giovedì 31 gennaio 2013

Torta Délice

Lo so, non dovrei...
Ma, d'altronde, non fumo, non bevo e non gioco d'azzardo.
Le cosiddette "droghe ricreative" mi danno la nausea (sì, anche gli smacchiatori e le colle...)
E tutto 'sto sesso, poi?... non ne parliamo!
Cosa resta?
In questi giorni grami in cui tutto il mondo sembra impazzire sempre di più.
In cui tanti non capiscono più dove sta la destra e dove la sinistra, e non solo perché hanno perso la bussola.
In una società dove la prepotenza, la malafede e la faccia di bronzo (per non dire altro) hanno inevitabilmente la loro bella precedenza su tutto.
Cosa ci resta?
Ma un bel dolcetto, no?
Un "genere di conforto", come si dice in altri contesti.
Un po' come se, perduti in un bosco innevato e sferzato da una buriana polare, venissimo salvati da un enorme san bernardo con al collo, invece della solita botticella piena di grappa puzzolente da due lire, una bella sac-à-poche piena di deliziosa crema al mascarpone...
Che sogno...


Allora riprendiamo serenamente contatto con i glucidi e i lipidi, nostri inseparabili amici-nemici.
Facciamolo ancora, e ancora.
Basta poi regolarsi sulla misura, no?
Allora, una torta, e al cacao, per giunta.
Come base la mia amata Quatto quarti al cioccolato, la stessa della Torta Porella.
Dosi, ovvio, microinfinitesimali, sennó esco fuori con l'accuso, come si dice nel gergo dei giocatori di carte.
Per la farcia ho voluto provare una crema bianca, soffice e pannosa, quella (tanto per capirci) che viene usata per le merendine inustriali e che, secondo me, deve possedere un ingrediente segreto che crea dipendenza nei consumatori.
Una crema stupefacente, insomma.
Altro che droghe ricreative...
Manco a dirlo, in rete le versioni abbondano ed io, per amor di completezza, preferisco riportarle, se non tutte, almeno quelle che mi paiono valide.
Non si sa mai..

Versione alla crema di latte e panna
La più dolce e consistente.
Di solito io uso questa qui, ma spesso se ne vedono con dosi di zucchero e farina doppie.
Troppo dolci e troppo farinose, credo.
Riepilogando:
100 ml latte
25 g     zucchero
10 g     farina
Far bollire il latte, unirlo alla farina e lo zucchero, mascolando bene.
Portarlo a bollore e farlo addensare a fuoco basso per due minuti.
Si può aggiungere anche un cucchiaio di miele (diminuendo a metà lo zucchero) ottenendo una crema ben più saporita.
Va da sé che il latte si può aromatizzare con tutto ciò che viene in mente: cioccolato, caffè solubile, scorza d'agrumi grattugiata e/o spezie lasciate in infusione (arancia e cardamomo è la prossima...), oppure un po' di liquore.
Quel che non deve mancare, alla fine, quando la crema si sarà ben freddata, è la panna montata.
Per la dose da 100 ml di latte vanno bene 125 ml di panna.
Attenzione: in rete gira voce che alla crema di latte vada aggiunta la panna NON montata.
Ecco, questa è, come diciamo a Roma, una sòla (ossia una fregatura), visto che la panna liquida e non montata non fa che diluire la crema, rendendola della stessa consistenza della crema inglese.
Anzi, per renderla ben consistente andrebbe aggiunta anche della gelatina.
Nelle dosi di un foglio di colla di pesce per ogni 100 ml di crema.

Versione alla panna montata e miele
La più delicata e più vicina al modello délice.
Anche qui abbondano le dosi, ma credo che la più misurata sia questa:
250 ml panna
1 cucchiaio di buon miele
2 fogli di colla di pesce
Ecco, la sòla si nasconde anche qui, come in tutte le cose...
C'è che dice e giura sulla testa dei suoi figli che basta la panna montata assieme al miele.
Ma di questi giuramenti siamo ormai avezzi e smaliziati quindi ci chiediamo: come fa a mantenersi sufficientemente soda la sola panna montata?
Non la si deve montare troppo ferma, al limite del burro, perché la vogliamo soffice e delicata.
Quindi, giocoforza, ammolliamo la colla di pesce in acqua fredda, la sciogliamo poi in due cucchiai di panna scaldata e, fatto freddare il tutto, lo si unisce alla panna in fase di montaggio.
Il miele si può aggiungere a metà dell'opera, almeno non rischia di far smontare tutto l'ambaradam.

"Oh, che sbadata! - Direbbe la casalinga maldestra nascosta in ognuno di noi - Ma per una tortina così piccina questa farcitura è tanta. Non sarà mica troppa?..."
La panna, belli miei, non è mai troppa, specie se così ben condita.
Usiamo pure un anello per dolci, o un foglio di acetato abbastanza alto, come fu per la Torta Tapina, tanto per capirci.
Al primo strato di torta, la base, faremo seguire un dito di farcia alla panna, poi un secondo strato di bisquit e, poscia, altro dito di farcia.
E, in copp'a tutt'e ccose, l'ultimo strato di bisquit.
Far rassodare in frigo per almeno almeno due ore, se ce la fate, quindi glassare come più si preferisce.


Lo devo dire che, visto che ci stavo, ho preso la confezione da 500 ml di panna e l'ho usata anche per una ganache al cioccolato?...
Tanto, chilo più chilo meno...

Citazione del giorno 
Tutti abbiamo udito la donnetta che dice: "oh, è terribile quel che fanno questi giovani a se stessi, secondo me la droga è una cosa tremenda." poi tu la guardi, la donna che parla in questo modo: è senza occhi, senza denti, senza cervello, senz'anima, senza culo, né bocca, né calore umano, né spirito, niente, solo un bastone, e ti chiedi come avran fatto a ridurla in quello stato i tè con i pasticcini e la chiesa.
Charles Bukowski, Storie di ordinaria follia, 1972 

Oggi ascoltiamo

Gloria Jones - Tainted Love 

mercoledì 30 gennaio 2013

Involt(acch)ini

- Ma come t'è venuto in mente, dico io?
- Ma io...
Glugluglugliu!
- Certe volte pare proprio che tu sia sceso dalla luna l'altro ieri! E invece hai 600 anni, a quanto dici!
- 622, in realtà. Compio gli anni il 2 di maggio, alle ore...
Glugluglugliu!
- Non mi frega a che ora sei nato! Ma dimmi tu se devi cacciarti nei guai e poi, alla fine, devo essere sempre io a prenderti per i capelli!...
- Ma io non ho capelli... E neanche tu, a dire il vero...
Glugluglugliu!
- Leppagorre, dimmi una cosa: ma tu ci fai o ci sei?
- Tutt'è due, così non sbaglio...
Glugluglugliu!
- Allora fai una bella cosa, adesso prendi questo... coso, e lo riporti dove l'hai preso, va bene?
- Ma guarda che carino... S'è già affezionato. Guarda che zampette squamose e che verruche cadenti rosse rosse che ha!...
Glugluglugliu, glugluglugliu!
- Senti, quando t'ho detto che ci serviva del tacchino non intendevo... questo! Non così tanto e, soprattutto, non così... vivo!
- Tesoro dello zio, hai sentito che dice Muccardo cattivo? Non ti vuole più... Cattivo! Dopo tutto quello che ho fatto per prenderlo, nasconderlo sotto il grembiule e portarlo a casa, sfidando la sicurezza e i vigilantes...
Glugluglugliu!
- Sono sicuro che ti sei anche fatto passare per una donna incinta! Ti sei messo in testa un fazzoletto e hai pure fatto l'accento carpatico per confondere le guardie! Che bestia, sei!
- Ah ah, è stato bello vederli mentre mi tenevano la porta! Uno ha pure detto: "Signora, lei deve aver fame. Mangi qualcosa, o il suo stomaco continuerà a gorgogliare come un lavandino intasato." Ed io a dire:"Grassie, grassie, muolto centile..." Ah, ah, ah!
Glugluglugliu!
- SENTI, te lo dico per l'ultima volta: riportalo indietro o chiamo Milingo e mi faccio esorcizzare, tantèveriddio!
- Ma come, Milingo? Se non credi a niente che lo chiami a fare?... Boh!
Glugluglugliu!
- Allora chiamo una fattucchiera, un fisico nucleare, una ricamatrice al tombolo, un ciabattino, insomma chiunque mi liberi di te, una volta per tutte!
- Guarda, se vuoi che me ne vada basta dirlo, eh? Su, vieni, Dindino bello, su, che zio Muccardo non ci vuole più bene. Lo vedi che vuole buttarci fuori di casa al freddo e al gelo? Poveri noi, ridotti a chiedere l'elemosina sotto la metropolitana! Buuu... Buuu... Buuu...
Glugluglugliu... Glugluglugliu... Glugluglugliu!
- Esagerato e camp, come al solito. E anche falso, come una banconota da sette euro! Dài, riporta l'animale al posto suo, che qui non si può tenere, e torna in tempo per la cena, che ci vuole poco a preparare gli Involt(acch)ini.
- E me lo devo rimettere sotto il grembiule, come all'andata?...
Glugluglugliu!
- Be', no, magari fai una delle tue stregonerie e lo lasci dove l'hai preso. E magari senza tocchi di teatro, com'è il tuo solito.
- Povero tesorino!... Guardalo, com'è triste... Già ti vuole bene...
- Fila!
Glugluglugliu!

Per 2 persone
4 fette petto di tacchino        300-400 g ca
8 fette pancetta arrotolata     60 g ca
4 fette scamorza affumicata  100 g ca
4 cucchiai di stracchino         60 g ca
4 pizzichi di pepe nero
Ovviamente al posto del tacchino si può usare anche il pollo, senza colpo ferire.
Come pure si può sostituire la pancetta con dello speck tagliato fine o, se si preferisce la versione delicata, del prosciutto cotto (o della spalla, che costa pure meno...).
Se poi si preferisce un formaggio meno invadente si può utilizzare del provolone dolce, dell'emmenthal o della scamorza non affumicata.
Se invece si amano i sapori forti si può sostituire (anche in parte) lo stracchino con del gorgonzola dolce.

E anche aggiungere una fettina di zucchina, tagliata per la sua lunghezza e grigliata in forno o su una padella antiaderente.
Insomma, anche questa ricetta è suscettibile.
Di infinite variazioni, ovvio.


Ricetta di una semplicità disarmante, direi.
Si battono con un pestacarne le fette di tacchino per renderle più sottili e morbide, quindi si passa alla farcitura: fette di pancetta arrotolata, indi scamorza, poscia lo stracchino e, dulcis (?) in fundo, una grattatina di pepe.
Si chiudono le fette ad involtino e le si fissano con degli stuzzicadenti.
In una padella si fanno rosolare i nostri Involt(acchi)ni, per pochi minuti ogni lato, sfumandoli con del vino bianco, se si preferisce.
Quindi si copre con un coperchio e si fa cuocere per una decina di minuti circa, a fuoco basso.
A questo punto il latticino si sarà trasformato in crema e avrà formato una deliziosa salsina.
Qualora questa dovesse asciugarsi troppo, aggiungere senza indugio alcuno un paio di cucchiai d'acqua.
Vanno comunque sorvegliati spesso.
Per contorno direi che basta un letto di soncino (anche detta valerianella, dolcetta, songino, gallinella o lattughella) au naturel, senza oli aggiunti, dato che il condimento gli verrà dato dalla stessa salsa al formaggio degli involtini.
Una delizia.

Detto romano del giorno
A la vigna de li minchioni ogni uccello ce fa er nido.


Oggi ascoltiamo
Pedro Infante. Cucurrucucú, paloma

http://www.youtube.com/watch?v=VlE1lCcysXQ

lunedì 28 gennaio 2013

Babà

No, non questo:

  ... ma questo:


Sapete già la storia del Babà? 
Wikipedia dice che...
Il babà è una derivazione di un dolce a lievitazione naturale, originario della Polonia, che si chiama babka ponczowa, "dolce della nonna" (da babka, "vecchia"), e ha mantenuto la forma tonda con la crema in mezzo. Utilizzato dai cuochi francesi, il "baba" ha assunto l'accento sulla sillaba finale, mentre i napoletani gli hanno raddoppiato la consonante.
L'inventore del babà fu il re Stanislao Leszczyn'ski che, essendo suocero di Luigi XV, si dilettava ad inventare sempre nuovi piatti. Il sovrano, edentulo, pare non potesse mangiare il kugelhupf, un dolce tipico francese dell'Alsazia che egli trovava troppo asciutto. Fu allora bagnato di Tokaj e di sciroppo.
La tipica forma a fungo la si deve al celebre pasticciere Nicolas Stohrer, giunto a Parigi con Maria Lesczynska, fidanzata del sovrano francese. Al numero 51 di rue Montorgueil ancora oggi la maison offre prelibatezze dal sapore dolce. Un'altra versione delle origini faceva ricordare al re la gonna a campana (tonde) delle donne anziane che si chiamano babka. Un'altra storia racconta che il re, dal pessimo carattere, scagliasse il dolce contro una credenza, fracassando una bottiglia di rum. Questa andò ad inzuppare il dolce e Stanislao allora lo assaggiò, trovandolo ottimo.
Nel XIX secolo il maestro Brillat-Savarin inventò un liquore che ben si accompagnava alle macedonie di frutta. La pasticceria francese dei "fratelli Julien" ebbe l'idea di chiudere la macedonia in un babà opportunamente spennellato di confettura di albicocche, nacque così il babà "Savarin". 
Le prime fonti partenopee sul dolce risalgono al 1836 quando il cuoco Angeletti scrisse un manuale culinario in cui è descritta la ricetta con uvetta e zafferano, questi ultimi gradienti persi negli anni a causa della “volgarizzazione” delle pasticcerie commerciali che ne hanno sfornati nuovi tipi con crema e amarene o magari servito mignon con gelato semifreddo.

Questa la storia ufficiale, ma molti non sanno che vera storia del Babà è un'altra... 

Si narra che un giorno, tanto tempo fa, la ninfa Partenope si aggirasse per il mondo vendendo pizzelle fritte....
Ma come, una ninfa, un essere meraviglioso, fatato, che si mette a vendere pizzelle?
E pure fritte, per giunta?
Il fatto è che anche le vecchie divinità, come anche gli esseri umani, decadono, e ciò accade quando non si crede più a loro e quando nessuno al mondo ne conserva la memoria.
Molti dèi erano divenuti l'ombra di loro stessi, altri erano semplicemente svaniti nel nulla, inghiottiti dall'Oblio, l'essere che perenne accompagnava gli esseri viventi (e quelli divini) sulla terra.
Certo, era già successo altre volte nella storia che nuovi dèi soppiantassero quelli di un tempo, ma qualcuno ancora aveva memoria di lei ed accendeva in suo onore, ad ogni plenilunio, una lanterna che rimaneva accesa tutta la notte.
Ma questo ovviamente non bastava a mantenere semidivina come un tempo l'esistenza della ninfa.
Così, con la fantasia e l'ingegno che le era peculiare, aveva deciso di mescolarsi agli umani e di girare il mondo, pur di non scomparire, o di impazzire, com'era già successo ad altre ninfe.
E l'unica cosa che potesse assicurarle un sicuro successo era diffondere i sapori della terra dov'era nata. 
Sapeva che il cibo era una delle poche cose che potessero davvero incuriosire gli umani e, decisa a conquistarsi un minimo di considerazione che le spettava, aveva messo su un'attività di "cuciniera ambulante", come lei stessa amava definirsi.
L'accompagnava suo fratello Posillipo, un sileno del golfo, che si curava di trasportare il pentolone e di friggere le pizzelle, mentre la voce squillante di Partenope ne amplificava il meraviglioso profumo tra le genti del posto.
Certo, anche per Posillipo la sorte non era stata benigna: l'essere stato semidimenticato dagli umani l'aveva fatto ingrassare a dismisura e così, con una magliettina bianca troppo stretta per la sua mole, il grembiule a quadretti rossi e la faccia scura perennemente sudata, era solo l'ombra di ciò che era stato un tempo.
Non v'era posto in cui non fossero stati: l'Europa non aveva più segreti per loro, ma anche le più remote e sperdute regioni delle Americhe e della vasta Siberia avevano conosciuto il profumo delle loro pizzelle.
Forse l'unico posto dove non s'erano mai avventurati era l'Antartide, ma non ne sono certo...
Insomma, durante uno delle loro peregrinazioni, giunsero in una terra del nord, popolata prevalentemente da agricoltori che non avevano ancora conosciuto il piacere del loro cibo e lì, come destino vuole, accadde l'irreparabile...
Durante una fiera in cui i due fratelli erano giunti per vendere i loro manicaretti Partenope incontrò gli occhi chiari di un giovane umano, e se ne innamorò.
Ora, dovete sapere che quando una ninfa, o un essere sovrannaturale, s'innamora di un essere umano nascono sempre, inevitabilmente, problemi irreparabili, da che mondo è mondo.
È anche vero che è impossibile anche per gli dèi, come per noi umani, resistere all'amore, ma mentre per noi poveri mortali il massimo che possiamo rischiare è di prendere una cantonata con annesse paia di corna, per gli esseri divini questa è una vera e propria sciagura.
Qualora accadesse che uno di loro si innamori di un umano non vi sono alternative: o rinunciare alla passione o perdere la natura divina.
La faccia cupa e gonfia come un bigné di Posillipo seguiva con apprensione la sorella che, rossa in volto, si aggirava tra gli esseri umani senza saper più spiccicare una parola che fosse una.
Chiuse con un enorme coperchio la bocca fumante del pentolone e s'avvicinò a Partenope, sussurrandole all'orecchio: "Insomma, ma che ti passa pe la capa? Te si' scimunita?"
Lei si voltò a guardarlo con uno sguardo perso e beato che lo fece rabbrividire.
"Vien'a cca - Le disse, infine - Ca chist' è nu papocchie ca lu duvimm' affrontà come si deve!"
E, a dispetto della sua mole enorme, la prese per un braccio e la trascinò velocemente, lontano dagli esseri umani.
"Qui ci vuole un aiuto potente..." Pensava tra sé e sé.
E chi se non la dea dell'amore poteva dar loro una mano?
Venere non si faceva ormai chiamare più così da tempo immemorabile, e per tutti era, oramai, solamente Donna Mimma...
Per sfuggire dalla minaccia dell'oblio s'era inventata un'attività da maga e fattucchiera, e viveva in un minuscolo appartamento al quinto piano senza ascensore e senza riscaldamenti, dove creava pozioni e pronunciava sortilegi per riavvicinare amori perduti o riaccendere fiamme sopite.
Quando vide la faccia persa nel vuoto di Partenope esclamò ad alta voce (e a dispetto della concorrenza) un "O Marò!..." che non prometteva niente di buono.
"Che possiamo fare Donna Mimma? La guagliona s'è innamorata persa, e 'sta cosa mi manda ai matti!"
"Lo vedo da me, Posillipo... Fammi vedere chi è il giovane." E, così dicendo, posò una mano sulla fronte di Partenope e vide chiaramente l'oggetto del suo desiderio.
Un giovane dagli occhi chiari, i capelli scuri e ricci e la bocca rossa sempre pronta al sorriso.
"Stanislao... si chiama così, ed è un essere umano, a dispetto delle sue fattezze. Sembra un essere divino... - Sussurrava pensosa Donna Mimma. - Sai cosa vuol dire questo, vero?" Fece a Partenope, che era ormai persa in una beatitudine senza ritorno.
"Che lo amo, vero?" Disse lei con un sorriso da beota.
"Non solo... - Le rispose la maga con occhi profondi come il cosmo. - Questo vuol dire che o rinunci a lui o alla tua divinità. Lo sai questo, vero?"
Partenope parve un attimo confusa, come se fosse combattuta tra due strade che entrambe la portavano verso l'ignoto o verso il nulla.
"Lo voglio. - Disse, infine. - Non posso rinunciare a lui, per niente al mondo."
Posillipo si batté la mano sulla testa, disperato. Tralascio di riportare quello che esclamò, in vernacolo, preso dalla foga e dalla disperazione.
"C'è solo un modo per salvare il salvabile. - Fece Donna Mimma, serissima in volto. - Per non perdere in un colpo solo la divinità e la tua vita umana dobbiamo fare in modo che anche lui ti ami, e ti ami per sempre."
"E come possiamo fare?" Fece Posillipo, sempre più cupo. Il colore del suo viso si confondeva con quello della parete, e v'assicuro che non era un bello spettacolo.
“Bisogna fargli assumere questo.  - E da uno scaffale prese un flaconcino di liquido giallo – Solo così saremo sicuri di non perdere per sempre Partenope. Se il danno non è già fatto…”
“Lo deve bere?…” Chiese Posillipo con lo sguardo confuso.
“Puoi anche mescolarlo ad un cibo e, una volta assaggiato, saremo sicuri che amerà per sempre questa… sciagurata. Andate ora, che il tempo stringe!”

Posillipo prese il flaconcino, l’aprì e ne annusò il contenuto. Un profumo dolcissimo di limoni, di sole, di brezza del golfo gli invase le narici, la mente, i ricordi.
Lo richiuse subito, con gli occhi lucidi, e disse alla sorella:” Jamm’ c’avimm’ a fà qualcosa di buono, di nuovo e di grande.”
Rimase nel bugigattolo che li ospitava a mescolare ingredienti con la perizia che gli era propria.
La sorella lo vide unire farina, uova, burro, e impastare con amore e con disperazione.
Dopo un po’ lo vide fermo al centro della stanza, ansimante, con una massa morbida tra le mani che pareva traslucida sotto il velo di farina.
“E ora a riposare, e poi in forno” Fece alla sorella che lo guardava stupita.
Dopo che l’impasto crebbe il doppio del suo volume Posillipo lo mise a cuocere e, dopo qualche minuto l’aria era già piena di un profumo paradisiaco.
“È quasi pronto… Sei sicura di tutto questo?" Disse alla sorella.
“No, non sono sicura. Come potrei? So solo che lo amo, e questo mi basta…” Fu l’unica risposta che ebbe da lei.
“Allora sia – Disse lui, prendendo il flaconcino con la pozione, che diluì in uno sciroppo. – Ecco qua.”
E irrorò il dolce con il liquido profumato, imbibendolo completamente.
“Ora esci, vai da lui, e offrigli questo dolce. E buona fortuna…” Le mormorò con gli occhi bassi, senza riuscire a dire altro.
Lei non se lo fece ripetere e, ebbra di gioia, uscì in strada con quella meraviglia tra le mani, in cerca del suo amato.
Lo vide tra la folla e puntò dritto verso di lui, con un sorriso così luminoso che nemmeno il sole poteva eguagliare.
Lui la guardò stupito, abbagliato da tanta grazia e da tanto splendore.
L’aveva già notata dal primo giorno ma, come spesso accade, non aveva avuto nemmeno il coraggio di parlarle.
Convinto dallo sguardo di lei, che le porgeva una delizia così profumata, si convinse ad assaggiare quel dolce straordinario.
Be’, sapete già cosa accadde, vero?
Appena lo portò alla bocca sentì tutta la malia del mediterraneo e i suoi sapori per lui esotici, il profumo e il calore di un vento che nessuna avversità può impedire di essere materno, avvolgente e amoroso.

Posillipo continua a preparare le sue pizze, così le chiama lui, forte anche del fatto che il forno le rende più gustose e digeribili.
E quel nuovo ingrediente, come si chiama, ah sì: ‘a pummarola, le rende ancora più appetitose. Ogni tanto si ferma quei pochi minuti che servono alle pizze per cuocere e pensa alla sorella, che è tornata a vivere nel golfo e fa la pasticcera.
Assieme a Stanislao hanno aperto un negozietto famoso in tutto il mondo, da dove escono tutte quelle delizie che solo l’amore può rendere irresistibili.
Da allora, e per sempre, si amano come il primo giorno in cui hanno riso insieme dell’espressione che lui fece assaggiando il dolce di Posillipo.
Donna Mimma continua a dare consigli e pozioni alle persone che chiedono il suo aiuto e che, cercandola, ne mantengono in vita la divinità.
Ogni tanto pensa a Partenope e sorride tra sé.
Chissà che faccia farebbe se sapesse che in quel flaconcino invece di una pozione d’amore brillava il suo miglior limoncello…

Ecco, non so se questa storia vi convincerà, ma di sicuro vi convincerà la ricetta:
250 g    farina
20 g      lievito di birra
50 g      zucchero
250 ml  latte tiepido
85 g      burro
3           uova
un pizzico di sale
scorza gratttugiata di un limone
burro e pangrattato per lo stampo
250 ml   panna (facoltativa)

Per lo sciroppo:
250 ml   acqua
150 g     zucchero
100 ml   limoncello (o di rhum, se volete il classico)

In una terrina mettere la farina e al centro un cucchiaio di zucchero (20 g ca) e il lievito sbriciolato.
Diluire con il latte intiepidito e mescolare bene.
Lasciar riposare una ventina di minuti al coperto, quindi unire il burro fuso, le uova, 30 g di zucchero e la scorza gratttugiata di mezzo limone.
Lavorare energicamente con cura e quindi far riposare per una decina di minuti.
L'impasto potrà sembrarvi troppo liquido per un lievitato, eppure la sua consistenza gli permette di mantenere una spugnosità e una morbidezza notevoli.
Imburrare uno stampo a ciambella da 26 cm di diametro, cospargerlo di pangrattato e versarvi l'impasto, scuotendolo leggermente per liberare eventuali bolle d'aria presenti all'interno.
Far lievitare al coperto fino al raddoppio del composto, quindi infornare a 200° e cuocere per circa quaranta minuti.
Qualora la superficie del dolce dovesse tendere a colorirsi troppo ricoprirla con un foglio di alluminio e proseguire la cottura.

Preparare uno sciroppo con l'acqua e 150 g di zucchero, portandolo a bollore, sempre mescolando, finché risulti limpido.
Unire la scorza del limone rimanente e il liquore.
Bagnare con lo sciroppo il babà, utilizzando un pennello o versandolo con un cucchiaio lentamente, per farlo assorbire bene.
Farcire la cavità del dolce con della panna montata o con della crema pasticcera (magari al limoncello, no?).
Ah, naturalmente un dolce del genere è ottimo accompagnato da gelato alla crema.
Una delizia degna degli dèi.
E d'una ninfa...



Detto napoletano del giorno
L'ammore fa passà 'o tiempo e 'o tiempo fa passà l'ammore.

L'amore fa passare il tempo e il tempo fa passare l'amore.


Oggi ascoltiamo
Roberto Murolo e Mia Martini - Cu' mme
 
http://www.youtube.com/watch?v=1YpLTUqVYw8

martedì 22 gennaio 2013

Crostata di ricotta alla romana

- Gira de qua gira de llà, semo romani e volemo cantà! Gira de qua gira de llà, semo romani e volemo cantààà...
- Leppagorre, la smetti? Lo vedi che fai scappare pure le zanzare?
- Ma a gennaio le zanzare? Io canto ma tu mi sa che sei suonato!
- Guarda che si sono super adattate: prima hanno imparato a girare di giorno, le maledette...
- Le zanzare-tigre, intendi?
- Sì, ma mica solo loro: oramai te le ritrovi tutte sia d'estate con l'afa che d'inverno, appena sale di poco la temperatura. O magari negli ambienti riscaldati. Tipo questo...
zzzZZZzzzZZZzzz... Sciàff!
- Crepa, bastarda!
- Secondo me se le osserviamo con la lente le vedremmo indossare dei mini-cappottini...
- Sì, o anche dei piumoncini, se no non si spiega. Ma a me piacciono tanto, sono così petulanti e fastidiose che quasi m'inteneriscono.
- E lo credo! Con quella pelle di cotica e quel pelaccio rosso che ti porti addosso, col cavolo che ti pungono, a te, le infami...
- No, è che mi piacciono davvero. Di sapore, intendo. Sono così dolci...
- Aiutatemi a farlo uscire da qui, vi prego, Spiriti del Banco Frigo, Anime Arcane del Pentolame, Esseri Bonari delle Credenze Buie! Riprendetevi questo mostro senza ritegno alcuno! E presto, pure...
- Cattivo!...
- Vabbè, dài... non fare il labbrone tremolante, che non ti dona. Non sei mica il Gatto con gli Stivali...
- Bono, quello!...
- Ecco, lascia stare le moine, su... così, e lasciamo perdere gli insetti più inutili e fastidiosi del mondo. Pensiamo invece a farci qualcosa di buono.
- Per questo hai preso la ricotta, vero? Quando la vedo in frigo non so mai dove andrai a parare. Dolce... salato... che si fa?
- Eh, caro mio, mica soltanto te sei imprevedibile. Oggi generi di conforto per l'anima, che fa così fatica, poverella, de 'sti tempi!...
- Ci vuole qualcosa di familiare, di rassicurante, di carezzevole...
- Una crostata di ricotta, per esempio. Alla romana.

Ora, questa è una ricetta che a Roma viene coniugata in mille varianti ma che, più o meno, si fa così:
Preparare una pasta frolla (dose da 300 g di farina) come spiegato ampliamente qui.

Per la farcia base occorrono:
400 g  ricotta
Preferibilmente di pecora, che le dà un sapore ineguagliabile, ma anche di mucca è ottima, e alla fine il sapore risulta più delicato. Anche qui, come in tutte le cose, la scelta è solo una questione di gusto personale.
1         uovo
1         tuorlo
100 g  zucchero
1 pizzico di cannella
1 cucchiaio di liquore (Amaretto, Strega, fate voi…)
Lavorare la ricotta con lo zucchero fino a formare un composto cremoso.
Unire l'uovo e il tuorlo ed amalgamare bene.
Aggiungere ora la cannella e il liquore.
Che faticaccia, eh? Non sarà troppo complicata?...

Anche qui le variazioni si sprecano. Si possono aggiungere, infatti:
100 g  cioccolato a pezzetti (che è la morte sua)
e/o  50 g    uva passa (ammollata in poca acqua tiepida, o in poco rhum)
e/o  20 g    pinoli (tostati su un padellino antiaderente)
e/o  50 g    scorzette d'arancia candite oppure canditi misti, a pezzetti (da infarinare un poco prima di unirli al composto)

Dopo aver fatto riposare per mezz'ora la frolla in frigo, stenderla su un piano, aiutandosi con poca farina.
Non dev'essere troppo sottile, perché la corposità del ripieno richiede un supporto resistente, oltre che bello sostanzioso. Diciamo un minimo di 4 mm.
Rivestire lo stampo con la pasta frolla e versarvi la farcia all'interno.
Ripiegare i bordi della frolla e decorarli aiutandovi con il dorso d'una forchetta, o con i rebbi, o pizzicandola con le dita.
Anche qui, come in tutto, si può lavorare di fantasia.
Con la pasta rimasta si possono formare delle striscioline da disporre a griglia, come per la crostata tradizionale, oppure creare dei disegni sulla superficie della farcia, o anche delle formine con gli stampini per biscotti.
Infornare a 180° e cuocere almeno almeno 40 minuti.

  

La crostata di ricotta mette sempre di buon umore: non è troppo pesante o troppo dolce, non è invadente o  peccaminosa, fa da colazione, da merenda o da fine pasto.
In una parola sola: perfetta!


Detto romano del giorno
Chi aricconta ce mette la ggionta.

Chi racconta aggiunge sempre la sua versione.


Oggi ascoltiamo
R.E.M. - Everybody hurts

http://www.youtube.com/watch?v=ijZRCIrTgQc

Zuppa di cipolle rosse

Quando le cose vanno come vanno e non sembrano avere alcuno sbocco, uno qualsiasi; quando ogni cosa attorno impazzisce e pare trascinare con sé quel poco di ragione che ancora ci àncora al reale;
quando ci si accorge che la partita non è finita ancora, e che gli avversari arrivano anche a giocare in modo sleale solo per il gusto di vederti mordere la polvere...
Bene, allora qui ci vuole un bell'atteggiamento orientale, il nostro abito zen più lucido, quello che abbiamo in serbo per le  grandi occazioni e che dà i risultati migliori relativizzando l'importanza di ciò che più ci dà ambascia.
La versione orientale di quel che da noi chiamano il metodo sticazzi...
Una volta ho avuto modo di vedere un monaco tibetano (ebbene sì, a Roma, nella Galleria Alberto Sordi, vicino al Parlamento) cher se ne stava seduto con le gambe incrociate mentre, con dei mucchietti di sabbia colorata andava componendo una complicata figura geometrica.
Non era un disegno qualsiasi ma un mandala, una sorta di figura simbolica, archetipica, dei moti dell'universo e della mente.
Artisticamente un lavoro di gran pregio, come può esserlo un mosaico dalle migliaia di tessere o un tappeto orientale con gli innumerevoli nodi e l'intreccio di fili che compongono uno schema complesso.
Ecco, il fatto è che il monaco in questione non era il solito artista da strada, un madonnaro o un graffitaro, tanto per capirci.
Il disegno che andava fasticosamente formandosi con pazienza certosina sotto le sue mani era volutamente formato di granelli di sabbia poiché, una volta che lo schema sarebbe stato completato e l'ultimo granello avesse preso il posto nell'ordine dello schema, il monaco stesso, armato di una scopetta di saggina avrebbe spazzato via tutta la sabbia, ridonando al caos quel barlume d'ordine così faticosamente costruito.
Nulla di più emblematico del valore transeunte e vano di ogni cosa, di ogni opera e di ogni preoccupazione umana.
Il disegno aveva avuto un'importanza enorme durante la sua composizione, e la sua importanza è stata proprio il suo aver luogo, l'accadere di un gesto umano di fronte allo sterminato e caotico mare della vita.
Mantenerlo oltre avrebbe significato trasformarlo in feticcio di se stesso o, peggio ancora, in merce, in quello che non era affatto sua intenzione essere.
Ecco, di fronte a queste cose rimango sempre basito, perché non sempre so ricordare all'occorrenza l'insegnamento che voleva dare quel monaco.
Spesso, come tutti, mi lascio trascinare dalle passioni, dalla rabbia, l'ira, la foga, senza ricordare mai cosa davvero conta in quel momento.
Quello che per me conta davvero.

Anche il cibo ha la stessa valenza effimera di un disegno di sabbia, l'importanza enorme del gesto che appaga oltre all'anima, anche il gargarozzo...
Per festeggiare questa ennesima consapevolezza ci vuole qualcosa di facile e che sia di conforto per una desolata e fredda sera invernale.
Cosa di meglio di una zuppa?
E di cipolle, poi.


500 g    cipolle rosse
50 g      burro (più una noce per il fine cottura)
400 ml  latte
25 ml    brodo
3 cucchiai di farina
scorza grattugiata e succo di un'arancia
1 cucchiaino di zenzero fresco
Una punta di paprica e una di coriandolo, in polvere
Dragoncello (o estragone) tritato (anche secco va bene)
Affettare le cipolle molto sottili e farle appassire nel burro in una casseruola, a fuoco dolcissimo; dovranno ridursi in poltiglia senza colorire.
Unire lo zenzero grattugiato, l'arancia spremuta (e grattugiata nella scorza) e far insaporire.
Aggiungere, all'occorrenza del brodo o dell'acqua se il cipollame dovesse asciugarsi troppo.
Incorporare la farina e diluire con il latte, mescolando bene.
Salare e cuocere per una ventina di minuti, mezz'ora e, se occorre, aggiungere del brodo.
Se si preferisce le si può dare una veloce passata di frullatore a immersione, ottenendo una crema liscia e vellutata.
Unire la paprica, il coriandolo e il dragoncello e far bollire ancora per qualche secondo.
Volendo si possono anche aggiungere, a fine cottura, un paio di tuorli battuti con un cucchiaio di panna.
A me non pareva proprio il caso, anche se la panza li invocava a gran voce...
Completare con una noce burro, mescolando bene.
Distribuire su delle fondine sul cui fondo sarà stato messo del pane.
Servire con delle fettine di speck tagliato a listarelle e fatto rosolare su un padellino antiaderente o, meglio ancora, fatto asciugare in forno e poi tritato per ottenere una saporitissima polvere rossa (alla Simone Rugiati maniera, tanto per capirci).
Insomma, anche solo in una tazza da caffellatte va bene.
L'importante è sedersi comodi, accanto ad una luce soffusa, con un film o della musica di sottofondo, chiudere gli occhi e assaporare quello che solo le cipolle sanno dare.
E ripetere, con un sorriso di piacere sulle labbra, un mantra zen che fa così:
"D'ora in poi voglio piangere solo affettando delle cipolle".
Funziona, eh? Garantito.

Detto romano del giorno
E 'sti cazzi (nun ce li metti)? 


Versione capitolina di:
Se c'è soluzione perché ti preoccupi? Se non c'è soluzione perché ti preoccupi?
Aristotele (ma anche Confucio, direi...)

Oggi ascoltiamo
Ólafur Arnalds - Hægt, Kemur Ljósið

http://www.youtube.com/watch?v=7GIHzCAUrak

sabato 12 gennaio 2013

Cuccumiao ripieni

Ecco, non è che, ancora una volta m'è partito l'embolo e faccio e dico delle cose sconsiderate.
Non qui, almeno...
Il Cuccumiao è infatti, in limba sarda, la civetta.
In Sardegna ce n'è una varietà, di cui mi sfugge il nome preciso, che fa un verso particolarissimo, diverso da quello delle civette continentali: inizia con un chiocciare ripetuto e finisce con una svirgolata vezzosa, una sorta di miagolio stridulo e acuto.
Una sorta di Cu...cu... cu... miaooo. Appunto.


Povera civetta, uccello della notte dagli occhioni gialli dalla vista acutissima, veloce come una saetta e ghiotta di topi e altri dannosi roditori: per secoli sei stata vituperata e ingiustamente accusata di essere menagrama.
Sì, insomma, di portare sfiga solo a sentirne il verso.
Guai se si fosse sentito il suo chiocciare sul tetto di casa: qualcosa di spiacevole sarebbe di certo accaduto.
Ma si puo?
Nell'antichità era invece un essere caro alla dea della saggezza, Atena, ed infatti il nome scientifico del nostro rapace è proprio Athene noctua.
La leggenda narra che la dea fece volare la sua civetta sulla terra dei mortali ed il posto dove questa si posò fu scelto per fondare, guarda un po', proprio Atene, la città che con Roma è la culla della nostra civiltà.
Insomma, altro che sfiga!
E infatti qualcosa è decisamente cambiato per la civetta, che non viene vista più come una malevola jettatrice e ha recuperato il suo antico significato araldico di prudenza, silenzio e vittoria; tanto più che la si vede sempre più spesso rappresentata su monili, spille e statuette proprio come portafortuna.
Strana cosa, ma positiva per il nostro bel rapace, questo cambio semantico, no?

Ma qui mica vorremmo fare un bel pennuo portafortuna ripieno, no?
Ci mancherebbe!
Visto che di buona sorte se ne sente davvero il bisogno, la mia parte irrazionale cerca di attirarla in ogni modo, anche dandone la foggia a delle tortine salate-
Tipo questa qui:

 
Alla mia parte razionale racconterò invece che l'ho fatto per onorare la sua vicinanza ad Atena.
Razionale, sì, ma anche un po' fregnona...(1)

La pasta utilizzata è, ovviamente, la Mouflonian pasty, ossia la Pasta violata, alla sarda maniera.
Per tre Cuccumiao occorrono 400 g circa di Pasta Violata, e quindi:
   250 g  semola
   50 g    strutto
   80 g    acqua tiepida, o q.b. per legare
   un pizzico di sale

Per il ripieno ci si può davvero sbizzarrire, come ogni pasta ripiena (fresca o in tortino) che si rispetti.
Qui s'è deciso di farla in due gusti diversi, ma entrambi accattivanti: cipolle & funghi e carciofi & patate.
Perciò, serviranno:
300 g    funghi champignon
500 g    patate
300 g    cipolle rosse (2 medie)
2           carciofi
2 spicchi d'aglio
pochi chicchi d'uva passa già ammollata in acqua tiepida
sale e pepe q.b.
Lessare al dente le patate, quindi pelarle e tagliarle a dadini.
Stufare i funghi in un tegame con uno spicchio d'aglio appena schiacciato.
Far appassire la cipolla in poco olio, a fuoco bassissimo.
Mondare i carciofi, tagliarli a spicchi sottili e farli cuocere in una padella dove avrete fatto soffriggere uno spicchio d'aglio tritato.
Se occorre, in cottura aggiungere un cucchiaio d'acqua.

In due terrine preparare ora i due diversi impasti:
- cipolle e funghi, con due cucchiaiate di patate a dadini;
- carciofi e patate.
Regolare di sale e pepe, quindi far raffreddare bene.

Dividere in tre pezzi la pasta violata.
Stenderla non troppo sottile e ricavarne degli ovali.
Su ognuno di questi poggiare un coppapasta da 10 cm circa, versare all'interno il composto e, delicatamente sollevare il coppapasta.
Unire due estremi più lunghi all'ovale, inumidirli leggermente con dll'albume e unirli con una leggera pressione.
Sollevare i due lati più corti, facendoli unire ai lembi di pasta.
Spennellare i bordi con poco albume per incollare le parti e chiudere "a sacchetto".
Avremo due bordi sporgenti che potremo utilizzare in alto per le "sopracciglia" e in basso per le zampette della civetta.
Con delicatezza modellare le sopracciglia rendendo il filo di pasta omogeneo.
Passare al bordo inferiore: appiattirlo leggermente cercando di formare due zampette.
Se la pasta non sarà sufficiente, non preoccupatevi: con due pezzetti di pasta in più formare separatamente le zampette e poi farle aderire al bordo inferiore, con poco albume a mo' di collante.
Ora da poca pasta avanzata ricavare un triangolo isoscele per il becco e due cerchi per gli occhioni.
Fissateli sul corpo del Cuccumiao con poco albume.
Prendete due chicchi di uva passa, schiacciateli leggermente con le dita e, bagnandoli leggermente con dell'albume,  incollateli sui cerchi degli occhi, per formare le pupille.
Ci siamo.
Adesso spennellare l'intero Cuccumiao con l'albume rimanente, o con del tuorlo, se lo preferite un poco più colorito, e infornate a 180° fino a doratura.
Ci vorranno 20'-mezz'ora, circa.
Ed ecco le nostre tre civette, non sul comò ma sul piatto da portata.


La civetta era anche usata dai cacciatori per attirare con il suo battito d'ali e le sue movenze gli uccelli più piccoli che, essendo naturalmente curiosi, pare venissero attirati in maniera irresistibe da quei richiami.
Da qui naque il termine civetta per designare una donna vanitosa che ama essere corteggiata e cerca di attirare le grazie maschili con vezzi e modi leziosi.
Qui a Roma è una nomea che unisce la civetta alla povera quaglia, tanto che si dice:

Detto romano del giorno
Donna che smena er cul come 'na quaja si puttana nun è, poco se sbaja.
oppure:
Donna che move l'anca si n'é mignotta poco ce manca.
Donna che dimena il sedere camminando (quindi come fa la quaglia) se non è puttana poco ci manca.

Oggi ascoltiamo 
Piero Marras - Su cuccumiao
http://www.youtube.com/watch?v=VdRumuQ9_gw 


Note
1) Fregnone - Ingenuo, sprovveduto, che crede in ogni cosa gli venga detto.

lunedì 7 gennaio 2013

Dado (di Trittico) fatto in casa

Il dado è uno dei primi figli dell'industria alimentare: addirittura dal 1850, per mano (e bracci meccanici) del barone von Liebig, pace all'anima sua...
Se il pane abbiamo continuato a farcelo in casa fino a qualche decennio fa e le merendine non sapevamo neppure cosa fossero fino agli anni '70, il dado invece era già ampiamente diffuso in ogni famiglia.
Ecco, non so da quanto tempo non ne compro più eppure, a volte, quando devo fare una minestrina al volo o quando devo dare un po' di sprint allo spezzatino ne sento sempre la mancanza.
Magari non tanto del concentrato di carne, quanto di un po' di verdura sempre pronta, anche solo del Trittico (1), il vero passe-partout della cucina italiana.
E lo credo: sai quante volte manca il sedano, o la carota?
Il sedano, soprattutto, manca sempre: ne compri un cespo e si ammoscia miserrimo in frigo o si secca all'aria nel giro di due giorni e quindi, giocoforza, prende l'inesorabile via del secchio.
C'è chi il dado vegetale se lo prepara in casa, frullando le verdure e facendole ridurre a fuoco basso per due ore e passa, per poi chiuderlo in vasetti sterilizzati.
Ma non mi va di usare il forno per ore per ottenere una poltiglia dall'aspetto dissenterico.
Qui ci vuole un rimedio della nonna.
Anzi, ci vorrebbe davvero una nonna, a dire il vero...

Una del tipo:
- Allora, bello de nonna, prenni un po' de verdure, in uguale quantità.
- E che ci metto, nò? (2)
- Fai mezzo chilo tra carota, sedano e cipolla. Trita bbene tutto. Sì, io usavo la mezzaluna, ma mo' coll'artite che me ritrovo... lassa perde, nun se ne parla. Mo' uso er robbótte.
- Er che?!?
- Er robbòtte, no? Sto cazzimperio (3) qqua.
- Ah, il robot da cucina!...
- E io che ho detto? Mo er rincojonito sei diventato te? Ah, annamo bbene!...(4)
- E poi, nò?
- Poi mettice anche er prezzemolo che, come dice er nome stesso, sta sempre indapertutto. Un po' come 'a dirimpettaia, l'animaccia sua, che pare che de le rogne sente la puzza da lontano, e sta sempre llì a mette bbocca....
- Mh, vabbè, nò... E poi?
- Ecco, metti tutto in una ciotola e aggiungi il sale fino. Pe mezzo chilo de verdura un etto, circa.
- Quindi il 20% del peso della verdura...
- Sì, vabbé, come dici te... Mentre stai a fa tutto st'ambaradamme (5), avrai fatto bollì pe dieci minuti un barattolo, e pure er coperchio.
- Così lo sterilizziamo e stiamo tranquilli.
- Sì, così pe sei mesi stai apposto ccosì.
- Bene, nonna bella, grazie.
- Prego, bello de nonna, anzi, visto che esci, me sposti la machina de tu nonno? che, l'animella sua, è rincojonito forte e m'ha chiuso er foristrada. Si dopo devo annà al centro commerciale me tocca svejallo e figurete: già nun sa 'ndo sta de casa...

Fuoristrada?... Centro commerciale?...
Ah, ecco, lo dicevo io: stavo sognando a occhi aperti, come sempre...
Altro che nonna sprint!
Però la ricetta è valida lo stesso, eh?
Se ne usa un mezzo cucchiaino scarso ogni tazza d'acqua, e si ottiene un effetto "minestrina de nonna" che non è niente male.
Poi lo possiamo utilizzare anche come battuto all'italiana, da soffriggere assieme alla pancetta o quant'altro.
L'unica avvertena è di ricordarsi di non salare ulteriormente, sennó...


Anzi, me ne viene in mente una versione per arrosti, spezziatini o involtini:
Ad un bicchierino del nostro dado casalingo aggiungere:
- due foglie di lauro e una decina di foglie di mirto
- qualche bacca di ginepro, e qualcuna di mirto
- due chiodi di garofano
- aglio in polvere
- la solita accoppiata del momento: cumino e coriandolo in polvere (poco, la punta di un coltelllo)
- qualche grano di pepe.
Le quantità sono approssimative, visto che possono variare a seconda dei gusti (io avrei aggiunto tanto, tanto pepe, per esempio...)
Tritare le foglie, le bacche e aggiungerli al trito di Trittico.
Chiudere in un barattolino (ne avevo uno piccino da omogeneizzato, grazie a Babà...) e conservare al buio della credenza.
Al momento di cuocere la carne se ne può usare usarne mezzo cucchiaino per ogni mezzo chilo.
O anche di più, se si vuole, ma resta il fatto che, anche qui, ci si deve ricordare di non salare ulteriormente.


Note (necessarie, stavolta...)
1) Il Trittico è, lo ripeto ab nauseam: carota+cipolla+sedano.
2) sta per no(nna), visto che qui a Roma tronchiamo tutte le parole, perché ce fa fatica parlà pe intero...
3) Oggetto ingombrante e di cui si ha poca dimestichezza nell'uso. Di difficile classificazione, lo si potrebbe tradurre come la classica black-box...
4) Esclamazione tipica romanesca, versione popolana del "Signora mia!...", reso celebre dalla grandissima, ineguagliata, mitica Franca Valeri. La Sora Cecioni, col suo instancabile telefono, è un personaggio immortale della nostra televisione. Qui alcuni suoi filmati. Da assaporare con le lacrime agli occhi...
5) Sinonimo di gran casino, baillamme e confusione totale. Da Amba Aradam, luogo dell'Etiopia che l'esercito italiano cercò di conquistare nel 1936 con grande dispiego di armi chimiche (non lo sapevate, vero? Leggetevi le ricerche di Angelo Del Boca su quanto poco siamo stati, in quel caso, brava gente...)

Detto romano del giorno
Nun pijà l'acqua cor canestro.

perché sarebbe...
Un cazzo e tutt'uno

Oggi ascoltiamo
Giuni Russo - Lettera al Governatore della Libia

http://www.youtube.com/watch?v=tQCWPzL_00c

venerdì 4 gennaio 2013

Torta alla zucca

Ovvero: la zucca si mette su tutto  (ottava parte. L'ultima? Ma no...)

- Vieni qua, Leppagorre!
- Fossi matto!... E smettila con quella scopa, che mi fai male!
- Qua, ti dico! Vieni qua, maledetto!
- Fsss!!! Gnaowl!!! Prrr!!!
- Ah, mi prendi anche in giro, eh? Vieni fuori! Esci da sotto il letto, gattaccio malefico! Stavolta ti ci faccio una bella maschera depurativa a base di zucca!
- Nooo! Ma sei scemo? Ti ha forse male l'anno nuovo? Finché non l'avrai finita del tutto non mi vedi! Io da qui non esco!
- Bestia senza ritegno! Ma come: prima mi metti in croce: "E guarda com'è bella quella zucca", "Vedrai,  quant'è buona" e adesso che ne è rimasto solo un pezzo ti tiri indietro? Vigliacco!
- Ufff... Non esco finché non l'hai finita del tutto e potrò avere finalmente un po' di varietà...
- "Varietà"?!? Ma se te l'ho coniugata in tutte le forme, dall'antipasto al dolce, che vuoi di più?
- Dolce? Ho sentito bene?
- Sì, dolce, che altro?
- Cioè, hai fatto un dolce con la zucca?
- È quello che cerco di dirti da mezz'ora, ma non m'ascolti per niente; stai lì, impitonito davanti alla tv a vedere gli spot dei dolciumi per la calza della Befana! Befanone che non sei altro! Ormai, appena senti "zu..." prendi e te ne fuggi a zampe levate.
- Eh ma pure tu... me lo potevi dire che era l'ora del dolce!
- Ma perché, secondo te con cosa si finisce un pranzo, anche se tutto a base di zucca?
- Finisce?... Io il dolce non lo mangio mica alla fine.
- Ah, ecco...

Come al solito, anche per la torta c'è una grande varietà di scelta da cui poter prendere spunto.
Foglio alla mano, matita, gomma e via con le tabelle, a confrontare quella che sembra poter funzionare di più.
A gusto mio, s'intende.
La zucca, alla fine, si comporta come la carota: per non avere un dolce dalla consistenza compatta, soda e molliccia e dargli un minimo di spugnosità, occorre usare la farina di mandorle (o di cocco).
A conti fatti quella che più potrebbe funzionare è scritta qui, presa a sua volta da qui.
Le minimali variazioni, come al mio solito e...

300 g     zucca, al netto della mondatura
100 g     farina integrale
50 g       farina 00
125 g     mandorle macinate (o anche di farina di cocco)
200 g     zucchero
4            uova medie, oppure 3 grandi
la buccia di mezzo limone grattugiata, oppure una grattatina di zenzero fresco
1 cucchiaino di lievito in polvere
1 pizzico di sale
1 /2 cucchiaino di cannella
100 g     cioccolato fondente (opzionale, poi vi dico...)
Lavorare a crema le uova con lo zucchero e il sale per almeno 5 minuti.
Unire gli aromi, il cioccolato tritato, le mandorle, la farina e il lievito.
Grattugiare la zucca utilizzando i fori medi e incorporarla con cura alla massa.
Versare l'impasto in una teglia imburrata e infarinata (se al silicone saltare il passaggio e via) e cuocere a180 ° per 50 minuti ca.




Senza fronzoli od orpelli: al limite solo una nuvola di zucchero al velo.




Ecco, l'ho provata in due fasi: con e senza cioccolato.
Ovvio che il cioccolato dia alla zucca quello che nessun amante potrebbe dare ma, in questo caso, m'è parso un filo troppo egocentrico e soverchiante.
Un po' come quelle persone che stanno là a raccontarti quanto sono brave a fare (tutto, ovviamente...) e come sono meravigliosi i posti in cui sono state (sempre esotici, mai Cecafumo Scalo) e quante persone interessanti (o meglio personaggi) abbiano conosciuto.
E noi a dire: sì, certo, hai ragione, come no. Insopportabile!
Alla fine dei giochi quindi della zucca restava solo un pallido sapore lontano.
E capirai: è già timida di suo, la povera zucchetta nostra!
Proviamo pure senza il cioccolato e la cosa, a mio avviso, andrà molto molto meglio.
Una vera torta alla zucca...


Nel frattempo Leppagorre s'è bellamente ingozzato tutte e due le versioni tanto che oggi, dice, l'unico cibo arancione che potrebbe sopportare è questo...



Chissà perché, ma non ci credo...

Detto romano del giorno
Li sogni quasi sempre sò compagni

de tutto quello che a la sera magni
Trilussa

Oggi ascoltiamo
Lascel Wood - Use Somebody
http://www.youtube.com/watch?v=BtcHmDx0ROI