Così cantava Nino Manfredi nel 1970, facendo diventare un classico della canzone romanesca un brano semidimenticato degli anni Trenta scritto da quel mitico animale da palcoscenico che fu Ettore Petrolini.
Era il 1932, ed evidentemente la vita doveva essere davvero amara dopo dieci anni di dittatura fascista, nonostante la propaganda sbandierata dal regime propalasse una felice e rustica italianità.
E chi faceva spettacolo, come Petrolini, doveva non solo essere un bravo interprete e avere una figura carismatica sul palco, ma doveva anche saper dosare l'ironia (la vera merce rara dell'epoca, figuriamoci poi il sarcasmo...) con la prudenza, in un sottile e delicato esercizio da equilibrista.
Una chitarra per cantare, quindi, e tornare ad essere spensierato come ai bei tempi della giovinezza, quelli del primo amore, e dimenticare così le brutture di un'epoca cupa sul cui orizzonte si profilava l'ombra nera della guerra.
Era un modo velato, come ogni canzone del periodo, per dire: "Ma sì, passerà anche questa", "Non stiamo ad arrovellarci", "Se posso, me ne frego io".
In poche parole, il tanto attuale e declamato Metodo Sticazzi, l'unico vero apporto che la romanità abbia dato alla psico-sociologia mondiale .
Manfredi la ripropose nel pieno d'un altro furore epocale, il '68, che stava scardinando molte certezze ritenute assolute, in un mondo diviso tra potenze criobelligeranti, attanagliato dalla crisi petrolifera a intermittenza e con l'austerity alle porte (chi ricorda l'aumento dell'uso delle biciclette a Roma negli anni a seguire?)
Insomma, una chitarra, un fil di voce e tanta voglia de svagasse e de nun pensà.
E allora a proporre quest'ansia da "disimpegno" ci voleva un personaggio rassicurante, amato dal pubblico per la sua bravura (veniva dall'Accademia nazionale d'arte drammatica, mica cotiche) e dotato naturalmente di una calda e garbata umanità.
Il ciociaro più romano de Roma non pensava certo che quel gioiello petroliniano sarebbe tornato a risplendere, diventando un classico della canzone romana.
Brani anche moderni che diventano subito, per lo spirito dei tempi e per la magia della musica, dei veri e propri classici da repertorio.
Quand'ero (un po' più) piccolo mi stupì molto sapere che "Arrivederci Roma" era stata scritta da Renato Rascel solo nel 1955, e che "Roma nun fa la stupida stasera" (vera chicca del Rugantino di Garinei & Giovannini, musicato dal Maestro Armando Trovaioli) era addirittura del 1962.
Ecco, questo per dire che non sempre occorre fare gli archeologi della cultura e rispolverare armonie semidimenticate (operazione lodevole, tra l'altro).
Spesso si scopre che ciò che fa di una musica (o di un qualsiasi prodotto culturale, come dei versi, un romanzo, ecc.) un classico, o un oggetto cult, è soltanto l'essere "scoperto" e accolto come tale.
È, insomma, rispecchiare nella sua semplicità l'essenza non solo del momento ma quel quid che anima la cultura popolare.
Come "La cura" di Battiato, tanto per fare esempio.
Rugantino è ambientato nell'Ottocento (e, guarda caso, fu proprio Manfredi il primo Rugantino della storia del teatro, quello della prima edizione del '62) ma si propone in una dimensione volutamente atemporale, e quindi più che un dipinto di Roesler Franz è quasi una cartolina (di ieri, di oggi. o anche di domani) con uno sfondo di muri sbrecciati che sembrano eterni.
Ed è sì romano nella forma (Rugà vuol dire fare lo sbrasone, il fanfarone, da tipico perdigiorno d'altri tempi) ma universale nella sostanza.
Tante canzoni romane invece sembrano quasi scritte in latino da quanto sono datate.
Le canzoni della mala d'Ottocento, per esempio, paiono lontane anni luce dalla mala di Romanzo criminale, per capirci, e non solo per il contesto storico ma per il semplice fatto che la mala "storica" non esiste proprio più.
Insomma, pe fà la vita meno amara me sò comprato na chitara.
Non questa...
...ovviamente, visto che sempre di Muccardo si tratta, e che l'unico strumento che sappia suonare sono i piatti. Quelli di ceramica...
Ma di questa:
Non è una ghironda, o un'arpa abbruzzese.
È proprio una chitarra, anzi unu maccarunàre.
Viene proprio dall'Abruzzo, il sud più a nord della penisola, terra spartana e semidimenticata dagli itinerari tutistici ma ricca di sorprese e di gioielli nascosti.
La gente, innanzi tutto.
Abruzzese forte e gentile, e mica è così per dire.
La scorza rude di chi è abituato, quasi geneticamente, a vivere in modo degno nonostante tutte le difficoltà e, sotto la coccia dura e (quasi) inaccessibile, la generosità e il calore che solo la gente "semplice" sa avere.
Una specie che, a differenza dell'orso marsicano, resiste ancora, e che cerca, quasi inconsapevolmente, di mantenere quello che è il vero patrimonio dell'essere umano.
Proprio quello di cui abbiamo bisogno in tempi dove si viene spinti in tutt'altra direzione.
Avevo trovato quest'attrezzo in un mercatino e visto che stava in ottimo stato l'ho preso, ma più per curiosità che per altro.
L'avrò usato infatti un paio di volte, a dir tanto.
Ma allora ero un impastatore implume, e non sapevo quanto sarebbe stato facile tenerlo a portata di mano e preparare, alla bisogna, una bella (doppia) porzione di maccheroni alla chitarra.
E poi è un oggetto bello di per sé, con quei fili d'acciaio tesi come corde d'arpa che, sfiorati, producono una musica che non ricorda Paradisi ma La sora Cencia.
Usare la chitarra per fare i maccheroni è facilissimo.
In primis la pasta: acqua e farina già bastano, per i maccheroni, ma se si vuole usare l'uovo nell'impasto si potranno avere dei gustosi tonnarelli (da fare cacio e pepe, tanto per dire).
Dopo aver lavorato a lungo la pasta e averla lasciata riposare la classica mezz'ora, la si stende e si formano delle strisce non troppo lunghe, che andranno poggiate sulla chitarra.
Pressando con il matterello la sfoglia di pasta sui fili d'acciaio si ottengono così degli spaghetti a sezione quadrata, che saranno spessi dai due ai tre mm, a seconda del lato della chitarra che verrà usato.
Una pasta così rude e paccuta chiede a gran voce la compagnia di ragù e di sughi di carne.
Se ingentilita con l'uovo si accontenterà anche di cacio e pepe o, col guanciale annesso, di un'amatriciana senza pomodoro, la fatidica gricia (prossimamente su questi post).
E se invece lessassi dei broccoletti e li ripassassi poi in un soffritto di (tanto) aglio e pancetta?
Non è meno rustica e rude, no?
Ovviamente, se durante la cottura della pasta squilla il telefono occcorre non rispondere e far finta di essere partiti per la Patagonia a cercar conchiglie.
Ci si ritroverebbe infatti con una pasta un po' troppo cotta che si avrebbe la voglia di mettere come cappello sulla testa dell'incauto telefonatore di turno...
Ma il segreto di una serena e placida esistenza è anche accontentarsi e fregarsene, se occorre.
E quindi anche di magnarsela così come viene.
Tanto pe magnà...
Detto romano del giorno
Accosta er pane ar dente che la fame s'arisente.
Ossia, l'appetito vien mangiando.
Oggi ascoltiamo
Nino Manfredi - Tanto pe cantà
http://www.youtube.com/watch?v=tkRW5q0DzVg
e l'esilarante parodia
Ciccio Ingrassia - Canto pe magnà
http://www.youtube.com/watch?v=iwjl29BnfSo
Nessun commento:
Posta un commento