giovedì 26 giugno 2014

Coratella (semmai coi carciofi)

A Roma, quella papalina che per secoli ha formato la fisionomia e il carattere della città, la suddivisione sociale tra nobiltà, benestanti e plebe era rispecchiata chiaramente e candidamente anche nella cucina.
Ai primi due erano riservati i tagli nobili della carne, i due quarti anteriori e quelli posteriori, mentre il popolino si sfamava con il quinto quarto: trippa, rognoni (i reni della bestia), cuore, fegato, milza, animelle (ossia pancreas, timo e ghiandole salivari), cervello, lingua e cotenne.
Ovvero con gli scarti della macellazione.
Ma, ironia della sorte - o giustizia della storia, fate un po' voi - la cucina romana non è il cosciotto d'abbacchio arrosto o l'arista con le patate, ma proprio quella preparata con il saporito quinto quarto.


Coratella, pajata, trippa e coda alla vaccinara, tanto per dire, sono diventati così l'emblema dell'ingegnosità del popolino, della capacità di rendere gustoso quello che veniva ritenuto uno scarto, un rifiuto.

- Che dici, non sembro appetitoso come un manzo?
- Ma taci, cialtrone! E vedi di non perdere pelo, che i fai i coriandoli per casa!
- Eh, ironia, ironia, pussa via...


La coratella classica si prepara con le interiora dell'abbacchio (l'agnello da latte), ma anche con quelle di maiale o di vitello, e nonostante tutte le apparenze non è un piatto difficile da preparare.
Bisogna solo aver l'accortezza di procedere a una cottura graduale dei diversi ingredienti.
Le varie parti (il polmone, il cuore, il fegato e i rognoni) vanno infatti tagliati a dadini e tenuti separati tra di loro, dato che hanno diversa consistenza, e quindi diversi tempi di cottura.

Certo, è più un piatto del periodo pasquale, quando si usa macellare gli agnelli e i carciofi fanno ancora bella mostra al mercato.
L'amaro del carciofo infatti si sposa alla perfezione con la dolcezza delle interiora, non c'è che dire.
Ma siamo in estate, e se non si ha un congelatore come il mio, che sembra di venti litri ma sfocia tranquillo nella quinta dimensione e che contiene verdure di ogni periodo dell'anno - anche estinte - si può comunque preparare la coratella a sé. Nessuno se ne avrà a male...

Nel caso la si voglia carciofare, Mondare (in questo caso capare) quattro carciofi, togliendo le foglie più coriacee, tagliando la punte aguzze del fiore e immergendoli in acqua acidulata con limone per non farli ossidare.
In una padella capiente si fa soffriggere un trito di cipolla in un paio di cucchiai d'olio evo, si aggiungono gli spicchi dei carciofi, tagliati sottili e una spruzzata di vino bianco secco.
Cuocere una ventina di minuti, salando a metà cottura.
Se dovessero asciugarsi aggiungere qualche cucchiaio d'acqua e limone in cui sono stati immersi.

Passiamo alla carne.
In un'altra padella far soffriggere mezza cipolla media con l'olio e quindi la carne.
Prima il polmone, che andrà cotto per una decina di minuti a fuoco vivo, bagnandolo, se occorre, con del brodo o dell'acqua bollente.
C'è anche chi aggiunge una foglia d'alloro e di salvia, per dare un ulteriore aroma.
Quindi il cuore e i rognoni, una spruzzata di vino bianco, e un pizzico di sale.
Dopo altri dieci minuti circa (possono essere 10 come 15, a seconda della morbidezza della carne e della grandezza del taglio) s'aggiunge il fegato, e dopo 3 o 4 minuti i carciofi stufati.
Si lascia andare per altri 5 minuti circa, aggiustando di sale e di pepe, mescolando bene per amalgamare il tutto.


Pa’a coratella, come er minestrone,
nun poi buttà le cose tutt’a 'n botto.
Pe fà sto bendiddio ce vò attenzione
ch’ogni ‘ngrediente chiede d’esse cotto

er tempo che ce vole, e ner soffritto
metti er pormone, poi core e fegato 
nell’ordine, come ‘o vedi scritto
fino a faje avé ‘n colore d’ebano

e pari morbidezza e consistenza.
Così nell’acqua butti la carota
co la patata, e nun ce vò ‘na scienza,
se sa, je serve tempo, è cosa nota,

pe falle ‘ntenerì, e ner frattempo
te poi capà con carma la verdura
più tenerella pe’r seconno tempo,
così nessuna cosa resta dura.

La coratella è ‘n po’ come ‘na folla
ch’ariempie ‘na piazza de colore
e de caciara, e quasi fà spavento
ma ner particolare se fa bella:
ch’ognuno cià ‘n temperamento
e ‘n ticchio suo rinchiuso dentro ar core.

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