri!... Vabbè, va, lasciamo stare. Insomma, t'è piaciuta?
- Bella!... Dài, di nuovo! Raccontamela ancora!
- Leppagò, e che diamine!  Non possiamo mica stare tutta la notte a raccontare favole! E in gallurese, per giunta. Manco a dire che, una volta sentita una storia t'addormenti, come fanno i bambini da che mondo e mondo.
- E su! Dài!... Un'altra volta soltanto!
- Poi però la smetti di ammorbarmi l'anima e mi lasci cucinare, vero?
- Promesso!
- Eh, hai capito! L'ho messo in banca! (2)
- Che c'è, non ti fidi più di me?
- Perché, è già successo che mi sia fidato di te? Sono stato davvero così babbeo?
- Non raccolgo la provocazione, anzi, per dimostrarti quanto sono gentile e disponibile, dopo il racconto ti aiuterò anche a cucinare, va bene?
- E allora siamo a posto!
- Su, su, che il tempo vola!
- Però stai zitto, eh? Niente cori o versi di animali. La conosco già bene, questa storia. Quindi muto o smetto di leggere, intesi?
Allora... "Lu contu di lu pulcravu ruiu e di lu nanu chena aricchj. V'era una volta, umbè d'anni fa, illa luntana isula di Muflonia, e anzi ancora v'è, una cumunitai di animali manni chi vagàani sarvàtici pa' li buschi magnendi bachi, frutti, irradìci e tuttu cantu riiscini a agattà illi tarreni grazie a li zampi e a li sanni affilati."...

E dopo la terza volta che il cinghiale rosso si perdeva nella caverna e lo gnomo Fumino perdeva le orecchie, Leppagorre, a dispetto della sua veneranda età, prende e si addormenta.
Shhh! Per favore, non facciamo rumore, altrimenti si sveglia e rischio davvero di ritrovarmelo in cucina che tenta, a suo dire, di aiutarmi!
Come ronfa...
Chissà se anche Filemone russava, mentre Jung gli raccontava le sue filippiche sugli archetipi.
Approfittiamo di questo raro momento di pace e diamo un senso, se non alla giornata, almeno a quel pezzo di pane raffermo che grida vendetta al cielo.
Prepariamoci, visto che siamo in tema, una bella Suppa Gadduresa (4).
E passa la paura!


Occorrono, per due persone:
300 g       pane raffermo
100 g ca  formaggio vaccino fresco tipo caciocavallo
100 g ca  pecorino sardo grattugiato
brodo di carne qb.
Questo è davvero un piatto per tutti, poveri e ricchi. I primi trovavano il modo di utilizzare fino all'ultimo il pane rimasto, gli altri l'arricchivano usando per il brodo le carni più costose e saporite.
In ogni caso è il primo piatto tipico della Gallura e una volta, quando i ristoranti erano un lusso per pochi e i banchetti di matrimonio si celebravano in casa, questa era considerata la prima portata del pranzo nuziale.

So già che sono passibile di rampogne d'ogni tipo, visto che questa ricetta, come qualunque altra della cucina italiana, è dialettizzata e quindi, dalla versione "ufficiale" a quella d'ogni singolo paese, fino ad arrivare al lessico familiare del quaderno di casa, le versioni che possiamo trovare (o estorcere di persona con fatica immane) sono un'infinità.
Iniziamo dal pane.
C'è chi usa solo la spianata sarda, chi il coccoi, chi il carasau, chi i panini raffermi.
I tempiesi usano, a loro dire, la corona (corona di tricu ruiu), un pane caratteristico di semola di garno duro, ma non so quanti siano in grado di distinguerla da pani simili sul banco del panettiere.
Io ho usato il mio pane fatto in casa che era invecchiato un po' troppo, dato che qui nun se butta mai gnente...
Il brodo, poi.
La versione più verace della ricetta prevede brodo di capretto o, almeno, di pecora.
Poi c'è chi utilizza, quando non è periodo di carne ovina, un misto di manzo, maiale e gallina.
Io, chiedo venia, avevo del brodo di manzo fatto il giono prima con tanto amore, e mi sono accontentato così.
L'importante è che sia un brodo vero, con tutti gli odori del caso: sedano, carota, cipolla, del pomodoro (secco o concentrato), prezzemolo e alloro.
E il formaggio?
Se ne usano due tipi: uno fresco, tagliato a fette sottili, e uno stagionato da grattugiare (indovinate quale? Bravi, del buon pecorino di Saldigna).
Non credo proprio che qui manchi la scelta, che ve lo dico a fà?
Per quello fresco si consiglia lu casizolu, detto anche casgiu spiattatu o peretta (bona quella di Perfugas...), un formaggio vaccino simile al provolone dolce o al caciocavallo.
Ma, in mancanza d'altro, qualsiasi caciocavallo continentale può timidamente sopperire alla bisogna.
Alcuni usano anche la pischedda, un formaggio vaccino fresco non salato, lasciato inacidire a temperatura ambiente protetto da un panno umido per impedire la formazione della crosta o posto a fermentare nel suo stesso siero. Questo, a contatto con il calore, si scioglie in crema, dando al piatto un sapore ineguagliabile.
Devo dire che ho sgarrato assai in questo passaggio perché ho utilizzato del buon pecorino fresco che sentiva tanto la mancanza del mio pane...
Che devo fare, a me piacciono i sapori forti...
Siccome poi mi piaceva avere una suppa bella alta, ho utilizzato uno stampo da plum cake, perfetto per la dose prevista.
Ho passato un velo di strutto sul fondo e vi ho adagiato le prime fette di pane, tagliato dello spessore di un centimetro, quindi il formaggio fresco e una spolverata di quello grattugiato.
Ho ripetuto l'operazione e sono passato a versare, pian piano, un mestolo alla volta, il brodo necessario ad imbibire completamente i due strati di pane.
In superficie ho spolverato un velo di pecorino grattugiato, e via, in forno caldo per almeno 40 minuti.
O, almeno, a doratura della superficie.



Ecco, devo dire che non è venuta né troppo asciutta né troppo brodosa.
Una giusta via di mezzo, morbida e saporita.


Tanto che...
Eccolo, con lo stampo vuoto nella zampa e la faccia da assassino...
- Ma come, te la sei sbafata tutta tu, da solo?
- Eh, caro mio, tu dormivi...
- La prossima volta non mi freghi con i tuoi cinghiali rossi, gli gnomi senza orecchie e quelli barabattuli (5). La prossima volta sai che faccio? Mi prendo un bricco di caffè! Ingordo che non sei altro!
- Io, ingordo? Ma da che pulpito la predica... Mh, senti un po', ti andrebbe di sentire un'altra storia?
- Basta! Sono stanco di gnomi e di malefizi!
- Be', peccato... Ne avevo una con personaggi nuovi. Conosci mica le jane-caciarone? (6)
- No! Chi sono?
- Eh, ma sei così stanco di queste storie che non so se ti andrà di ascoltare anche la loro.
- Eccomi qua, su! Inizia, che sono curioso più di un gatto!
- Appunto. Allora... C'era una volta...

Detto gallurese del giorno
Vali più unu fendi che centu cumandendi.

Vale più uno che fa che cento che comandano.

Oggi ascoltiamo
Cordas et Cannas - També

http://www.youtube.com/watch?v=qphgD6QjzJ8

NOTE
1) "Chissà, magari lo gnomo Fumino ha sfruttato i funghi della sua caverna che, con i loro vapori puzzolenti, la fanno muovere veloce nell'aria come un hoovercraft. Chissà… Certo è che se i miasmi sono gli stessi che avvolgono l'antro dello gnomo, possiamo allora immaginarne gli effetti… Magari ha ragione dunque chi racconta che, all'apparire di un fungo volante, tutti iniziano a ridere o a sognare cose strane: gli scoiattoli cadono ridendo dagli alberi e abbracciano allegramente le volpi, divenute stranamente mansuete, le formiche sognano d'essere cicale e le cicale di partecipare a X-factor….   Chissà se è vero…"
Da "La storia del cinghiale rosso e dello gnomo senza orecchie". Versione in lingua gallurese.
2) Nel senso: Di questa cosa ne siamo sicuri.
3) "La storia del cinghiale rosso e dello gnomo senza orecchie. C'era una volta, nella lontana isola di Muflonia, e anzi c'è tutt'ora, una colonia di grossi animali che vagano selvatici per i boschi cibandosi di bacche, frutti, radici e tutto quanto riescono a scovare nel terreno grazie alle loro zampe e alle zanne accuminate." (Op. cit.)
4) Non metto volutamente la lettera h dopo la doppia d, visto che in gallurese, come anche in calabrese e in siciliano, questo digramma indica sempre il suono della d cacuminale. Quello delle parole bedda e luddo, in siciliano.
5) La barabattula è, in uno dei tanti dialetti dell'isola, la farfalla. Cosa mai potrà essere uno gnomo barabattulo?...
6) Le janas sono le fate della mitologia sarda. Esseri spesso benevoli ma, a volte, anche dispettosi o pericolosi. Si dice che chi sentisse il loro richiamo in una notte di luna fosse destinato a trovare un immenso tesoro. Ma cosa mai potevano essere le janas-caciarone?...

domenica 3 febbraio 2013

Pane pugliese tipo Altamura

Non c'è niente da fare: il pane fatto con la farina di grano duro ha un profumo e un sapore ineguagliabile.
Ci ho messo un po' a capire il mondo del grano duro, visto che sullo scaffale delle farine sono presenti diverse diciture non sempre esplicate e, per la mia ignoranza abissale, spesso poco chiare.
Dopo qualche ricerca ho quindi  capito che:

Dalla macinazione del frumento si ottengono:

Farina   
Può dirsi tale (per legge) solo quella di grano tenero.
Le diciture Integrale, 2, 1, 0, 00 indicano il grado di raffinazione della farina dato dalla macinazione (dalla più grossolana alla più fina).
L'integrale conterrà anche la crusca (ovvero la coccia del chicco); la 2 indica una macinatura un po' più fine dell'intero chicco senza la crusca; la 1 avrà una macinatura ancora più sottile del chicco interno; la 0 e la 00 (detta anche fior di farina) sono ottenute dalla macinazione del solo cuore del chicco, ricca di glutine e zuccheri.
C'è poi la farina Manitoba, ottenuta dalla macinazione di alcune varietà di frumenti teneri originari dell'omonima regione canadese. È detta anche farina di forza, visto che che contiene una grande percentuale di proteine (fino al 18%) il che la rende adatta alle lavorazioni in cui l'impasto debba lievitare più volte, per molte ore.

Semole e semolati
Si ricavano dal grano duro e si distinguono da quella di grano tenero sia per la granulometria più accentuata (è quindi più sabbiosa) che per l'alto contenuto proteico (superiore a quello della farina integrale).
Sono adatte sia per il pane che per la pasta e, a seconda del grado di macinazione, si ha:
Semola (o anche, erroneamente, Semolino, che è invece la polentina ottenuta dalla semola)
Semolato
Semola rimacinata o rimacinato, che andrebbe invece chiamata (per la legge 187/2001) Farina di grano duro.
Il brutto è che sugli scaffali viene chiamata semola rimachinata quello che invece è il grado intermedio di macinazione che, invece, è il semolato.
Pover'ammé...
Se si va in Sardegna, poi, il caos aumenta, perche là si distingue in:
- semola grossa (simbula grussa): dal chicco macinato con setacciamenti progressivi. Per pasta (sa fregula, per esempio) e semolino.
- semola fine (simbula fini): è più raffinata. Per il pane bianco, coccoi e modditzosu.
- farina di grano duro (scetti, tzichi o fiore sardo): è la più fine, equivalente della 00 di grano tenero. Utilizzata per il pane civraxiu e per il pan'e saba.
- rimacinato: semola resa ancora più fine. Utilizzata per pane carasu e spianata.
- tritello (civraxiu): è l'equivalente alla farina integrale, ed è utilizzata fare la pasta tallarinus e per preparare il civraxiu integrale.

Ecco, quando il mal di testa sarà passato, passiamo pure alla ricetta, presa dritta dritta dal libro delle Sorelle Simili, "Pane e roba dolce".

Preparazione dell biga
120 g    farina di semola di grano duro (ma va bene anche la semola rimacinata, ossia il semolato)
80 g    acqua
2 g    lievito di birra
Amalgamare tutti gli ingredienti e lasciar riposare per 18-24 ore.
Passata la prima lievitazione preparare l'impasto.

Impasto
1 kg     farina di semola di grano duro
600 g     acqua
20 g    lievito di birra
20 g    sale
In una ciotola sciogliere la biga con metà dell'acqua, un terzo della farina e il sale.
Lavorare battendo l'impasto con la mano a paletta.
Unre quindi, alternandole, il resto della farina e dell'acqua, continuando a battere.
Quando l'impasto sarà ben sodo, passarlo sulla spianatoia e lavorarlo, battendolo, fino ad ottenere una pasta molto elastica e non appiccicosa.
Mettere quindi l'impasto nella ciotola unta e farlo riposare per un'ora e 30.

Rovesciarlo poi sul piano di lacoro, lavorarlo brevemente e dividerlo in due metà.
Prima due piloni, poi due palle, le preforme.
Coprire e far riposare un'altra mezz'ora.
Arrotolare le palle senza lavorarle troppo, ma solo per eliminare una parte del gas e dare così più forza all'impasto.
Disporle sulle teglie, coprirle e lasciar lievitare per altri 40-50 min, fino al raddoppio.
Con una lametta incidere la superfice dell'impasto formando quattro tagli lungo il bordo, formando un quadrato.




Cuocere a 210° per 20 minuti poi abbassare a 190° per altri 20-30 minuti.
A metà cottura togliete il pane dalla teglia e passarlo sulla teglia a rete, per cuocerlo bene anche sotto.
La semola dona alla crosta di questo pane una bella colorazione scura e quindi, come rassicurano le Simili: "...non vi impressionate se diventa un poco scuro, ma è la sua caratteristica".

Aforisma del giorno
C'è una sola cosa al mondo che non inganna mai: le apparenze.
Ugo Bernasconi


Oggi ascoltiamo
Radiodervish - La falena e la candela 
http://www.youtube.com/watch?v=1u2zNHGqFYo



sabato 2 febbraio 2013

Ensaimada, ovvero... le Insugnate

La Ensaimada è un dolce tipico spagnolo, anzi catalano, e anzi (di preciso) dell'isola di Maiorca.
Non sia mai che se ne abbiano a male...
Vero è che oramai è di dominio mondiale, tanto che a partire dal 1996 è stata riconosciuta come prodotto Indicazione geografica protetta con la dicitura "Ensaïmada de Mallorca" e viene esportato, ben chiuso in confezioni da pasticceria dalle etichette coloratissime, per tutto il globo.
È una gioia per l'anima passeggiare per le vie di Barcellona, magari  dopo aver visitato per l'ennesima volta la meravigliosa Casa Battló di Gaudì (e non essere riusciti a trovarci dentro, nemmeno volendolo, nemmeno stavolta, un'angolo retto...) strafogandosi con questa dolce e soffice brioche a forma di chiocciola.
E soffocarsi senza rimedio con lo zucchero al velo, anche...

 
A guardarla sembra una banale, mallopposa brioche ma, come tutte le cose all'apparenza semplici, nasconde tra le sue spirali una lavorazione lunga e abbastanza laboriosa, anche se non impossibile.
Basta armarsi, come per ogni cosa, di santa, santissima, pazienza.
Non si sa a chi è venuta l'idea di farla, si dice sia probabile che derivi da un dolce mediorentale, forse ebraico.
La cosa certa è che il suo nome, en català, è ensaïmada, e nasconde tra le sue pieghe (anche lui, come il dolce stesso) la parola saïm, cioè strutto.
Fossimo stati in altri tempi di forzate traduzioni dei termini stranieri (tempi rimpianti con pungente nostalgia anche da persone che oggi si presentano come innovatori...) le avremmo dovute chiamare, che so, Insugnate.
Mica male, no?
Sempre meglio di arzente per whiskey, o di barra per bar...
Come si dice: diocenescampieliberi!

Ma torniamo alle nostre Ensaimada, che aspettano d'esser fatte (e magnate!)
Avendo confrontato, come al mio solito, almeno una decina di variazioni sul tema, e non essendo Paganini che se le poteva suonare tutte, ho estrapolato una versione che, a mio modo di vedere è accettabile ed interessante.
Occorrono:
750 g    farina di forza (Manitoba)
180 g    zucchero
300 ml  latte
60-80 g strutto
4            uova
25 g       lievito di birra
2 cucchiai d'olio evo
1 pizzico di sale
Anche per la Ensaimada vale la solita garziosa trafila dei lievitati con i vari passaggi di lavorazione e lievitazione, con in più qualche avvertenza sulla lavorazione.
Lì per lì procedimento pare anche avvicinarsi a quello della Torta di rose (prossimamente su questi schermi) ma solo in apparenza, perché ci sono accorgimenti diversi e, a mio avviso, operazioni un po' più complicate.
Ma qui mica ci si arrende, eh? Mica si demorde! E non ci si fa spaventare neppure dalle vette più alte!...
Come dice la folosofa:


Appunto...
Dividiamo quindi il lavoro in fasi, come ogni lievitato che si rispetti:

Fase 1) - Lievitino
100 g  farina manitoba
25 g    lievito di birra
20 g    zucchero
100 ml latte
Si impastano velocemente gli ingredienti e si lasciano lievitare al coperto per circa 30', o almeno fino al raddoppio.

Fase 2) - Impasto
650 g    farina manitoba
160 g    zucchero
200 ml  latte tiepido
2 cucchiai d'olio evo
1 pizzico di sale
In una ciotola si uniscono gli ingredienti al lievitino, lavorando con forza fin quando l'impasto si stacchi dalle pareti del recipiente.
Rovesciare quindi sulla spianatoia e lavorare bene, stirando e battendo, fino ad ottenere un impasto elastico ed omogeneo.
Il libro che ho consultato, en lengua española ("El libro de la cocina española"di Lujan y Perucho, 1970) dice che bisogna:
"Amasar la pasta, batiendola, golpeándola, levantándola y (...) como quien lava la ropa, estirándola y raspándola muy deprisa."
Detto così, con la carnalità della lingua spagnola, non sembra quell'operazione estenuante e da tunnel carpale a cui siamo abituati noi poveri tapini che impastiamo con le nostre povere manine sante.
Ma tant'è... va lavorata bene, a lungo, fino ad incordatura dell'impasto (ricordate?) cioè fino a quando si sarà formata una maglia di glutine che permetterà di stirare la pasta in un velo semitrasparente.
Mettere nella ciotola unta d'olio e lasciar lievitare, coperto e al riparo dalle correnti d'aria, per un almeno paio d'ore, ovvero fino al raddoppio del volume.

Fase 3) - Lavorazione
Propedeutico a questa fase è un bel giro in Rete per vedere come ottenere quello che cerchiamo.
Uno dei tanti è questo simpatico signore, Fernando José Prats Pérez, de la pastelería Frama (en Palma de Mallorca).
Dopodiché si dirà, tra sé e sé: non ce la farò mai...
Proviamoci, caparbi e capoccioni, comunque.
L'impasto si divide in otto pezzi uguali, qualora si vogliano fare delle Ensaimada di piccole dimensioni (circa 15 cm di diametro) oppure in quattro pezzi, o meno, se si vogliono ottenere delle MegaEnsaimada.
Si passa quindi ognuno dei pezzi sulla spianatoia, e lo si inizia a stendere.


Si dovrà ottenere uno spessore mooolto sottile, e sarà la parte più laboriosa perché si dovrà ottenere un velo semitrasparente di pasta, su cui distribuire con le dita lo strutto ammorbidito a temperatura ambiente.


Sì, lo so bene, avendo confrontato più di una decina di ricette diverse: c'è anche chi usa del burro fuso in questa fase della lavorazione ma, credetemi, lo strutto è un'altra cosa.
Quando lo si stenderà sulla pasta questa l'accoglierà come fa la terra riarsa con la pioggia e tenderà anche ad assottigliarsi di più, se possibile.
E qui occore stare attenti a non rompere il velo sottile che s'è creato.
Quindi, a ogni buon conto, ungere il piano di lavoro e le mani durante il lavoro di fino.
Si passa quindi ad arrotolare su se stesso il lenzuolino bisunto, partendo dal lato superiore, ottenendo un serpentello che si ungerà leggermente di strutto e al quale si darà la forma spiraleggiante.



Mantenere i primi due giri di pasta uniti e i restanti distanziati di almeno un dito, per dar spazio alla chiocciola durante la sua ulteriore lievitazione.
Disporre su una teglia rivestita di carta forno e lasciar livitare per un altro paio d'ore.
I tempi, lo sapete già, sono molto indicativi, e dipendono dalla temperatura dell'ambiente di lavoro.
Certo, durante la fase di arrotolamento del lenzuolino in salamone nulla ci impedisce di aggiugere, furtivi come Arsenii Lupin, la farcitura che più si preferisce.
In Spagna amano aggiungere una farcia di cabellos de ángel (una sorta di confettura di zucca siamese) ma noi, poveri miseri e tapini, che queste dellizie non le abbiamo in dispensa, come facciamo?
Un cordolo di marmellata d'albicocche e un rivolo di crema al cioccolato ci consoleranno dell'assenza della zucca siamese...

 
Fase 4) - Cottura
Con uno spruzzino fare un leggero aerosol d'acqua alle nostre Insugnate, e infornarle in forno caldo (i classici 180°) per circa 12 minuti, dopo i quali decidere se proseguire per un altro paio di minuti fino a doratura completa.



Appena sfornate disporle su di una gratella (altrimenti si inumidiscono) e spolverarle di zucchero a velo.
Ma non si offendono neppure magnate così, nude nude:


Ovvio che se avete della nata (la panna montata, ragà...) che fate, aspettate che scenda in picchiata il meteorite ed estingua la nostra insulsa specie? No, lesti come il lampo tagliate, non la corda ma la nostra sofficiona e la riempite di candida panna...


È da questi piccoli, impercettibili segnali, che ho il sentore, vago come un ricordo lontano, che...
NON DIMAGRIRO' MAI!
Ah, questa è un'immagine tratta dal libro citato sopra:



Un adorabile e tenera burinozza (1) dall'orrendo vestitino e l'enorme, fragrante ensaimada appena sfornata, pronta per essere servita.
Un pezzo di storia...

Detto catalano del giorno
No hi ha alegria amb la panxa buida

Non v'è allegria con la pancia vuota.

Oggi ascoltiamo
Lluis Llach - L'estaca

http://www.youtube.com/watch?v=ODC-yLJtCpo

1) Burino   Abitante dei paesi fuori Roma, che portavano in città il burro (da cui il nome) ed altri prodotti agroalimentari. Persone semplici, alla buona, che agli occhi dei cittadini risultavano comicamente e irrimediabilmente cafoni.