Chiunque abbia cercato per qualche disturbo di salute (suo o di qualche persona cara) se non conforto almeno un'esposizione chiara della faccenda si è di certo ritrovato a collegare all'emicrania una qualche forma tumorale maligna.
Molti ne hanno anche ironizzato, ovviamente, ma la tentazione di vedere Internet non come un'immensa bacheca globale ma come la "Summa del Sapere" è sempre in agguato.
Per quel che riguarda poi l'origine delle ricette di cucina, ci sarebbe da aprire un capitolo a parte.
Per esempio, sul Pane Frattau, Wikipedia dice:
"Il pane frattau, noto talvolta anche con la variante pane vrattau, è un piatto tradizionale della Sardegna, preparato specialmente nella regione della Barbagia, e nella parte centrale dell'isola.
Origine
Il pane frattau, è una pietanza composta da ingredienti semplici quali le uova, il pane carasau, tipico pane sardo detto anche carta da musica, la salsa di pomodoro, l'olio d'oliva e il pecorino (...)
Due sono le tradizioni sull'origine di questo piatto:
* Nacque con l'arrivo della II Guerra Mondiale; a seguito dello scarseggiare di cibo, i contadini, specialmente, utilizzavano i pochi ingredienti che avevano a disposizione.
* Una leggenda dice che venne inventato come piatto da presentare al re Umberto I: due donne per la fretta e per il ritardo, durante una visita del re in Sardegna, cercarono di arrangiarsi con ciò che trovarono per dare forma ad un piatto da porgere al monarca. Corsero a prendere della conserva di pomodoro, due uova nel pollaio, del basilico e della cipolla dall'orto e infine presero del pane dalla credenza. Prepararono in fretta e furia il tutto, disponendo il piatto in maniera frettolosa. Offertolo al sovrano, a quanto narra la leggenda, quest'ultimo gradì particolarmente la pietanza. Il nome "frattau", quindi, deriverebbe dalla parola "fretta" o dalla parola "nel frattempo, frattanto".
(...) Questa preparazione molto semplice (ed ancora oggi attuale) poteva essere arricchita con un uovo fatto cuocere nella stessa acqua e adagiato in cima al pane ormai ammorbidito (questo però solo in tempi molto più recenti)".
Ecco, mi dispiace per i redattori di questo elefantiaco progetto ma purtroppo, stavolta, hanno preso na toppa, come diciamo qui, ossia un grosso abbaglio. E anche più di uno.
Di vero c'è solo che è un piatto tipico sardo, il resto invece sembra messo lì per colmare una lacuna che da anni fa parte di quell'immenso gruviera che è la storia della cucina.
Ma è anche comprensibile, visto che non sono in molti a conoscere gli aspetti più reconditi della storia de s'isola e su entu (l'isola del vento).
Quello sardo venne tacciato in passato per uno dei popoli più concreti d'Europa, la cui lingua non sarebbe riuscita ad esprimere alcun concetto astratto, legata com'era al ciclo della vita rurale, con l'agricoltura e la pastorizia a farla da padrone.
Niente di tutto questo, ovviamente, è vero ma, piuttosto, è stato per secoli un crudele stereotipo creato e utilizzato dall'invasore di turno. E interiorizzato dai Sardi stessi.
Che c'è di meglio, per assoggettare qualcuno, che farlo sentire inadeguato, incivile, arcaico?
Ma chi oserebbe dire la stessa cosa dei Latini, che avevano lo stesso tipo di vita e d'economia e che avrebbero dominato tutto il mondo allora conosciuto?
Siamo campagnoli ma la nostra lingua è piena di metafore; e anche pecorari, sì, ma con tanta e tanta fantasia.
Basta leggere uno qualsiasi dei volumi che raccontano le leggende sarde (1) per rendersi conto della moltitudine di esseri fantastici che popolano l'immaginario di questa gente, ritenuta a torto "semplice", se non addirittura sempliciotta.
Ci sono le janas (le fate sarde, sia benevole che malevoli), sa mama e su sole (che rapiva i bambini che solo s'azzardassero a sfidare la calura estiva), e con lei sa mama e su entu (quella del vento furioso) e sa mama e sa funtana (che puniva chi si fosse avvicinato troppo ai pozzi).
E poi s'iscultone (il basilisco, dallo sguardo velenoso), s'erchitu (il bue mannaro), sa surbile (la donna vampiro), sas panas (donne condannate a lavare per secoli i panni dei loro figli morti per incuria), sa musca macedda (la mosca che avrebbe infestato il mondo qualora qualche sprovveduto avesse avuto la sconsideratezza di liberarla per appropriarsi del tesoro che questa custodiva).
Insomma, un'infinità di esseri più o meno pericolosi, ma pure tutti legati ai quattro elementi naturali.
Solo uno non è riportato da alcun mitografo e non compare in nessun testo di etnologia e di folklore sardo.
Lui:
Su Marmuthone
Ma questa non è una semplice marmotta, ma piuttosto un marmuthone.
Est una bestia fea a beru!... All'anima se è brutta, 'sta bestia, verrebbe da dire.
Eppure, come sempre, anche qui è solo l'apparenza che inganna.
Il marmuthone è un essere pacifico e bonario, anche se molto schivo, che preferisce vivere al riparo dagli sguardi degli uomini.
Porta sulle spalle un grappolo di campanacci di varie dimensioni che le janas caciarone - fate che sono, oltre a ottime bevitrici anche ottime fabbre - amano forgiare e poi distribuire nelle notti di luna tra il bestiame degli uomini e gli esseri dei boschi.
E visto che spesso e volentieri le janas caciarone sono talmente ubriache di idromele da non essere certo consapevoli di come distribuire i loro doni, le povere marmotte sarde si sono ritrovate con nugoli di campanacci e campanelli da far invidia a suonatori ambulanti d'una volta.
Nessuno s'azzarderebbe mai a togliere dal collo d'una bestia il campanaccio forgiato da una jana caciarona.
Sarebbe la sua morte immediata.
Per attutire il frastuono di tanto armamentario le janas tessidoras, le tessitrici, hanno preparato per loro dei fazzolettoni (solitamente di color viola, e comunque scuri) con cui essi fermano un cappellino (o una scoppola) che ben calcato sulle orecchie fa loro sopportare il rumore infernale di tutto quell'ambaradam.
Chi l'ha avvistato dice che è talmente carico di campanacci da avere un'andatura tentennante e malferma, e che ogni passo faccia risuonare un coro metallico udibile a chilometri di distanza.
Ma si tratta di oggetti dall'origine magica, e gli uomini spesso non ne possono sentire il rumore se non in particolari condizioni: se ubriachi fradici, per esempio, o innamorati folli, che è - a ben vedere - la stessa cosa.
È da quest'essere che ha origine il mamuthone, la tipica maschera del folklore sardo, le cui fattezze sono celate da una scorza lignea nera come la pece, a significare l'inconoscibilità di questo essere fantastico.
Ed è proprio a un marmuthone che si deve attribuire la nascita della nostra ricetta del giorno.
Fu infatti uno di loro a crearla molti secoli fa, con pochi e semplici ingredienti.
Narra la leggenda che un tempo una marmottina curiosa cercò di togliere dalle spalle del suo compagno il pesante carico di campanacci. Bisogna sapere infatti che solo le marmotte alle maschio vengono appesi simili doni delle janas, ma nessuno ne ha mai compreso ancora la ragione.
La povera marmottina, ignara del pericolo che avrebbe corso, decise a tutti i costi di sfidare la regola e di alleggerire la schiena del suo amato, e di farlo quando questi si fosse addormentato, per non essere ostacolata dal suo diniego.
Così una notte di luna, dopo aver fatto mangiare al suo marmuthone una bacca di passiflora fatta passare per albicocca, tolse uno ad uno tutti i campanacci che gli avevano curvato il collo e assordato le orecchie.
Ma appena che ebbe tolto l'ultimo, un piccolo campanello d'ottone di squisita fattura, la marmotta cadde a terra stecchita.
Ripresosi dal torpore il marmuthone capì subito cos'era successo e disperato girò in lungo e in largo tutta l'isola per cercare qualcuno che potesse annullare quel tremendo maleficio.
Ma nessuno poteva o sapeva aiutarlo.
Solo un cavallo verde (2) gli disse quello che nessuno avrebbe avuto il coraggio di dirgli.
- Solo il diavolo in persona può aiutarti...
E così il marmuthone decise di evocare Lusbè, Lucifero, per chiedergli che gli fosse data indietro la sua amata marmottina.
A quel tempo bisognava stare attenti perché il diavolo, o almeno l'essere che presiedeva l'Oltretomba, poteva essere evocato anche solo nominandolo, e ognuno faceva ben attenzione che ciò non avvenisse.
Appena il marmuthone ne fece il nome sentì, dietro di sé lo scalpiccio di un cavallo.
Un uomo molto elegante e vestito di nero stava avvicinandoglisi in sella ad un bellissimo purosangue anch'esso tutto nero e lucido. Giunto che fu a pochi passi da lui si fermò e lo guardò senza parlare.
Non sappiamo cosa si dissero esattamente i due, e con che tono il marmuthone cercò di nascondere il suo appello accorato.
Il diavolo chiese soltanto una cosa: un piatto che fosse semplice e buono, e se quel sapore l'avesse fatto sorridere la marmottina sarebbe tornata sana e salva sulla terra.
Di semplice - pensò il marmuthone - c'è solo il cibo dei nostri pastori, ed è solo da loro che otterrò gli ingredienti di questo piatto che conquisterà anche il diavolo.
Per prima cosa pensò al pane carasau, la carta musica che accompagnava ogni giorno i custodi del bestiame.
Uno di loro, impietosito dalla sua storia, gli donò una sporta di grandi fogli rotondi di pane, fragili e leggeri.
Un altro, reso ubriaco da un paio di litri di idromele, gli diede dei pomodori e del pecorino bello stagionato che formavano il suo companatico.
Un altro, che aveva con sé solo un uovo, fu felice di regalarglielo.
Quella notte il marmuthone si apprestò a lavorare alacremente per preparare quello che sperava fosse il piatto della salvezza.
Le sue zampe però erano troppo piccole e le sue unghie troppo aguzze per poter maneggiare quegli ingredienti così delicati.
La carta musica? L'uovo? No, no, avrebbe di certo rovinato tutto.
Cercando di accendere il fuoco, per esempio, s'era bruciato i baffi e adesso piangeva di dolore, di rabbia e d'umiliazione. Cercando di tagliare a pezzi i pomodori si schiacciò una zampa con un sasso appuntito e quasi perse i sensi alla vista del suo sangue. Lo scoramento fu tanto che sospirò pensando alla sua marmottina, persa per sempre.
Fu allora che le sue lacrime, il suo sangue e il suo sospiro evocarono la presenza delle janas caciarone.
Strano che fossero ancora sobrie, ma probabilmente ciò dipendeva dal fatto che la luna era ancora al primo quarto, e in quel periodo erano quindi tutte intente nella forgiatura dei metalli.
Quando lo videro chino su se stesso ebbero pietà di lui e ognuna di loro fece in modo di far qualcosa per rimediare a quello che avevano combinato in stato d'ebbrezza.
Recipienti di metallo e strumenti d'ogni foggia non mancavano di certo nel laboratorio di queste fabbre provette, e pentolame, coltelli e mestoli d'ogni tipo facevano parte del corredo tipico d'ogni jana che si dicesse tale.
Da brave lavoratrici di metalli poi, il fuoco era l'elemento d'ogni giorno.
Il marmuthone non fece quindi tutto da solo. Come avrebbe potuto?
Una di loro raccolse in una pentola dell'acqua e ci mise delle erbe aromatiche per farne un saporito brodo vegetale.
Un'altra tritò i pomodori e ne cucinò la polpa in un tegame.
Un'altra ancora in una pentolina più piccola cosse l'uovo direttamente fuori dal guscio nell'acqua bollente.
In camicia, diceva lei, e ancor oggi si dice così.
Appena il brodo fu pronto la prima delle janas lesse negli occhi del marmuthone la sua intenzione di ammorbidire e insaporire il pane nel brodo.
Bastò un istante e il foglio di friabile carasau divenne un morbido lembo di pasta.
La seconda condì ogni foglio di pane con un mestolo di salsa di pomodoro.
La terza, che aveva grattugiato il pecorino, ne spargeva manciate - le janas erano sì fate, ma anche piuttosto rudi - su ogni strato di sugo.
E così le tre fate, alternandosi, prepararono una torre di carta musica ben condita di sugo e formaggio.
L'ultima, sempre distratta si guardò attorno, cercò qualcosa e quindi, dandosi un colpo sulla fronte, prese l'uovo in camicia e lo poggiò in cima al timballo di pane.
- Fatto! - Fece l'ultima jana con un gridolino. Aveva una voce a metà tra un camionista e una transessuale.
- Non è stato difficile, no? - Disse la seconda.
- Certo, se ci avesse provato lui, con quelle zampe che si ritrova, il pane l'avrebbe tottu frattatu!...(3)
- E adesso... - Pensò il marmuthone intimorito - Non mi resta che chiamare Lutziferru e via, senza perdere altro tempo! Lusbé! - Esclamò a gran voce.
L'uomo comparve all'istante facendolo sussultare. Non ci si poteva mica abituare così, su due zampe, alla vista del diavolo...
- Allora, cos'è che mi hai preparato con quelle zampine delicate? - Gli fece quello in tono ironico.
Il marmuthone si guardò gli artigli che, tutt'al più potevano servire solo a frattare il pane e, con un sospiro, porse al diavolo il timballo di pane.
- Vediamo un po' cosa c'è qui - Fece serio serio l'uomo, con lampi di luce rossa, come lingue di fuoco negli occhi.
Tolse dalla tasca dell'elegante giacca nera una forchetta d'argento e prese un pezzo di pane imbevuto di brodo, sugo e formaggio.
Come iniziò a masticare ai lati della sua bocca comparve l'ombra d'un sorriso, ma al marmuthone impietrito dalla tensione sembrava il riflesso del fuoco sulle pareti di un camino.
Quando la forchetta ruppe la tenera pellicola dell'uovo e un po' di tuorlo cremoso si versò sulla superficie del timballo l'uomo sorrise.
Un altro boccone e il sorriso divenne un fuoco caldo e corroborante.
Un altro boccone ancora e il fuoco divenne un vento dell'ora mala, un'incontrollata e rovinosa forza della natura.
- Marmuthone, m'hai convinto. Questo è proprio quello che cercavo. Vai, oltre quella collinetta c'è una radura e là troverai quel che cerchi tu.
Il povero esserino si precipitò nella direzione indicatagli da Lusbé, poi si voltò un istante per ringraziarlo, ma dell'uomo elegante in nero non c'era più traccia.
E s'era portato via anche tutto il pane frattau...
Il marmuthone raggiunse la collinetta, la superò, col cuore in gola.
Laggiù, in una piccola radura c'era un campo di trifoglio e sul prato era distesa una figura.
Sembrava dormisse. O forse era morta...
La marmotta corse a perdifiato, favorito dal fatto di non portare più sulla groppa quel mucchio di pesanti campanacci metallici, e raggiunse la sua compagna.
Si chinò su di lei e s'accorse con un salto in gola che stava respirando.
Era profondamente addormentata.
La prese tra le zampe e la strinse a sé. In quel mentre lei aprì gli occhietti neri e lo guardò tramortita.
- Ehi, non stringermi così!... E come mai piangi?... La sai una cosa? Ho fatto un sogno stranissimo...
- Vieni qui, con me. Te lo racconterò io... - Le fece il marmuthone, felice.
NOTE
1) Le fonti utilizzate sono i volumi: "Leggende e tradizioni di Sardegna" di Gino Bottiglioni (ed Ilisso, un classico del folklore sardo), "Leggende sarde" di Grazia Deledda (versione ebook di Liber Liber) e "Creature fantastiche in Sardegna" di Claudia Zedda (ed Davide Zedda). Oltre a, naturalmente, decine di pagine web sull'argomento.
2) Nonostante ci sia chi crede che siano esistiti davvero cavalli il cui pelo, infestato da una specie di lichene del sottobosco, avesse un colore verdognolo, i caddos birdes sono delle creature di fantasia, dei cavalli di piccola statura (un po' come i cadeddos, questi sì reali, dell'altopiano di Giara ma dal pelame verde).
Il loro nome è usato per antonomasia a designare un qualcosa difficile da trovare o molto raro.Un proverbio sardo dice infatti: Homine affortunadu pius raru chi sos caddos birdes, ovvero: un uomo fortunato è più raro dei cavalli verdi.
Queste creature leggendarie avevano dei poteri magici e benefici, ma erano anche fonte di guerre e sciagure scatenate dalla smania del loro possesso.
A Suni, presso la chiesa di San Pancrazio, si dice che vi fosse un pozzo la cui acqua, se fatta bere alle cavalle pregne il giorno del santo e nel momento in cui veniva alzata l'ostia, pare facesse nascere dei puledri dal pelame verde.
Il re di Monteleone e quello di Bisarcio pare ne possedessero uno, e questo fu causa dell'invidia e della guerra tra di loro, come anche della scomparsa di alcune città: Barace e Sant’Antioco di Bisarcio.
Nel paese di Villanova Monteleone, nel sassarese, nei pressi di una Domus de jana (delle necropoli paleolitiche che si credeva fossero de dimore delle fate, da cui il nome) presso Monte Germinu c'è Sa urmina de su caddu 'irde, l'orma del cavallo verde, impressa nella roccia. La gente del luogo consiglia di osservarla a debita distanza. Passarci sopra a piedi o a cavallo sarebbe segno di eterna malasorte.
A Borore si mettevano invece come segno benaugurante dei cavallini verdi sui tetti delle case.
Non sono quindi questi esseri a portare sfortuna, quanto l’insipienza degli uomini che pretendono di possederli o di usarli in funzione del proprio risentimento.
A questa storia ne fa eco un’altra che ebbe inizio quando Castel Sardo si chiamava ancora Castel Doria. I misteriosi cavalli verdi non sarebbero altro che il frutto della maledizione di una strega che, nell’arco di una notte, avrebbe trasformato ogni pianta in un cavaliere e in un cavallo verde.
Sos caddos virdes appaiono all'improvviso e tanto improvvisamente scompaiono.
Impossibili da domare, non sono mai stati montati da nessuno, sono quindi simbolo d'una libertà di cui i Sardi non hanno mai goduto.
Si narra anche che uno di loro si farà cavalcare il giorno in cui verrà il Re Pastore, che verrà in un giorno a portare pace e armonia tra l'uomo e la natura.
In passato durante la festa di S. Giovanni (il solstizio d’estate) a Lodé, si teneva palio dei cavalli verdi in onore del santo. Non erano di certo cavalli dal pelo verde ma i migliori cavalli dell'isola, che venivano fatti correre ricoperti di un drappo verde.
Il cavallo nel mondo agrario è sempre associato al rigenerarsi della natura col suo ciclo di nascita, morte e rinascita. Queste corse erano forse un rituale di fertilità e abbondanza, visto che il cavallo conosceva i segreti percorsi sotterranei delle acque e contribuiva al rigenerarsi della natura dopo la morte dell'inverno.
3) frattatu, fratta(d)u - Fatto in piccoli pezzi, grattugiato; da frattare, grattugiare (da Massimo Pittau – Nuovo vocabolario della lingua sarda, vers. web)
Detto sardo del giorno
Non totu si podet narrare.
Non tutto può essere raccontato.
Oggi ascoltiamo
Tazenda - Bon Nadale
http://www.youtube.com/watch?v=OtQdvjbjRG0
Buono il pane frattau, ottimo! Però ti do un'altra possibile traduzione di frattau, che in alcuni dei mille dialetti sardi (tra cui il mio) significa nascosto, infrattato, infatti il pane è nascosto dal sugo e dall'uovo... stessa storia per la suppa cuadda gallurese, infatti nell'omonimo dialetto cuaddu significa nascosto!
RispondiEliminaUn'ultima considerazione, NESSUN sardo chiamerà mai il carasau carta da musica, è in'inventu di voi continentali, non so come non so perché ma se vuoi spacciarti per sardo pillitto non dirlo mai!
Interessante anche l'altra etimologia. E secondo me, sono tutte calzanti, no? ;-)
EliminaChe bona la suppa cuada... ne vado matto...
Ma lo sai che non sapevo il fatto che "carta musica" fosse un termine "continentale"?
Buono a sapersi: non correggo il post solo per pigrizia, ma giuro: non m'uscirà più dalla bocca!
Un abbraccio
r
Per me sei un continentale con i controcoglioni. Questa storia è bellissima. Sei un genio e credo proprio che la racconterò alle mie piccole nipotine...eccetto la parte in cui si scopre che la janas ha una voce da transessuale...quella la ometterò. Anche se devo dire che mi ha fatta morire dalle risate. E grazie della ricetta...pur essendo sarda non la conoscevo.
RispondiEliminaUn abbraccio
E
Mi vuoi proprio far arrossire, Sallyanna? Così poi sembrerò un pomodoro sanmarzano! Grazie, ma davvero tanto.
EliminaE la cosa che più m'ha fatto piacere è che vuoi raccontare la fiaba alle nipotine.
Il marmottone è un personaggio molto, molto simpatico. E sì, pure le janas, anche se un poco ambigue e "leggermente" alcolizzate.
La ricetta è d'una semplicità disarmante ma sai una cosa? Avevo fatto porzione doppia e... ops! È finita subito...
Le cose semplici sono le migliori, è proprio vero.
Un bacio a sa Sardigna, se vivi lì, sennó lo mandiamo in due. ;-)
A presto