mercoledì 1 maggio 2013

Fave e pecorino, sì, ma con la pasta.

Sono decenni, se non secoli, che i giardinieri e i rosicultori di tutto il mondo cercano di ottenere un fiore che abbia i petali completamente neri. Un viola scurissimo, cupo, molto intenso sì, ma non un vero e proprio nero.
Questo per le rose come per i tulipani.
Nel mondo vegetale questo colore non è poi così comune, tranne che nel fiore delle fave.
Figuriamoci cosa devono aver provato i nostri progenitori nel vedere un fiore candido maculato d'un nero perfetto:


Le anomalie sono sempre state viste come segni di manifestazione dell'ultramondo o precise volontà di esseri trascendentali; se poi le macchie nere dei petali sono anche disposte in modo da ricordare la lettera theta, iniziale  della parola θάνατος (Thanatos), ossia morte, la superstizione è servita su un piatto d'argento.
Al tempo dei Greci (e dei Romani, che ne mutuarono la cultura) si credeva perciò che le fave  nascondessero le anime dei trapassati.
Nonostante le numerose ricette di Apicio (l'Artusi del mondo classico) queste credenze non appartenevano soltanto al popolino: per la stessa "ragione" anche lo stesso Pitagora proibì ai suoi discepoli di mangiare fave.
E se a Roma, durante le feste dedicate alla dea Flora, protettrice della natura che germoglia, venivano lanciate fave sulla folla in segno di buon augurio, negli altri periodi dell'anno queste erano considerate addirittura impure: il sacerdote di Giove non poteva toccarle e il Pontefice Massimo non poteva neanche nominarle.
Pochi nomi romani però derivano da verdure, e Fabio (da fava, appunto) è uno di questo, segno dell'alta considerazione che si aveva allora per questo vegetale, sia per il legame con la natura che rinasce che con il mondo ultraterreno.
Per altri versi era comunque un cibo legato ai defunti: nel periodo di novembre venivano lessate in grande quantità in offerta a Bacco e Mercurio per le anime dei morti e nelle cerimonie funebri venivano sparse sul feretro, e gli schiavi se le buttavano dietro le spalle durante il corteo invocando il nome del padrone scomparso.
Tra i lemuri, ossia gli spiriti dei trapassati, i Romani distinguevano tra quelli benefici o maligni, a seconda della condotta in vita della persona defunta; e mentre i Lari, gli spiriti buoni, diventavano angeli protettori del focolare, gli spiriti malevoli prendevano il nome di Larvae.
I lemuri venivano celebrati a maggio, il 9, l'11 ed il 13, durante la festa delle Lemurie; in questo periodo i templi restavano chiusi e non si svolgevano cerimonie nuziali. Durante questa festa aveva luogo una cerimonia familiare che aveva lo scopo di allontanare l'influsso negativo delle larvae: il capofamiglia si alzava a mezzanotte, si lavava tre volte le mani e girava per casa a piedi nudi facendo schioccare le dita; metteva in bocca delle fave nere e per nove volte le gettava alle proprie spalle, pronunciando una formula di scongiuri. Era credenza che le ombre fossero chiamate dallo schiocco delle dita e si fermassero a raccogliere le fave; allora il capofamiglia, con altra formula di scongiuro, li invitava a lasciare la casa.
L'abitudine di consumare le fave il giorno dei morti si e' conservata fino ai giorni nostri, e in molte regioni d'Italia piatti e dolci rituali per devozione si consumano proprio nel mese di novembre.
La dea Flora è stata dimenticata, è vero, ma ancora oggi a Roma, e nelle campagne circostanti dell'Agro Pontino, il primo maggio si usa festeggiate con una scampagnata fuori porta l'inizio della bella stagione, come augurio di prosperità, proprio come a Pasquetta.
E qui, come antipasto o a fine pasto, si prendono fave fresche, pecorino romano, un bel fiasco di Romanella (un vino rosso giovane e frizzantino dei Castelli) e ci si fa carezzare dall'arietta tiepida, rilassandosi e godendosi la convivialità e la primavera.

Metti però che uno ci voglia fare un primo piatto: fave e pecorino.
Nulla di nuovo, esistono già numerose ricette a riguardo, sia per quanto riguarda i condimenti per le paste asciutte che per le paste ripiene. Oggi ho provato questa, ed è una delizia.

Occorrono, a persona:
200 g     fave sgranate
70-80 g pancetta dolce a dadini
2 cucchiai di pecorino grattugiato
1/4 cipolla piccola
olio, vino bianco, sale e pepe q.b.
Lessare in acqua bollente le fave per 5-10 minuti (a seconda della loro grandezza), quindi scolarle ed eliminare la pellicina esterna, che è troppo amarognola, tenendone da parte una cucchiaiata.
In una padella capiente far appassire nell'olio la cipolla sminuzzata, aggiungere la pancetta e far rosolare.
Unire un goccio di vino bianco, farlo evaporare e aggiungere le fave.
Lasciare insaporire il tutto per pochi minuti, salando e pepando a piacere.
Nel frattempo lessare la pasta, lunga o corta non importa, in abbondante acqua salata e, dopo cotta, scolarla e versarla nella padella, facendola saltare per un paio di minuti.
Se occorre unire un paio di cucchiai di acqua di cottura.
A questo punto si inneva la pasta col pecorino grattugiato, si spegne il fuoco e si mescola bene facendo mantecare il condimento.


P.S. Una volta, al mercato, in questo periodo si sentiva, nella cacofonia totale dei venditori il richiamo del verduraio che chiamava le clienti con un: "Donneee, ciò la favaaa!"
Questo nei mercati gestiti da romani de Roma, e chissà se succede ancora, magari a Campo de' Fiori.

Detto romano del giorno
Si a 'sto monno volete esse contenti vardàteve dedietro e nno ddavanti.

Se a questo mondo volete essere contenti guardatevi di dietro e non davanti.


Oggi ascoltiamo
Ardecore - L'eco der core

http://www.youtube.com/watch?v=tlmpurgvaOQ

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