venerdì 5 dicembre 2014

Gricia di Amir

Amir non è di Marrakesh, né di Tripoli, e neppure di Damasco.
Amir è italiano, anzi romano, anzi di Torpignattara (o, più propriamente, Tor Pignattara), una delle tante "Tor Qualcosa" sparse per la periferia di Roma, il cui nome nasconde sedi di fortilizi, di caserme, ma anche diverse ville patrizie, in gran parte oggi sotto metri di terra...
Periferie dove un tempo si muovevano quei Ninetti tanto cari a Pasolini, che seguiva nelle catapecchie accostate lungo l'antico acquedotto, o aggrappate su qualche "montazorro" dove s'abbarbicavano grappoli di casette abusive dove, in lontananza, già sorgevano palazzoni di sette piani, o affacciate su voragini che con gli acquazzoni di novembre diventavano pozze torbide come marane.


Periferie che poi hanno accolto un'umanità snaturata e devastata dal consumismo, pronta a farsi sedurre dalle sirene del benessere, sfrenato ed egoistico che concede i suoi spazi solo a chi ha modo di essere "produttivo".

In questi spazi marginali sono arrivati i primi "stranieri", e qui hanno costruito le proprie vite.
Alcuni col tempo hanno portato i loro cari qui da noi, li hanno fatti crescere assieme agli indigeni. Con molte difficoltà iniziali, molta diffidenza da entrambe le parti, molte remore.
I nativi, come sempre, hanno accettato chiunque venisse da fuori, come un tempo avevano accettato le orde dei migranti e quindi tutte le altre popolazioni della penisola, torinesi, siciliani e quant'altro.
Poi sono nati quelli che con ironico savoire-faire si sono definiti, da sé - prima che con disprezzo lo facessero altri - "i meticci", gli incroci tra quelle differenze di colore e di costumi che oggi chiamiamo etnie.

E i meticci, a ben vedere, sono i più sinceri frutti del nostro dettame biologico, che impone frequenti e salutari ibridazioni.
Solo quel che è ibrido, meticcio, bastardo è vivo, vitale, sano. La purezza è solo un pericoloso mito, astratto e  concettuale, lontano dalla vita vera, che è caos in movimento, in cerca di una faticosa struttura.
La purezza, se esiste, è vicina piuttosto alla stasi dell'immobilità, alla morte.

Se uno ha il padre egiziano e la madre romana per forza di cose è meticcio.
Lo sarebbe anche se la madre fosse piemontese e il padre pugliese, se non vi fosse quello straccio di sovraidentità nazionale a far tacere le discrepanze identitarie...
E il meticcio, quando si sente tirare dalle sue diverse identità e le sente in conflitto vive in modo quasi schizofrenico la propria vita, sia interiore che esteriore.
Definirsi fa fatica, e se proprio volessimo insistere nell'intento di dire a noi stessi e al mondo cosa siamo - anzi cosa sembriamo e non, piuttosto, cosa facciamo e cosa lasciamo al mondo - dovremmo imparare a considerare l'identità non come un'etichetta ma come un'intersezione di due o più insiemi e, allo stesso tempo, di insiemi e sottoinsiemi sempre inclusivi.
L'essere si forgia per differenze, ma ancor meglio per accumulazioni.
Io sono romano, anzi di Torpignattara, ma romano, e quindi italiano, e poi occidentale, quindi, in definitiva, salendo di grado in grado inclusivo, un essere umano.
È così difficile da concepire?
Farebbe comodo al mondo, anche se le meschinità degli interessi, delle ideologie, - anzi i pregiudizi, nella gran parte dei casi -, e dell'istinto tribale ci fanno credere di essere "solo" romani, "solo" italiani, "solo" occidentali.
E non altro.

Mi ripeto con finta ingenuità, ma la sintesi tra le cucine, il melting-pot culinario, anche se suona ottimistico e buonista, alla fine aiuta a relativizzare gli estremi, a credere proprie e solo proprie alcune caratteristiche ed espressioni culturali, mentre è sempre la nostra bella e variegata umanità a manifestarsi, ad agire nel mondo.
Si potrebbe dire: cosa c'è di più romanesco di un piatto di tonnarelli/ spaghetti/ rigatoni/ bombolotti - e quant'altro - alla Gricia?
È un'amatriciana in bianco, qualcosa che affonda le radici nella cucina dei pastori, in un tempo in cui il pomodoro era al di là dall'arrivare in Europa e, se c'era, era considerato come oggi la begonia, solo una pianta ornamentale.
Ma è un piatto che, come gran parte di quelli della cucina popolare romana, è "forestiero" e come ogni cosa che venga da fuori, prontamente assimilato e fatto proprio.
Perché a dispetto dei fattacci d'ordine pubblico e di coatta convivenza in condizioni pessime, Roma accoglie e fa suo.
Da sempre.
Che la Gricia venga dalla Tuscia, dalla Ciociaria, non è dato dirlo.
Nessuno lo saprà mai, e in fondo nemmeno è importante saperlo.
Quel che conta è che chi nasca qui, e abbia in sé la consapevolezza delle culture che lo formano, impari a conoscerla e ad amarla.
Assieme al cous-cous, ai vermicelli in brodo, al pollo in tandoori...


Amir Issaa è un artista, un rapper, e oggi anche un produttore musicale.
Una persona che ha saputo trovare nella musica, e nell'hip-hop in particolare, un modo per esprimere la propria "alterità", quella stessa che ognuno si potra dentro senza neppure vederla, solo perché non ha gli occhi a mandorla né la pelle scura.
Amir oggi ha raggiunto la notorietà, e se l'è meritata tutta.
Tanti, al suo posto, con le sue difficili premesse - un padre in carcere e una madre che deve crescere da sola un figlio in un "quartiere-ghetto"... -  si sarebbero abbandonati e avrebbero mollato.
Tanti l'hanno fatto, purtroppo.
Amir ha il volto di un'Italia che non vuole soccombere.
Che vuole esserci, nonostante tutto.
Gli dedico questa Gricia, un po' anomala, devo dire, per via delle mandorle filettate messe 'n coppa.
Ma come potevo richiamare il Maghreb senza stravolgere la ricetta se non con le mandorle?
Bella, Amì...


Gricia di Amir
Per prima cosa c'è da dire che nella Gricia, come pure nell'Amatriciana, si usa il guanciale, non la pancetta: sono parti diverse del maiale, con diversa lavorazione e diverso sapore, e la differenza si sente, non è per pedanteria.
Intanto un padellino ben arroventato far tostate un paio di cucchiai di mandorle a filetti, muovendole spesso per non farle bruciare, e una volta pronte toglierle e tenerle da parte.
Nella stessa padella soffriggere del guanciale a pezzetti.
I soliti puristi dicono: 3 x 1 cm e 0,8 cm di altezza, ma l'importante è che friggendo riesca a cuocere fondendo il grasso e rosolarsi senza bruciare. Non serve nemmeno aggiungere olio, basta il grasso della carne.
Aggiungere del vino bianco secco, far svaporare e aggiungere, a piacere, del peperoncino a pezzi.
Nel frattempo fate cuocere la pasta, lunga o corta, a seconda delle preferenze e di come risulti più "maneggevole".
Quando la pasta è cotta, scolarla e versarla in padella per mantecarla con del pecorino,
Anzi, meglio ancora: preparare una cremina col pecorino e l'acqua di cottura della pasta, come perla cacio e pepe, per capirsi, quindi versare nella zuppiera la pasta condita col in padella col guanciale, mescolare ben bene, aggiungendo poca acqua di cottura che avrete avuto l'accortezza di tenere da parte e...
Ah, si, le mandorle a filetti tostate a completare l'opera.
E se non vi sconfinferano le mandorle, beh, allora altra generosa grattata di pecorino.
E come dico sempre: chi s'è visto s'è visto.

Il Mausoleo di Sant'Elena, la "Torre delle Pignatte" che ha dato il nome al quartiere.
Le pignatte, che servivano ad alleggerire la struttura, sono ancora visibili nella parte interna.

Detto romano del giorno
Chi nun è bono pe' se, nun è bono manco pe' l'antri.

Oggi ascoltiamo
Amir Issaa - Ius Music

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