Gli anni Settanta sono stati anni fervidi, di movimento, di tensione e per un certo verso anche di consolidamento.
I quarantenni di oggi, qei figli del baby boom della metà degli anni Sessanta, erano troppo piccoli per aver vissuto la carica liberatoria del Sessantotto, troppo piccoli per rendersi conto della normalizzazione in atto (e che sarà omologazione schizofrenica dieci anni dopo) e del mutamento sociale e antropologico introdotto dalla società consumistica, o di quanto fosse drammatico non solo sul piano personale il naufragio nella droga di tanti atti culturali allora "eversivi".
E finanche troppo piccoli per capire com'era davvero vivere fino a dieci anni prima. In Italia, poi.
Solo chi ha avuto genitori già avanti negli anni ha capito il contrasto tra il mondo com'era "prima", scomparso per sempre, e quello che si stava vivendo ora, che pareva d'un'immobile normalità ma che normale non era.
La maggior parte delle nostre madri, allora quarantenni, sarebbero sembrate oggi delle babbione senz'altra grazia che quella trascinatasi come una dote da una lontana infanzia di paese.
Certo, bisogna capire i nostri padri: uscivano da un imbarbarimento secolare che li voleva tutti cafoni col fazzoletto al collo appena tornati dal lavoro nei campi, e si capisce anche l'entusiamo con cui finalmente vedevano nello sviluppo la fine di generazioni di pezze al culo affrancate dalla modernità, e nei suoi feticci tecnologici una patente di dignità nella quale avevano sempre segretamente sperato.
Paradossalmente "Lo zappatore" del poro Mario Merola denuncia una grande verità, quella della nuova generazione che si vergogna di quella vecchia, che farebbe di tutto pur di non essere accumunato a quella masnada di pezzenti a cui erano finora appartenenuti nonni e bisnonni.
Ovviamente non bastava "il titolo di studio" per sentirsi esentati dalla miseria, non era il "posto fisso" a garantire la rispettabilità borghese in cui ogni povero morto di fame aveva sempre aspirato per essere considerato davvero un "signore", alla faccia della "coscienza di classe" di cui si riempivano la bocca soprattutto i sazi intellettuali dell'epoca.
Aspiravamo al salotto buono, noi ex-pezzenti, al divano arabescato coi centrini di pizzo sulla spalliera e sui braccioli, alla macchina "bella", alle vacanze - e al mare, per carità, che di campagna e campi ne avevamo una sorta d'avversione inscritta nel DNA di secolari contadini.
Insomma siamo stati, prima di diventare frustrati consumatori, dei borghesi piccoli-piccoli, con aspirazioni piccole piccole ma con in mente sempre il mito del decoro e della rispettabilità, qualunque cosa significassero quelle parole, e che finora erano stati appannaggio dei signori di nascita e di censo.
Siamo un popolo di pretenziosi, di burini arifatti e di spocchiosi parvenu, non c'è che dire.
Non si spiegherebbe sennó il successo di certe figure politiche che hanno fatto leva sul bisogno di riscatto a tutti i costi, quello che insegue come un doberman impazzito e costringe ad atti coattivi di rara idiozia.
Comunque, negli anni Settanta (del secolo scorso, ahimé...) l'analfabetismo sembrava essere finalmente una piaga se non proprio debellata almeno in via di estinzione, e scoprivamo dopo anni di sviluppo senza progresso come fosse desiderabile essere oltre che cittadini, e magari colti, anche persone sofisticate.
Quelli sono stati anche gli anni delle enciclopedie.
La cultura era ammonticchiata sulle pareti del salotto buono o dello studio, per chi lo aveva, e con costante beozia italica, cercata nella collezione dei testi più che nella loro lettura.
Ci si voleva emancipare anche intellettualmente, e cosa di meglio che un'Enciclopedia?
Una raccolta di saperi universale (la parola "enciclopedia" era unita in un binomio inscindibile con la parola "universale". Non fosse mai che rischiasse di risultare provinciale...)
Non era tanto la sete di sapere che muoveva all'acquisto dei preziosi fascicoli settimanali, ma il desiderio d'essere considerati degli eruditi, quasi per osmosi con la vicinanza dei Sacri testi Sapienzali.
E la smania di riscatto affliggeva ogni campo, tanto che la buonanima di Diderot sarebbe stata combattuta tra la soddisfazione e l'orripilamento.
Alle Storie, antiche o moderne che fossero, s'univano poligrafie del regno animale in vari volumi, florilegi delle opere d'Arte (sempre in maiuscolo, ça va sans dire) o dei prodigi della Scienza e della Tecnica.
E, stranamente, sempre in un numero pari di volumi, a differenza dei confetti e delle rose.
Sarà stato questo a portare le encilopedie a un rapido decadimento?
O forse fu perché quella sfilza di fascicoli settimanali non li leggeva in realtà nessuno e quindi gli editori, da brave faine, capirono bene che era giunto il momento di passare dal testo all'oggetto, dall'Enciclopedia alla Collezione?
Fu così che la raccolta di improbabili gadget "made in China" prese il posto delle voci scritte da eminenti e/o emerite personalità accademiche.
La Rete era ancor là da venire, il Sapere Comune era un'irraggiunta utopia, ma già eravamo sommersi da ventagli dipinti, servizi da cucito dell'Ottocento, stroviglie coi personaggi dei cartoni, rosari di varia natura e santini per ogni giorno dell'anno.
Mancava solo la collezione di profilattici del Settecento, ma solo perché eravamo, e siamo, sotto la giurisdizione vaticana.
Insomma, per anni il senso d'inferiorità che ci veniva da una secolare ignoranza si nutrì, o almeno si alleviò, grazie all'acquisto di fascicoletti settimanali da far rilegare con cura.
Tutto ciò avvenne anche in altri campi: se la modernità - intesa come la mera tecnica - parlava ormai inglese, la moda e la cucina s'esprimevano in francese, e l'Italia subiva con sadico piacere l'invasione degli anglotecnicismi soffrendo però lo smacco del confronto con tutto ciò che fosse transalpino.
Allora bastava dare un nome gallico a una saponetta per aggiungergli una parvenza di sofisticata eleganza, come testimoniano le pubblicità dell'epoca. Figuriamoici quindi in campo culinario.
Le ricette d'oltralpe scendevano dalla Corte al popolo, le nostre invece parevano essere rimaste nella corte, quella del casolare però. Ci sarebbero voluti anni e il caparbio orgoglio per le proprie origini di Gualtiero Marchesi per rivalutare la cucina di casa nostra.
In uno dei testi dell'epoca, siamo nel 1972, fu un'enciclopedia della cucina allora molto popolare che cercava d'instillare un sentimento di raggiunta e rassicurante raffinatezza.
Finalmente, una volta imparate le ricette, così ben spegate passo passo, si sarebbe stati assunti nell'empireo dei Ricercati Gourmet e Gormandise (pur sempre all'ajo e oio, però).
E, ancora una volta, il tentativo di instillare l'aspirazione a quella che era pretesa essere la finezza e l'eleganza, anche nell'ambito alimentare.
Leggendone l'introduzione e le note si hanno subitanee illuminazioni.
La prima è che la "nostra" enciclopedia era l'edizione italiana di quella francese (La Grande Cuisine Française) a cui aveva collaborato Paul Bocuse, Presidente dell'Associazione Chefs [testuale!] Francesi.
Secondo, la nota dell'editore tra le varie cose dice, testualmente:
Nel presentare un dolce ai vostri ospiti non presenterete un dolce qualunque, ma un "Arabesco alla panna", un'"Aureola di ciliege" [Testuale e pervicacemente ripetuto, senza la "i"], un "Bucaneve di meringa" e così via.
Non un piatto di verdura ma un "Capriccio di melanzane" o una "Banderilla di funghi".
Non un comune pesce ma una "Bordatura di luccio" o una "Bisque di gamberi".
E così via, in un crescendo di "Arlecchinata dello chef", "Babele di crêpes", "Baiadera di riso all'indonesiana", "Bazzecole al forno", "Caleidoscopi di frutta", "Cantici di fragole", "Capricci di fegato Neuenburg", "Caroselli andalusi", "Dentici in bella vista" e via via in un crescendo delirante.
Fino a sbandamenti di gusto quali "Abbacchio Excelsior"...
Ci meravigliamo forse del fatto che, negli anni seguenti sarebbe stato tutto un fiorire e proliferare di "Botteghe oscure", come venivano chiamate sul tanto rimpianto settimanale "Cuore"?
Ci saremmo aspettati qualcosa di diverso dalle "Buotique della carne" o i "Capricci di pane"?
Da "Il tuo ortolano" e "C'è pizza per te"?...
vorrei sapere l'argomento del volume 7 che mi sembra il più usato, noi si comprò l'enciclopedia Vallardi, ancora serve a mamma per la settimana enigmistica :)
RispondiEliminaDopo la S, degue la T di... TORTE!!!
EliminaLa Vallardi è stata (ed è) un'ottima enciclopedia, mi è capitato di sfogliarla.
Da ex ex edicolante posso solo dire che noi eravamo affezionati alla Armando Curcio ed.
Come il pane!
mmmm, prima comunione=enciclopedia dei ragazzi. Tela rossa cartonata e dieci volumi. Poi nella casa editrice in cui ho lavorato ho seguito per anni la redazione del volume annuale di aggiornamento, ma non c'era la sezione cibi, Però c'era "incastri e commettiture" con disegni spettacolari, se da grande avessi voluto fare l'ebanista! 'notte
RispondiEliminaChe belle le maddalenine di carta delle nostre infanzie! Ognuna col suo profumo e i suoi colori!
EliminaAh, i disegni all'americana di "Tecnorama", dove il Giurassico diventava un'isola perduta di qualche mare senza nome, vivo e presente, coi suoi dinosauri con la bava alla bocca e le vene in rilievo su tutto il corpo, per altro coloratissimo.
Ma come si fa a non rimpiangere il momento di stupore e rapimento quando si sfogliavano quelle pagine?
Delle volte vorrei tornare a quello stato di verginità per riprovare la stessa meraviglia della prima volta.
Di altre verginità farei ben a meno, ma quella...
Diplodochi, archeotterigi e stegosauri miei, venitemi almeno in sogno!